William A. Rugh, Arab Mass Media: Newspapers, Radio, and Television in Arab Politics, Praeger, Westport (CT) 2004, pp. 259.

La comparsa della stampa nel mondo arabo è un fenomeno relativamente recente. Infatti è a partire dalla seconda metà del 1800 che si assiste alla creazione delle prime riviste da parte di alcuni intellettuali egiziani e di altri provenienti dalla regione siro-libanese. I quotidiani e le riviste fondati da intellettuali come i fratelli Taqlā, da Muṣṭafà Kāmil o da Buṭrus al-Būstānī, per citare solo alcuni dei maggiori, divennero i vettori di quella rinascita letteraria e culturale che prende il nome di nahḍah, ospitando sulle loro pagine i dibattiti, gli appelli nazionalisti e le querelles ideologiche e letterarie che stanno alla base della moderna identità sociale, politica e culturale dei paesi arabi. Ancora oggi i quotidiani e le riviste arabe trattano temi legati alla cultura e alla letteratura, svolgendo un ruolo fondamentale nel dibattito intellettuale contemporaneo, ed è per questo motivo che ci sembra opportuno occuparci anche di stampa e mass media nel mondo arabo di oggi.

Il saggio di William Rugh, già autore di un’altra monografia incentrata sullo studio della stampa nel mondo arabo, intitolata The Arab Press: News Media and Political Process in the Arab World, si apre con una riflessione sull’Occidente e sulla sua effettiva conoscenza della realtà araba. Egli afferma, infatti: «the flow of information between the United States and the Arab World is overwhelmingly one way, West to East. Arab audiences know much more about America than Americans know about Arabs». [p. IX]

Questa considerazione, che prende in esame il rapporto di conoscenza reciproca tra Stati Uniti e mondo arabo, si potrebbe estendere anche all’Europa, o, se si preferisce, al flusso di informazioni tra “centro” e “periferia”, per utilizzare i termini cari ad un certo tipo di ricerca sociologica.

Alla base di questa tendenza, secondo Rugh, c’è innanzi tutto la barriera linguistica, così che se molti arabi conoscono almeno una lingua europea, pochissime persone in America, e in Occidente, si potrebbe aggiungere, parlano e capiscono la lingua araba, fatta eccezione per quegli arabi che vivono fuori dal proprio paese d’origine. Colpisce, in queste prime pagine, il fatto che non venga menzionata un’altra possibilità, che non esclude affatto la prima, ma che certamente andrebbe a integrare il quadro d’una lettura che, senza voler essere politica, non può non tener conto dell’interesse che il centro costituisce per se stesso e per la periferia, poiché il centro definisce se stesso e la periferia, e in qualche misura, parafrasando Said, ne traccia i confini e ne determina il carattere. D’altra parte, la storia sembra insegnare che se la periferia intende emanciparsi, essa non può fare a meno di guardare al centro, e apprenderne i linguaggi, per collocarsi sul piano del dialogo.

Tuttavia, proseguendo nella lettura dell’introduzione di questo saggio, l’autore evidenzia l’importanza della conoscenza del sistema mass mediatico prodotto da ogni cultura, affermando che i mass media di ogni paese riflettono il loro particolare ambiente sociale, culturale e politico, e chiunque volesse capire il mondo arabo, dovrebbe innanzitutto conoscere i suoi mass media. Egli prosegue ricordando come dopo l’attacco al World Trade Center nel 2001, gli americani, e con loro il resto del mondo occidentale, hanno rivolto maggiore attenzione al mondo arabo, ma purtroppo a questo interesse ha risposto una stampa troppo superficiale per trasmettere il clima sociale e politico dei paesi arabi. Ecco quindi la ragione per dedicarsi alla stesura di un saggio che tenta di effettuare un’analisi ampia delle modalità di trasmissione delle informazioni all’interno dei mass media in quest’area geografica.

