Olivia C. Harrison, Transcolonial Maghreb: Imagining Palestine in the Era of Decolonization, Stanford University Press, Stanford 2016, pp. 232.

A partire dal concetto di Palestina come metafora, che inevitabilmente evoca Mahmud Darwish[1], Olivia C. Harrison – già co-curatrice di un’antologia critica che raccoglie una selezione di articoli dalla seminale rivista marocchina “Souffles-Anfās” tradotti in lingua inglese[2] – si interroga in questo volume sull’utilizzo di tale metafora nella produzione letteraria e intellettuale del Maghreb[3] postcoloniale. Docente di letterature francofone presso la University of Southern California, Harrison prende in considerazione un vasto corpus di opere (letterarie e non) di autori marocchini, tunisini e algerini, scritte in francese o in arabo.
Il volume comprende sei capitoli distribuiti in due parti, rispettivamente intitolate «Decolonizing the Maghreb» e «Jews, Arabs, and the Principle of Separation». Ciascuna delle due parti rappresenta una delle due principali tendenze dell’identificazione transcoloniale con la Palestina individuate dall’autrice, ovvero la Palestina come esempio di decolonizzazione culturale e lotta anticoloniale, e la Palestina come terreno di incontro tra arabi ed ebrei inimicati dal divide et impera del colonizzatore.
Nell’Introduzione al volume, intitolata proprio «Palestine as Metaphor», Harrison afferma che la Palestina come metafora del coloniale è stata oggetto di appropriazione da parte dei movimenti antimperialisti più disparati – da quello zapatista al movimento afroamericano “Black Panthers”, passando per le proteste che nel 2011 hanno interessato il mondo arabo – e ha avuto un significativo impatto nel Maghreb postcoloniale, dove ha rappresentato non tanto un simbolo statico e astratto di resistenza all’oppressione, quanto – per dirla con Edward Said – un’utopia, ovvero un non-luogo, un posto a cui far ritorno, la speranza in un futuro diverso. La questione palestinese trova eco nella produzione culturale maghrebina soprattutto in corrispondenza dei due eventi-chiave della Nakbah e della Naksah; tuttavia, l’enorme ripercussione che quest’ultima ebbe nel Mashreq, e che fece coniare a Ṣādiq Ǧalāl al-ʿAẓm la famosa definizione di adab al-hazīmah nel tentativo di rendere conto della “svolta” che il ’67 rappresentò per la letteratura araba, non fu avvertita che blandamente nel Maghreb. La “letteratura della sconfitta”, sostiene Harrison, fu anzi bollata come «a state sponsored, retrograde form of nostalgia» [p. 5], e le venne preferito un impiego più produttivo della metafora palestinese, orientato a offrire un modello di decolonizzazione per il presente e per il futuro anziché un continuo ritorno al passato.
Nel primo capitolo del volume, «Souffles-Anfas: Palestine and the Decol-onization of Culture», Harrison illustra la politica pro-palestinese dell’importante rivista “Souffles”, diretta da Abdellatif Laâbi. Sulla scia della Naksah, la Palestina divenne per i suoi redattori una fonte di ispirazione così importante da indurli, oltreché a tradurre in francese e promuovere la diffusione della poesia palestinese, a fondare una rivista-costola in cui utilizzare esclusivamente la lingua araba. Fondata nel 1966, a dieci anni dal raggiungimento dell’indipendenza marocchina, “Souffles” si riproponeva di operare una decolonizzazione culturale che gettasse le basi per una nuova estetica letteraria e artistica, lontana tanto dai canoni francesi quanto dalla tradizione – anche quest’ultima, nient’altro che un costrutto coloniale. Dimostrando una profonda familiarità con la rivista, Harrison analizza in questo capitolo il ruolo di “Souffles” nell’elaborazione di una cultura maghrebina originale, libera dalle pastoie della ʿurūbah come da quelle del colonialismo. Sottolinea, inoltre, come Laâbi e i suoi collaboratori siano riusciti a impiegare la metafora palestinese come fecondo strumento di elaborazione culturale, rifiutando la narrativa nazionalistica araba della sconfitta per abbracciare, invece, la lettura anticolonialista di Fanon, che individuava nell’occupazione israeliana una mera aggressione neocoloniale ai danni del popolo palestinese. Parallelamente, la riflessione sulla lingua prende sempre più piede nel contesto della decolonizzazione culturale: a partire dal 1969, le posizioni espresse sulla rivista si fanno sempre più politicizzate e radicali, e una graduale transizione verso l’uso esclusivo della lingua araba viene reputata un passo necessario per mettere fine a quella che Laâbi definiva alienazione linguistica [p. 159]. Così, nel 1971, viene fondata “Anfās”, rivista sorella di “Souffles” scritta interamente in arabo; tuttavia, osserva Harrison, “Anfās” non riuscì ad esprimere appieno la complessità linguistica maghrebina, appiattendosi su un’arabizzazione che in fondo coincideva con quella ufficialmente inaugurata dai governi del Maghreb all’indomani dell’indipendenza[4]. In tutto questo, la Palestina compare sempre in filigrana: nelle traduzioni di Laâbi, e come costante contrappunto del discorso postcoloniale maghrebino.
