The Book in Fact and Fiction in Pre-Modern Arabic Literature, Antonella Ghersetti and Alex Metcalfe (Edited by), in “Journal of Arabic and Islamic Studies”, Volume 12 (2012), pp. 265.

Nella recente narrativa araba, sempre più spesso uno dei perni intorno a cui ruota l’intera vicenda è un tesoro nascosto o andato perduto e ricercato dal protagonista (o dai protagonisti) della storia. Sovente, questo tesoro è rappresentato da un testo, di solito manoscritto, sia esso formato da un foglio o da pochi fogli o da un taccuino o da un quadernetto. In altri casi, invece, gli eroi si imbattono per caso in qualche scritto della cui esistenza magari non erano a conoscenza o, semplicemente, immaginano di rinvenirne uno. Spesso, inoltre, l’oggetto tanto bramato o sognato o insperato si trova chiuso in valigie o direttamente sottoterra o nella polvere, magari in una caverna o tra antiche vestigia, oppure all’interno di casse o scrigni ben sigillati e quindi interrati. In alcuni casi ancora, poi, documenti altrettanto rivelatori vengono rinvenuti in un computer, magari nella corrispondenza. Addirittura in messaggi sul telefono cellulare. Infine, può accadere che ci si debba sbarazzare di questo tesoro in materiale scritto perché è di contenuto tanto pericoloso da avere perfino il potere di minare alle basi la società e l’autorità che, estremamente attenta a non permettere che questo accada, ne punisce con crudeltà finanche i meri possessori, oltre che gli autori.

Le situazioni descritte dagli autori arabi contemporanei, come ben si evince, sono dunque varie e molteplici; tuttavia, tra di esse si può rilevare un sicuro punto di convergenza consistente nel fatto che i testi (manoscritti o non che siano) si rivelano una sorta di eredità tramandata (più o meno consapevolmente) dagli avi o da altre persone, un legato che sembra assumere su di sé la facoltà di aiutare l’eroe della singola narrazione a riflettere sulla propria esistenza e su quella di chi lo ha preceduto, così come pure ad aprire gli occhi sulla realtà circostante e a uscire dalla nebbia che lo avvolge.

Inoltre, tutto questo può suggerire diverse ipotesi interpretative sul significato, anche simbolico e misterico, in special modo del testo scritto (in quanto oggetto e per il messaggio che intende diffondere) che, d’altronde, indubbiamente attrae su di sé l’attenzione del lettore, specialista e non.

Esattamente il testo scritto e in particolare quello manoscritto, nelle sue molteplici declinazioni e nella sua valenza culturale, ma specialmente quale veicolo di conoscenza nel senso più ampio del termine, è l’argomento focale su cui si sono soffermati gli studiosi che hanno partecipato al volume The Book in Fact and Fiction in Pre-Modern Arabic Literature. Si tratta di un’opera nata con l’ambizioso proposito di studiare il “libro” dalle più svariate e, se si vuole, controverse, angolazioni, anche per colmare alcune lacune emerse da un’approfondita analisi dei risultati delle ricerche finora condotte in merito. Tali lacune si riferiscono soprattutto ad una ancora inadeguata disamina del libro in quanto trasmettitore di sapere, come sottolinea Antonella Ghersetti nel ricco ed esaustivo editoriale. Di conseguenza, questo lavoro collettaneo è stato pensato per venire incontro e rispondere ad un’esigenza avvertita molto fortemente da coloro che del libro e della sua storia all’interno della civiltà arabo-islamica si occupano, vale a dire quella di esaminare le «representations and images of the Arabic Book in pre-modern period, both as reflected in the literary sources, and in the documentary evidence» [p. 3], secondo quanto sottolineato dalla co-curatrice, insieme con Alex Metcalfe, dell’importante volume.