Il volume non si concentra sul contenuto dei messaggi provenienti dai media arabi, bensì sulla forma e sulle strutture che i media assumono nel mondo arabo, tenendo in considerazione le diversità tra i sistemi politici e sociali dei diciotto paesi arabi.

Nel primo capitolo l’autore cerca di definire gli aspetti comuni ai mezzi di comunicazione delle nazioni arabe, a cominciare dalla base economica. Secondo Rugh sarebbe proprio la mancanza di capitali privati a sostegno della creazione di radio, televisioni e giornali, la prima condizione ad aver determinato il possesso di questi mezzi di comunicazione nelle mani dello stato. I primi giornali infatti, scontrandosi con una società in cui l’analfabetismo di massa era la regola, non potevano vendere abbastanza copie da autofinanziarsi, né tanto meno fare affidamento sulla pubblicità per conto di terzi, incrementando ulteriormente le loro entrate.

Il secondo tratto comune dei media arabi, scrive l’autore, è la politicizzazione degli stessi: i primi giornali comparsi nel mondo arabo, ad esempio, erano pubblicazioni governative ufficiali che avevano lo scopo di influenzare la popolazione con le opinioni del governo e fu solo in seguito che i giornalisti che lavoravano sotto l’impero ottomano realizzarono che la stampa poteva essere utilizzata come uno strumento rivoluzionario. Il fatto che questi giornali fossero finanziati dai governi, poi, non poteva che influenzarne la linea editoriale andando a rafforzare determinati altri aspetti quali la frammentazione regionale e il patrocinio politico delle varie fazioni in lotta per il potere durante i vari passaggi di sovranità nelle diverse fasi storiche.

Secondo Rugh, tutti questi elementi presi contemporaneamente, starebbero alla base anche della poca credibilità di cui la stampa sembra godere nel mondo arabo. I cittadini, infatti, consapevoli di questi aspetti ad essa correlati, considerano i giornalisti alla stregua di “portavoce” ufficiali del governo o dei vari blocchi politici, il che, associato al permanere di una forte tradizione orale nella trasmissione delle notizie, non farebbe che diminuire la credibilità dei quotidiani presso la popolazione. Egli prosegue in parte “scagionando” i giornalisti arabi da simili accuse di faziosità, quando scrive:

As we have seen, there may be some inadvertent misstatement of fact resulting from poor journalism, which is not deliberate untruthfulness; and there is cultural bias, which leads Arab editors to make choices different from editors elsewhere simply because of the way they see the world. [p. 17]

Rugh sembra suggerire che il giornalismo nel mondo arabo, data la sua giovinezza e data la mancanza di finanziamenti per le scuole specializzate, sia ancora ad un livello di “immaturità” rispetto al mondo occidentale, un’opinione peraltro condivisa anche da altri studiosi, ma resta ampio margine di chiarimento rispetto a ciò che egli chiama «la maniera in cui i redattori arabi vedono il mondo», lasciando il dubbio che gli arabi, più di altri popoli, siano particolarmente inclini al “pregiudizio culturale”, al punto da compiere scelte diverse da quelle degli editori che lavorano in un generico “altrove”. D’altra parte, si potrebbe aggiungere, non solo nel mondo arabo la personale Weltanschauung di ciascuno può influenzarne le forme espressive, specialmente quando comunica attraverso un mezzo di comunicazione destinato alla massa.

Uno degli aspetti più originali del libro, e probabilmente uno dei suoi contributi più significativi, che si trova menzionato anche in altri studi sui mass media nel mondo arabo, è il tentativo di suddividere i mass media arabi in base a quattro categorie formate sulla base degli esempi reali che l’autore ha raccolto nei vari stati. Questa suddivisione viene proposta per soddisfare le carenze della classificazione teorizzata da Fred Siebert, Wilbur Schramm e Theodore Peterson nel saggio intitolato Four Theories of the Press del 1953, e che definisce i sistemi massmediatici come globalmente riconducibili a quattro categorie: “authoritarian”, “libertarian”, “social responsibility” e “totalitarian”.