Il secondo capitolo, «Transcolonial Hospitality: Kateb Yacine’s Experiments in Popular Theater», dedicato all’opera teatrale di Kateb Yacine, prende avvio proprio da considerazioni di ordine linguistico: mentre il gruppo di “Souffles” si orientava verso l’arabo letterario – nota Harrison –, lo scrittore Kateb Yacine si opponeva all’uso della lingua ufficiale dello stato algerino. Se Kateb Yacine aveva rivendicato l’uso della lingua francese «to show in French that Algeria was not French» [p. 42], dopo l’indipendenza si trovò orfano di lettori: per chi scrivere, infatti, ora che i francesi se ne erano andati? Il teatro popolare gli sembrò l’unica soluzione percorribile, e con la sua compagnia ACT mise in scena diverse opere teatrali – generalmente scritte in dāriǧah, ma senza trascurare le altre lingue locali – dal 1968 al 1988. In particolare, nella pièce Mohamed arfad valiztek / Mohamed prends ta valise, l’Algeria e la Palestina vengono comparate in relazione all’asse tematico assimilazione/ospitalità/separazione: secondo Harrison, infatti, è secondo questi tre criteri che prende forma il rapporto tra colonizzato (o ex-colonizzato) e colono. Mohamed arfad valiztek conobbe un enorme successo durante tutti gli anni Settanta; nata in occasione della campagna del governo di Boumedienne per convincere gli emigrati algerini in Francia a tornare in Algeria, la commedia non risparmiò aspre critiche al governo postcoloniale. La rappresentazione è plurilingue: se la dāriǧah prevale, alcuni passaggi cardine sono in francese e in ebraico. La chiave di lettura scelta da Harrison per interpretare questa pièce è quella dell’immigrato-ospite, «a metaphor that has forgotten that it is a metaphor» [p. 51], generando una delle contraddizioni più drammatiche tanto del colonialismo francese quanto di quello sionista: gli abitanti autoctoni, inseriti nel quadro giuridico coloniale, sono diventati improvvisamente ospiti dello straniero occupante. Se nella pièce incompiuta Boucherie de l’espérance l’ebreo era rappresentato come un algerino sottoposto al dominio coloniale francese alla stessa stregua degli altri suoi concittadini, in Mohamed arfad valiztek la narrativa si appiattisce sull’equazione ebreo=israeliano. Kateb Yacine era anche un sostenitore dei diritti degli Amazigh, e col trascorrere degli anni divenne sempre più critico del processo di arabizzazione in atto nell’Algeria postcoloniale, che egli vedeva come un’ulteriore forma di imperialismo linguistico e culturale. Nella sua produzione, la Palestina rappresentava metaforicamente le lotte degli Amazigh, e non implicava un’adesione al panarabismo di regime, che anzi Yacine criticava aspramente: come nota Harrison, infatti, il governo postcoloniale algerino si era speso in modo attivo per la Palestina, ma utilizzava la questione palestinese per camuffare la propria natura autoritaria dietro la facciata della solidarietà panaraba.