Il lasso di tempo preso in considerazione in questa sede è, pertanto, di notevole rilievo, perché, data la ponderosa tradizione manoscritta nella civiltà araba, proseguita in maniera considerevole ben oltre l’introduzione della stampa – o della sua capillare diffusione – nell’Oriente arabo, è sembrato quasi un atto dovuto soffermarsi su di esso, ancor di più in un periodo storico, qual è il nostro, in cui il concetto di libro continua ad essere sempre più sfumato e a colorarsi di nuovi contorni. Partendo, allora, dall’avvertita necessità di comprendere in profondità il tesoro costituito dal libro, che è il depositario della storia, tanto individuale quanto collettiva, coloro che hanno partecipato alla redazione dell’opera, hanno voluto indagare alcuni aspetti dell’evoluzione del kitāb, con l’obiettivo di illustrare la variegata realtà di testi scritti (o, meglio, manoscritti) di cui la civiltà araba del periodo pre-moderno è costellata e, insieme, la vivacità intellettuale di tali secoli, specialmente di quelli che troppo spesso e troppo a lungo sono stati etichettati come “bui”. L’epoca esaminata, dunque, è molto estesa, partendo dal IX secolo, in piena età dell’oro dell’impero abbaside (VIII-XIII sec.) e dell’intera civiltà arabo-musulmana, con il celebre poligrafo al-Ǧāḥiẓ  (m. 869) – la cui ambigua posizione nei confronti dei testi “stranieri” è spiegata da Peter Webb [pp. 16-55] – e lo storico e trasmettitore di ḥadīṯ Ibn Sa‘d (m. 845), studiato da Ahmad Nazir Atassi [pp. 56-80], fino a giungere a quella che sino a pochi decenni fa era considerata una fase non esattamente all’altezza della precedente, da un punto di vista culturale, nonostante la presenza di figure di grande rilievo, quale quella di Ibn Ḫaldūn (m. 1406). Bisogna sottolineare che lo storiografo tunisino è ricordato, nel presente volume, più volte, come, ad esempio, nell’articolo di Noah Gardiner [pp. 81-143], su cui si ritornerà tra breve, e in quello firmato da Samuela Pagani [pp. 144-185]. In quest’ultimo, è resa nota l’avversione di Ibn Ḫaldūn nei confronti della pratica, sviluppatasi in ambito sufi, dell’apprendimento dell’insegnamento dei maestri, nei secoli XIV e XV, in particolare in Yemen e in al-Andalus, tramite la parola scritta, quindi il libro, che va a sovrapporsi pericolosamente al rapporto privilegiato ed esclusivo che per secoli si era instaurato tra docente e discente. Questo discorso si innesta, com’è ovvio, nell’annosa questione sul legame esistente tra oralità e scrittura, fondamentale nella cultura arabo-islamica dove, peraltro, il primo e perfetto esemplare di testo scritto è naturalmente il Libro Sacro.

Ibn Ḫaldūn è altresì menzionato da Giovanni Canova [p. 235] nel suo lungo e interessante contributo [pp. 235-263], in cui l’Autore rammenta ai lettori quanta importanza il Tunisino abbia dato, nella Muqaddimah, al kitāb e al suo stretto rapporto con le sorti della civiltà. Di sicuro rilievo è lo spaccato che Giovanni Canova offre sulla visione che del libro/manufatto tre giurisperiti del XIV secolo avevano, e fornivano, elargendo consigli e imponendo prescrizioni a chi materialmente dava forma al manufatto stesso (copisti, rilegatori, ad esempio) e non solo. Inoltre, egli osserva:

L’VIII secolo dell’egira (XIV sec.) sembra essere il periodo in cui giuristi e ulema più hanno scritto e più si sono occupati delle attività concernenti la produzione di libri. Questo è probabilmente dovuto al fatto che l’epoca mamelucca aveva visto fiorire pratiche di lavoro, comportamenti, letterature, espressioni artistiche che mal si conciliavano con le accorate raccomandazioni degli uomini di religione, custodi della stretta ortodossia. [pp. 236-237]

Queste parole riconducono immediatamente al contributo di Monica Balda Tiller [pp. 186-214], incentrato su tredici trattati d’amore, in cui si dimostra come appunto dal XIV secolo gli autori abbiano, per dare credibilità ai propri testi, preferito rinunciare alla tradizionale catena di trasmettitori (isnād), a favore della citazione diretta da altri testi, conferendo, in tal modo, uno status ben preciso e rivoluzionario al libro anche nel campo letterario in questione. Concludono il volume i due brevi ma densi testi di Letizia Osti [pp. 215-223] e di Konrad Hirschler [pp. 224-234], entrambi incentrati sull’analisi del materiale presente in due biblioteche private, la prima a Baghdad, in casa di Abū Bakr al-Ṣūlī (m. 947), famoso come uomo di lettere e giocatore di scacchi, e la seconda, annessa alla scuola coranica al-‘Ašrafiyyah, nella Damasco del XIII secolo.

Le parole sopra citate, tuttavia, danno forse una delle chiavi interpretative principali del perché del volume qui presentato e dell’importanza che in esso riveste la scelta, da parte degli studiosi, di insistere tanto su uno dei periodi più controversi e ancora meno conosciuti della civiltà arabo-islamica. Il secolo XIV sembra dunque rappresentare un punto di svolta e di importanti cambiamenti pregni di conseguenze.

