La piaga dell’immigrazione clandestina vista da uno dei più famosi scrittori egiziani. ‘Izzat al-Qamḥāwī, al-‘Ār min al-ḍiffatayni: ‘abīd al-azmanah al-ḥadīṯah fī marākib al-ẓulmāt (La vergogna tra le due sponde: schiavi dei tempi moderni sulle navi delle tenebre), Dār al-‘Ayn, al-Qāhirah 2011.

In una realtà italiana continuamente scossa da notizie di reiterati naufragi di barconi della morte sulle nostre coste, si colloca per l’attualità e al contempo originalità d’analisi l’ultima pubblicazione di ‘Izzat al-Qamḥāwī, giornalista e scrittore egiziano, tra le voci più rappresentative della moderna élite intellettuale del suo paese.

al-‘Ār min al-ḍiffatayni si ricava uno spazio nella produzione letteraria egiziana come studio tra le dinamiche sociali, politiche ed economiche che caratterizzano il fenomeno dell’immigrazione clandestina dall’Egitto verso la sponda settentrionale del Mediterraneo. L’occhio attento di al-Qamḥāwī fornisce un’interpretazione caustica e spregiudicata dei meccanismi che sottendono la terribile piaga dei barconi della morte che collegano le rive opposte del Mediterraneo, trasportando “gli schiavi dei tempi moderni” che partono nella disperata ricerca di un futuro migliore. L’autore dichiara di aver rimandato più volte la stesura di questo scritto, sentendone un’esigenza che si è fatta impellente quando ha scoperto che uno dei tanti dispersi dell’ennesimo naufragio sulle coste italiane, balzato alla ribalta mediatica, è suo nipote.  Questo il filo conduttore che consente a al-Qamḥāwī di tessere la sua storia, con la speranza che il libro possa impedire anche ad un solo altro giovane di morire annegato, rinnovando tristemente la tradizione viva all’epoca dei Faraoni, quando i defunti si trasportavano sulle barche. Il libro si dispiega come un’indagine sociologica condotta con piglio giornalistico, ripercorrendo le varie tappe storiche dell’emigrazione egiziana verso l’estero, prima in direzione di Libia, Giordania e Iraq e, in seguito, verso un’Europa che, soprattutto all’indomani dell’11 settembre, ha deciso di chiudere le proprie frontiere: in questo contesto l’Italia rappresenta una sorta di eccezione dal momento che, tra enormi contraddizioni, ha lasciato la propria porta socchiusa.

La caratteristica di questo scritto è la focalizzazione sulle peculiarità del migrante egiziano, proveniente sia dalle città che dalle province rurali, allo scopo di fornire una lettura del tutto inedita del fenomeno emigrazione. Le storie dei singoli, riportate in questo libro, diventano il pretesto per parlare di problematiche più ampie, costruendo la geografia di una migrazione dolorosa che trova negli scafisti senza scrupoli i primi veri carnefici. ‘Izzat al-Qamḥāwī indaga pertanto sulle concause e responsabilità tanto delle autorità locali quanto degli enti italiani preposti all’accoglienza ed integrazione dei migranti, non risparmiando nessuna delle parti da forti accuse. Il giornalista si sofferma particolarmente sull’emigrazione dalle campagne, ricorrendo a quella che lui chiama “sociologia del corpo” per spiegare la scelta dei giovani di affrontare un viaggio del quale si conoscono comunque i rischi. La prematura esperienza di fatica cui i giovani delle campagne sono sottoposti, li spinge alla fuga pur se segnati da una tara che può rivelarsi mortale: nessuno di loro ha mai visto il mare e per questo immagina erroneamente di poterlo dominare. al-Qamḥāwī sottolinea, inoltre, come negli ambienti rurali il corpo venga concepito come tesoro di proprietà della famiglia: questo scatena spesso faide tra famiglie rivali disposte a tutto pur di racimolare i soldi per il fatidico viaggio, che diventa così emblema di un raggiunto successo. L’autore illustra i vari meccanismi compiuti dalle singole famiglie per assicurare ai propri figli un posto sui “barconi delle tenebre”, non dimenticando il puntuale riferimento alla politica ingannevole dei mass-media egiziani – le donne che hanno perso i propri figli si sentono quasi costrette, dinanzi alle telecamere, a minimizzare la tragedia – e ad una consolidata economia dei sospetti in cui lo Stato egiziano si pone al servizio di pochi miliardari, ostacolando il sorgere di piccole imprese che potrebbero fornire speranze ai giovani.