Nel terzo capitolo, intitolato «The Transcolonial Exotic: Allegories of Palestine in Ahlam Mosteghanemi’s Algerian Trilogy», Harrison tratta della trilogia algerina di Ahlam Mosteghanemi, scritta tra il 1993 e il 2003. In questi suoi romanzi, la scrittrice algerina “confeziona” un’immagine dell’Algeria a uso e consumo dei suoi lettori levantini, dal momento che il campo letterario in cui Mosteghanemi si muove è quello che gravita attorno a Beirut e al Cairo, e lo fa servendosi ancora una volta dell’allegoria palestinese. In Ḏākirat al-ǧasad (La memoria del corpo, 1993)[5], in particolare, attraverso la “sessualizzazione” dell’Algeria come donna e della Palestina come uomo, e attraverso l’uso intertestuale di Nedjma (1956)[6] di Kateb Yacine, la scrittrice vuole mostrare il fallimento della rivoluzione algerina. Anche in questo caso, il ruolo della lingua è fondamentale: Mosteghanemi usa l’arabo in opposizione al francese, e attribuisce simbolicamente la prerogativa della “nuova” lingua dell’Algeria postcoloniale al personaggio del poeta palestinese. Le altre lingue algerine, invece, vengono reificate ed esotizzate; il tamazight, in particolare, diventa berbero per i lettori mashreqini, e le parole nel dialetto di Costantina sono regolarmente spiegate perché tale pubblico le comprenda, mentre lo stesso non viene fatto con quelle in dialetto palestinese. L’arabo rappresenta il futuro dell’Algeria, e la Palestina è al centro della cartografia di questo futuro. Date tali premesse panarabe e tale ideologia, orientata verso il Levante più che verso il Maghreb, le critiche indirizzate a Mosteghanemi quando l’autrice è stata insignita della Medaglia Naguib Mahfuz per la letteratura nel 1998 sembrano bizzarre: accusata di essere troppo vicina culturalmente alla Francia, e di aver preferito Parigi e Beirut ad Algeri, Mosteghanemi è stata tacciata di inautenticità dai critici egiziani, un destino comune a molti autori maghrebini. Secondo Harrison, inoltre, la serie televisiva tratta da Ḏākirat al-ǧasad (una produzione siriano-algerina) sfrutta tanto i riferimenti alla rivoluzione algerina quanto quelli alla causa palestinese eliminando ogni traccia delle critiche di Mosteghanemi alla rivoluzione fallita, in modo da ottenere un prodotto “leggibile” e vendibile sui mercati di tutti i paesi arabi.
Il quarto capitolo, «Portrait of an Arab Jew: Albert Memmi and the Politics of Indigeneity», apre la seconda parte del volume ed è dedicato alla riflessione dell’intellettuale ebreo tunisino Albert Memmi. Harrison nota come, nell’ambito dei postcolonial studies, gli studiosi si siano concentrati esclusivamente su due lavori di Memmi – Portrait du colonisé, précédé de Portrait du colonisateur (1957) e La statue de sel (1953) – trascurando le opere più tarde, come Portrait d’un Juif (1962), La libération du Juif (1966) e Juifs et Arabes (1974). In queste ultime, Memmi istituisce un parallelo tra la situazione dei palestinesi e quella degli ebrei sefarditi. Harrison ritiene che le opere di Memmi sull’ebraismo e il sionismo siano molto più in continuità con le sue opere sul colonialismo di quanto non sembri. Già in Portrait du colonisé, infatti, Memmi, in quanto ebreo arabo[7], si colloca di sbieco rispetto a ciascuna delle facce della sua composita identità: è sufficientemente integrato nella cultura francese da non sentirsi a disagio fra i coloni più liberali, ma allo stesso tempo è tunisino e non francese. In Algeria, la Francia aveva adottato politiche assimilazioniste nei confronti degli ebrei (naturalizzati per mezzo del Decreto Crémieux del 1870), mentre gli ebrei tunisini e marocchini erano rimasti sottoposti al governo