In effetti, ritornando, ora, alla figura di Ibn Ḫaldūn, che di quell’atmosfera è un indiscusso protagonista, questi è presentato, nel testo di Noah Gardiner, imperniato sull’opera del famoso studioso berbero algerino al-Būnī (m. 1225), nella veste di fustigatore di certo sufismo che sembrava voler divulgare insegnamenti contrari alla vera religione. Il pensiero di al-Būnī, vissuto nell’ultimo scorcio dell’era abbaside, nei secoli immediatamente seguenti sortì una profonda influenza tra le élites al potere, cosa che si verificò indubbiamente nella corte mamelucca cairota di cui Ibn Ḫaldūn pure fu un esponente di spicco durante il sultanato di Barqūq (m. 1399). L’analisi dettagliata delle vicende della trasmissione di alcuni testi passati alla storia come il frutto migliore e, perciò stesso, il più noto dell’ingegno di al-Būnī, analisi che Noah Gardiner conduce con attenta meticolosità, si concentra volutamente sulla disamina dei codici che sono stati etichettati come facenti parte di un corpus buniano e non sulle edizioni a stampa. Ciò è stato dettato dall’esigenza di comprendere in maniera davvero approfondita l’autentica opera di al-Būnī e questo lo si poteva fare solo andando alle fonti. Il problema, infatti, come è stato dimostrato ampiamente, e ribadito anche in questa sede, documenti alla mano, che il corpus definito buniano non è formato soltanto dai testi da lui stesso concepiti, bensì sovente frutto di interpolazioni e/o di rielaborazioni e, addirittura da lavori che si ispirano alle sue concezioni ma assolutamente lontane dallo studioso algerino. Al contrario, il suo pensiero più autentico pare essere stato sovente tralasciato. Nel contempo, le pagine di Gardiner cercano di attrarre l’attenzione su aspetti altrettanto interessanti, tra cui il fatto che la valenza culturale e sociologica dei manoscritti del periodo pre-moderno non siano state studiate ancora adeguatamente, giacché finora questa tipologia di “libro” non è stata esaminata in sé, ossia non soltanto per il testo principale che contiene, ma anche per i riferimenti extratestuali e paratestuali, che esso reca sugli stessi fogli che lo compongono, i quali possono rivelare tanto del contesto in cui i manoscritti erano prodotti.

In tal senso, uno dei maggiori meriti del volume The Book in Fact and Fiction in Pre-Modern Arabic Literature è quello di aver voluto contribuire, fra l’altro, a porre un forte accento proprio sul libro/manoscritto arabo in sé e sugli elementi che sovente “accompagnano” il suo principale contenuto. Ciò significa che il volume può essere considerato come un significativo passo in avanti sulla strada tracciata dagli studiosi della relativamente nuova disciplina della cosiddetta New Philology e che pure nell’ambito dell’arabistica ha iniziato a dare risultati notevoli, come si evince dalla bibliografia presentata dagli studiosi coinvolti nel progetto. Si veda, in particolare, Gardiner [pp. 132-133 e nn. 136-137].

«Insofar as, at various times and places, al-Būnī’s works seem to have been some of the primary vehicles through which ‘occult’ aspects of Sufism were expressed in elite circles, they were no doubt dangerous and powerful books in the eyes of some» [p. 131]: il libro racchiude quindi tanti poteri, sicuramente per il messaggio veicolato ma, forse, anche soltanto perché strumento di conoscenza, e oggetto materiale e concreto di trasmissione del sapere (e di potere) in larga scala, naturalmente, con i dovuti parametri da epoca ad epoca. Pare, infine, interessante notare che sulla rete ultimamente è stata lanciata la rivista on-line “Studia occulta islamica”, il primo numero della quale sarà interamente dedicato allo scrittore algerino e anche allo studio dei suoi manoscritti: ciò significa anzitutto che l’autore algerino e il suo pensiero  continuano a rappresentare il paradigma più alto nel campo delle scienze occulte nel mondo arabo-islamico, ma altresì (pare di poter ipotizzare) si intende proseguire sulla strada tracciata dalle nuove scienze nel settore codicologico, in vista di ottenere sempre più precise informazioni sul testo e su quanto lo circonda. In merito, poi, alla diffusione in via telematica dei risultati di queste eventuali novelle scoperte, ebbene, ancora una volta è necessario sottolineare quanto il libro, sotto qualunque forma esso si presenti a noi, possa rivestire un valore prezioso. Esso è sempre e comunque custode di tesori e, in questa prospettiva, dai contenuti magici, giacché in ogni caso ha potenzialmente la capacità di diffondersi all’infinito e di trasformare chi, sovente per un puro caso, si trovi a rigirarne i fogli tra le dita o grazie alla tastiera di un computer.

Paola Viviani

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno II, numero 3, giugno 2012

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L’Autore

Paola Viviani | Assistant Professor in Arabic Language and Literature at Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet”.