Questo saggio si muove tra Egitto e Italia, lasciando emergere le macchinazioni messe in atto da una politica egiziana poco disposta a favorire i progetti di investimento che i migranti maturano con i soldi messi da parte in Italia. al-Qamḥāwī diventa poi attento cronista quando riporta le responsabilità dei vari Ministeri egiziani, soprattutto quelli dell’irrigazione e dell’agricoltura, che hanno fatto registrare un forte aumento dei costi per coltivare le terre, obbligando molti contadini all’abbandono della campagna: e nell’antica cultura egiziana lasciare i terreni incolti è come bestemmiare.

Il testo si impone per l’assoluta novità dell’analisi presentata, gettando luce su dettagli che spesso sfuggono al lettore: ecco perché l’autore, quando si sofferma sull’emigrazione dalle campagne, descrive la strana cultura di un prestigio che è assicurato alle famiglie i cui figli sono partiti per l’Italia o sono in procinto di affrontare il viaggio, con un aumento di reputazione che è direttamente proporzionale al successo raggiunto in Italia. Tra le varie mete, Milano diventa quella più ambita per le possibilità  di impiego offerte agli “schiavi dei tempi moderni”, disposti a farsi carico di lavori che gli italiani presuntuosamente rifiutano. Il saggio si trasforma poi in cronaca quando al-Qamḥāwī affronta il proprio viaggio in Italia alla disperata ricerca del nipote disperso su uno dei tanti “barconi delle tenebre”. L’indagine diventa sempre più accurata, condotta attraverso interviste e osservazioni personali, riportando precisi riferimenti al governo italiano e ai più recenti accordi in materia di emigrazione, con le contraddizioni di una politica italiana che ha così erroneamente creduto di limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Questa parte dello scritto di al-Qamḥāwī si basa sulla concretezza dei dati: lo scrittore è  pronto a dipingere, mediante le testimonianze raccolte, la fisionomia dei “nuovi schiavi” giunti in Italia. Il saggio denuncia strane connivenze instauratesi tra l’Italia e alcuni paesi della riva sud del Mediterraneo, in particolar modo la Libia, e al contempo accusa, in maniera neanche troppo velata, la destra europea, colpevole, secondo l’autore, di aver finanziato quell’operazione del terrore verso i migranti arabi in generale.  al-Qamḥāwī segnala così l’innescarsi di una terribile guerra tra le due parti – riva nord e riva sud del Mediterraneo – che è fatalmente divenuta una guerra contro l’uomo, con una pessimistica conclusione sul traffico di quelle barche fatiscenti che continueranno, spietatamente, a solcare il mare.

In al-‘Ār min al-ḍiffatayni  al-Qamḥāwī dà quindi l’ennesima prova del suo talento come scrittore, lasciando prevalere la vena da cronista su quella più marcatamente letteraria, che invece emerge con forza in altre sue opere. Tra queste vale la pena segnalare soprattutto un suo romanzo, Madīnat al-laḏḏah (La città del piacere): la penna dell’artista si piega in questo caso nella descrizione di fascino e mistero che caratterizzano questa località, fuori dal tempo e dallo spazio, remoto territorio consacrato alla Dea del Piacere che un tempo qui vi aveva costruito la sua roccaforte. Il tutto viene reso attraverso un linguaggio poetico e suggestivo che dimostra un’altra sfumatura della complessa varietà artistica propria di questo scrittore.

Ada Barbaro

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 1, giugno 2011

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