coloniale come i loro concittadini arabi e Amazigh. Il disagio dell’ebreo tunisino è incarnato perfettamente dal protagonista di Statue de sel, Alexandre Mordekhai Benillouche, che si sente scisso sin dal proprio nome, il quale è insieme europeo, ebraico e berbero. Negli scritti più tardi, Memmi abbandona le sue simpatie per i colonizzati per abbracciare un’ideologia apertamente sionista, che, secondo Harrison, è indissolubilmente legata a quanto espresso dall’autore nei suoi scritti precedenti. La politicizzazione dell’indigeno praticata dal colonizzatore, infatti, ha avuto come esito l’estraniamento degli ebrei tunisini e la conseguente ricerca di una propria “indigenità” in Palestina. In Portrait du colonisé, Memmi aveva sostenuto la necessità di una liberazione nazionale “nativista”, che parlasse arabo e riaffermasse la cultura locale; Harrison nota come sia stata questa visione, paradossalmente, a determinare l’indecidibilità della posizione degli ebrei maghrebini nel periodo postcoloniale, quando l’identità nazionale subì un processo di semplificazione e ossificazione in cui essi non potevano trovare posto. Memmi – sottolinea Harrison – denuncia l’antisemitismo del mondo arabo, ma non tiene conto quanto di coloniale ed europeo ci fosse in tale deriva antisemita. Quanto ai palestinesi, Memmi sembra accorgersi della loro presenza solo nei saggi che compongono Juifs et Arabes, dove presenta il conflitto arabo-israeliano come uno scontro tra due progetti di liberazione nazionale. Sebbene egli parteggi apertamente per Israele, non si esime da esprimere critiche in merito al trattamento dei palestinesi e dei Mizrahim, gli ebrei orientali, che per lui vanno integrati entrambi – i primi ideologicamente o religiosamente, i secondi da un punto di vista socioeconomico.
A questa visione assimilazionista in cui ogni alterità è cancellata risponderà l’intellettuale marocchino Abdelkebir Khatibi, allievo di Memmi, che è oggetto – insieme a Jacques Hassoun e a Jacques Derrida – del quinto capitolo, «Abrahamic Tongues: Abdelkebir Khatibi, Jacques Hassoun, Jacques Derrida». Alla pubblicazione di Juifs et Arabes nel 1974, Khatibi reagisce pubblicando il saggio Vomito blanco: Le sionisme et la conscience malheureuse, in cui smentisce le tesi di Memmi sul tema delle relazioni arabo-ebraiche nel Maghreb. Nonostante l’indignazione che lo colpisce all’indomani del Settembre nero e dell’ondata di razzismo anti-arabo provocata in Europa dai fatti delle Olimpiadi di Monaco del 1972, Khatibi prova a ragionare sulle implicazioni profonde dell’identità semitica, sia essa araba o ebraica. Cercando un fondo comune alle società abramitiche, egli lo individua nella possibilità di une pensée autre, ovvero di quella pluralità che esclude le identità monodimensionali. È questo un tratto distintivo che Khatibi coglie nel Maghreb, luogo in cui la pluralità si è realizzata storicamente nella coabitazione di lingue e civiltà differenti, non esclusa quella francese. Nel suo scambio epistolare con Jacques Hassoun, raccolto in Le même livre (1985), Khatibi affronta spesso la questione dei rapporti tra arabi ed ebrei, estendendo le sue riflessioni anche alla questione della lingua. Le lettere, scritte in francese, sono punteggiate di riferimenti in arabo ed ebraico; Hassoun, un ebreo egiziano, lamenta di essere condannato a «write French in Arabic or Hebrew» [p. 111], mentre Khatibi padroneggia sia l’arabo sia il francese; mentre il primo è stato esiliato dall’Egitto, il secondo continua a vivere in Marocco. Il francese fa parte di questa “biforcazione linguistica” (bi-langue), seppure non negli stessi termini dell’elemento abramitico: è insieme la