William Rugh integra questo apporto sostenendo che nei media arabi esiste una forte componente totalitaria, cioè quel genere di comunicazione “imposta dall’alto” il cui fine ultimo è essenzialmente la propaganda, ma afferma anche di aver individuato alcuni aspetti della stampa araba che sono riconducibili alle altre tre categorie e che descrive più dettagliatamente nei capitoli centrali del volume. Inoltre, continua, la teoria precedente riesce a malapena a spiegare le dinamiche dei media arabi, perché opera generalizzazioni che non tengono in considerazione le diversità del sistema politico e sociale arabo, riconoscendo in questo modo la necessità di creare strumenti nuovi per spiegare e, possibilmente, comprendere, i paesi che compongono il Vicino Oriente e il Nord Africa.

Delle quattro tipologie proposte da Rugh, la prima, definita “mobilization press”, include gli stati che hanno attraversato grandi cambiamenti sociali negli anni di poco precedenti il 2003, cioè Siria, Libia, Sudan e Iraq. In questi stati il regime controlla i media attraverso vie legali e illegali, dando indicazioni precise rispetto agli obiettivi dell’informazione fino alla maniera di interpretare gli eventi.

Il secondo gruppo, che include Arabia Saudita, Qatar, Emirati, Bahrain, Oman e Palestina, viene chiamato “loyalist system”. Nonostante la libertà di stampa in questi paesi possa avere avuto alti e bassi, essi si distinguono per una maggiore libertà dovuta al fatto che i media sono in possesso di privati, sebbene radio e Televisione siano sempre proprietà del governo. In questi paesi il sistema di controllo sulla stampa è sottile e indiretto e il grado di lealtà verso il regime si misura dai commenti sui grandi eventi.

La terza categoria comprende Kuwait, Marocco e Yemen. Anche il Libano fa parte di questo gruppo, che infatti l’autore chiama “Lebanese System” o anche “Diverse Print Media”. In questi stati esiste un grado di diversità e libertà d’espressione che manca in altri paesi arabi. L’influenza del governo sui media è limitata ed esercitata per vie legali.

La quarta categoria è emersa negli ultimi anni in stati quali Egitto, Giordania, Tunisia ed Algeria, dove i principali mezzi d’informazione sono proprietà del governo, ma sono affiancati da altri media, privati, sui quali lo stato esercita la sua influenza attraverso vie legali.

Una categoria a sé stante, infine, è rappresentata da quella che Rugh definisce “Offshore print”, che raccoglie quella stampa e quelle televisioni che hanno base in Europa pur essendo rivolti al pubblico arabo, ed anzi avendo una vocazione maggiormente panaraba di altri quotidiani. Esempi di questo giornalismo “offshore” sono rappresentati, tra gli altri, dalle testate “al-Ḥayāt”, “al-Šarq al-awṣaṭ” e “al-Quds al-‘arabī”.

Il primo di questi, al-Ḥayāt, è un giornale libanese che riceve finanziamenti dall’Arabia Saudita. Gli editori dichiarano che il fatto di mantenere la redazione a Londra permetta loro di mantenere una linea editoriale più libera, sebbene in base alle dichiarazioni degli stessi editori, l’essere finanziati da denaro saudita comporti un certo grado di autocensura nei riguardi delle politiche interne all’Arabia Saudita stessa.

Gli editori della seconda testata, “al-Šarq al-awṣaṭ” riportano pressioni sulla loro libertà d’espressione da parte dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo, che sono gli stessi paesi che li finanziano, mentre “al-Quds al-‘arabī”, pur ricevendo finanziamenti da OLP, Sudan, Iraq e Qatar, mantiene una linea editoriale meno dura nei riguardi dei vari Paesi del Golfo, lasciando presupporre che riceva denaro anche da quest’area. Appare evidente, dunque, come il sistema mass mediatico “offshore” presenti, almeno in parte, le stesse caratteristiche dei sistemi presenti all’interno dei territori nazionali arabi.