lingua dell’amnesia e del ricordo, la lingua che ha occupato lo spazio dell’ebraico e dell’arabo, e che tuttavia permette a Khatibi e a Hassoun di comunicare l’uno con l’altro. Khatibi, dunque, nega quello che Jacques Derrida chiama Le monolinguisme de l’autre (1996), in un libro scritto in parte in risposta al suo Amour bilingue (1983). In quanto ebreo algerino, Derrida subisce le pratiche ambigue di esclusione-inclusione messe in atto dai francesi: da un lato, gli viene proibito di parlare arabo o ebraico; dall’altro, il suo accesso al francese è condannato a restare sempre monco, essendo egli l’Altro. La mitica lingua originaria è perduta, ma viene costantemente resa presente in qualità di simulacro (Khatibi) o di grado zero-meno-uno della scrittura (Derrida); nessuna lingua madre esiste davvero per il soggetto colonizzato, e l’esistenza positiva di una qualsiasi forma di originarietà monolitica è destinata sempre a scatenare guerre, occupazioni, nazionalismi virulenti, come nel caso di Israele. Per quanto Derrida non si dichiari apertamente antisionista, infatti, egli è estremamente critico dei colonialismi, che sono tutti esito di un progetto di autoaffermazione di identità monodimensionali.
Il sesto capitolo si intitola «Edmond Amran El Maleh and the Cause of the Other», e presenta alcune riflessioni sull’opera di El Maleh, intellettuale ebreo marocchino decisamente antisionista, che dedicò molti dei suoi sforzi a smentire il mito di un’originaria inimicizia tra arabi ed ebrei. In un articolo del 1977 dal titolo Juifs Marocains et Marocains Juifs, El Maleh risponde a Juifs et Arabes di Albert Memmi, affermando che la disgregazione delle comunità ebraiche marocchine non è il frutto di una presunta ostilità degli arabi nei confronti degli ebrei, bensì delle politiche coloniali francesi e delle ingerenze di Israele. È però nel romanzo Mille ans, un jour (1986) che El Maleh articola meglio le sue critiche a Memmi. Il romanzo scava nelle relazioni arabo-ebraiche in Marocco all’indomani dell’invasione israeliana del Libano nel 1982 e dei massacri di Sabra e Chatila, e nell’“etnocidio metaforico” [p. 131] successivo al 1948, quando gli ebrei marocchini presero la via dell’esodo di massa verso Israele, dove sarebbero diventati cittadini di seconda classe. Nella seconda parte del romanzo, vengono introdotti tre personaggi quasi “allegorici”: l’ebreo autoctono Nessim, l’arabo musulmano Majid e l’ufficiale coloniale e orientalista francese Louis Renault. Anche in questo caso, è la lingua a costituire uno degli elementi di riflessione principali: Nessim, in particolare, non parla l’ebraico, ed entra in contatto con la propaganda sionista in yiddish; la lingua degli ebrei ashkenaziti è per lui un’altra lingua coloniale, proprio come il francese. Paradossalmente, dunque, per i sionisti egli è arabo, non ebreo. Il sionismo incamera i pregiudizi orientalisti – nota Harrison sulla scorta di Raz-Krakotzkin – e gli ebrei orientali in Israele sono generalmente visti come legati a una religiosità e a una lingua arcaiche, ciò che è interpretato come segno a volte di arretratezza, a volte di autenticità e purezza. Nelle sue visioni terrificanti, Nessim si trova improvvisamente in Israele, dove si accorge che arabi ed ebrei orientali vivono negli stessi quartieri, in condizioni socioeconomiche degradate, veri e propri soggetti colonizzati come lo erano i marocchini sotto il protettorato francese. Nel romanzo, sostiene Harrison, El Maleh abbraccia quella che Jacques Rancière chiama disidentificazione, ovvero il rifiuto dell’individuo a identificarsi con uno Stato che si erge arbitrariamente a suo portavoce o rappresentante.