Negli ultimi capitoli l’autore presenta una panoramica delle principali radio e televisioni arabe, riassumendo come, per ragioni storiche, esse siano state fin da principio più soggette al controllo governativo. Le principali cause di questo interesse da parte dei poteri forti verso radio e televisione dipende, secondo Rugh, dal fatto che questi media sono molto più costosi da mantenere, e che, attraversando confini e barriere dovute all’analfabetismo, «the government has a much greater interest in controlling them or at least keeping them out of hostile hands». [p. 181]

Aggiunge inoltre che la stampa, pur costituendo una potenziale minaccia al potere «is not nearly as great a political threat as a radio or television station broadcasting to millions.» [p. 181]

Rugh divide poi la storia delle televisioni in due fasi: la prima, dagli anni cinquanta del novecento fino al 1990, e la seconda dal 1990 al 2003 (anno della pubblicazione di questo saggio). Secondo quanto scrive, la prima fase si caratterizza per un monopolio statale molto più rigoroso di oggi, in cui le reti di ogni paese riflettevano in maniera molto più specifica i rapporti tra il regime cui apparteneva la stazione televisiva e gli altri stati arabi. Negli anni novanta, con la creazione delle prime reti satellitari, da parte di privati, avviene un allargamento del pubblico a cui si rivolgono i nuovi canali, con un mutamento nelle tematiche e negli stili comunicativi, contribuendo allo sviluppo di un diverso approccio giornalistico:

News reporting was more aggressive and thorough. Talk shows explored topics new to Arab television that had only been dealt with previously in private conversations or to some extent in Western broadcasts like CNN. Now, with Arab satellite television, they were being discussed in the media in Arabic, including call-ins, on a pan-Arab level so the content was by Arabs for Arabs. [pp. 201-202]

L’autore conclude il suo studio scrivendo che in seguito, sebbene i governi dei singoli stati abbiano preso atto del potere delle reti satellitari per poi avviare la creazione di canali nazionali a fini politici, ciò non ha impedito che l’introduzione di queste tecnologie abbiano avuto un grande impatto sulla varietà di informazioni disponibili per il pubblico arabo, avviando un processo di rinnovamento che è ancora in corso.

Questo libro, nel suo insieme, offre uno sguardo generale non solo sullo sviluppo dei mass media nel mondo arabo, attraverso una considerevole mole di informazioni storiche, ma anche e soprattutto sul rapporto che intercorre tra i mass media e i sistemi politici di cui sono espressione, evidenziandone il lato economico e le dipendenze di potere, il cui esito più notevole è quella ripartizione in tipologie di sistemi presentata più sopra.

Meno convincenti appaiono le motivazioni che l’autore propone per spiegare le ragioni sociali del perché esista un certo genere di pratica giornalistica in seno alle società arabe, limitandosi ad affermazioni a mio avviso troppo semplicistiche e talvolta ingenue, che lasciano trasparire un approccio non mediato dai contributi degli studi antropologici e culturali sul mondo arabo e che avrebbero potuto smussare qualche spigolo nell’arco dell’esposizione, che peraltro si avvale di una prosa sciolta, priva di tecnicismi e di una descrizione precisa e sintetica degli argomenti trattati. La suddivisione del volume in brevi capitoli e paragrafi di non più di una decina di pagine facilita ulteriormente la lettura e l’individuazione dei blocchi tematici trattati dall’autore.

Infine, questo saggio rimane una delle poche opere che tentano di descrivere il mondo della stampa e dei mass media nel mondo arabo, affrontando una quantità di argomenti relativi alla storia più recente tale da costituire una fonte di dibattito inesauribile e una utile base di partenza per ulteriori ricerche.

Edoardo Barzaghi

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno II, numero 4, dicembre 2012

Acquista Back to Anno II, numero 4, dicembre 2012

L’Autore

Edoardo Barzaghi |