Nell’Epilogo, «Palestine and the Syrian Intifada», Harrison apre la delicata pagina della rappresentazione della Palestina nel contesto della rivolta siriana del 2011, concentrandosi in particolare su Taqāṭuʿ al-nīrān (Fuochi incrociati, 2012) di Samar Yazbek. In questo suo libro, Yazbek ricorre più volte al paragone tra la situazione dei siriani dopo lo scoppio della guerra e quella dei palestinesi, che sembra oggi quasi una condizione strutturale, disancorata da qualsiasi contingenza politica concreta. Le immagini dei rifugiati palestinesi con cui il regime baathista ha da sempre bombardato i siriani, servendosi di esse per legittimarsi, si sovrappongono in Yazbek a quelle dei rifugiati siriani; in questo modo, conclude Harrison, l’immaginario della propaganda viene riutilizzato proprio per smascherare la propaganda stessa.
Tentando di mostrare la produttività della metafora palestinese in un gran numero di opere di diverso genere, in questo suo pregevolissimo studio Harrison offre al lettore una panoramica estremamente variegata delle problematiche che emergono dal confronto tra il Maghreb e la questione palestinese. Per quanto l’approccio decostruttivista che utilizza sia impregnato della lezione dei postcolonial studies, è importante sottolineare che Olivia C. Harrison non si lascia mai prendere la mano da un eccessivo entusiasmo per la “Theory”, ma cerca un confronto costante con i testi di cui parla, cosa non scontata negli studi che si rifanno a questo filone critico. I testi sono dunque i protagonisti dell’opera, ed è apprezzabile anche lo sforzo dell’autrice di dare conto delle circostanze storiche in cui essi sono stati prodotti. In questo modo, il lettore riesce ad avere un quadro ricco e sfumato del dibattito maghrebino su tematiche quali il colonialismo, il sionismo, la questione della lingua e l’identità, gettando allo stesso tempo uno sguardo “orizzontale” sul fenomeno della Palestina come metafora transcoloniale e uno sguardo “verticale” sugli eventi storici che tale metafora hanno generato.

Fernanda Fischione


[1] In questa recensione si utilizza il sistema di trascrizione scientifica adottato da “La Rivista di Arablit”; tuttavia, le citazioni tratte dal volume recensito e i nomi degli autori in esso menzionati vengono riportati verbatim, rispettando la diversa convenzione di trascrizione scelta da Olivia C. Harrison. Ciò dà luogo a occasionali difformità di trascrizione (ad es.: anfas/anfās).[2] O.C. Harrison, T. Villa-Ignacio, Souffles-Anfas: A Critical Anthology from the Moroccan Journal of Culture and Politics, Stanford University Press, Stanford 2015.
[3] Per una storia dei rapporti tra la Palestina e gli stati del Maghreb, si veda J.-P. Chagnollaud, Maghreb et Palestine, Sindbad, Paris 1977.
[4] Si veda, a tale proposito, il celebre studio di G. Grandguillaume, Arabisation et politique linguistique au Maghreb, Maisonneuve et Larose, Paris 1983.
[5] Edizione italiana: Ahlam Mosteghanemi, La memoria del corpo, traduzione dall’arabo e Postfazione di F. Leggio, Jouvence, Roma 2002.
[6] Yacine Kateb, Nedjma, traduzione dal francese di G. Mascetti, Jaca Book, 1983. Nell’edizione italiana, il nome e il cognome dello scrittore vengono invertiti e riportati all’ordine originale: fu lo scrittore stesso, infatti, a voler utilizzare il cognome di famiglia, Kātib, come nome proprio.
[7] L’espressione viene usata in Juifs et Arabes dallo stesso Memmi, che la prende in prestito ironicamente da un discorso di Gheddafi.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VII, numero 14, dicembre 2017

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L’Autore

Fernanda Fischione | Laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali (Sapienza Università di Roma), è iscritta al corso di laurea magistrale in Lingue e Civiltà Orientali della medesima facoltà.