Samira Aghacy, Masculine Identity in the Fiction of the Arab East since 1967, Syracuse University Press, New York 2009, xvi + 226 pp.

In un contesto in cui gli studi dedicati all’identità di genere nella cultura e società arabe contemporanee si sono occupati nella quasi totalità delle identità femminili, Masculine Identity in the Fiction of the Arab East since 1967 è stato a ragion veduta accolto come un importantissimo primo passo nell’altra direzione, ovvero l’interesse verso l’identità di genere maschile.

Questa monografia è uno degli ultimi lavori di Samira Aghacy, attualmente professore di letteratura inglese e Decano della Faculty of Arts and Humanities della Lebanese American University di Beirut. Nella nota introduttiva al volume, Eveline Accad fa notare l’estremamente rara combinazione di Aghacy tra lo «studioso profondo e scrupoloso, e [il] brillante e competente amministratore» [p. ix], che ha saputo guidare la facoltà con notevoli risultati attraverso gli anni difficili di conflitti e turbolenze.

Qui, l’obiettivo dell’accademica libanese è di contestare la dominante visione riduttiva dell’uomo arabo, considerato, secondo un’ottica giudicata essenzialista, il perpetratore univoco ed immutabile del dominio patriarcale. Si dovrebbe parlare, infatti, d’identità maschili arabe al plurale. Leggendo le opere narrative attraverso un lente “di genere”, la mascolinità araba appare dunque in una insospettabile varietà di forme: da quelle egemoniche, più tradizionali e retrograde, ad altre subalterne, deboli, al limite dell’effeminatezza.

L’articolata introduzione permette di collocare questa monografia con precisione alla confluenza di diversi ambiti disciplinari. Il debito teorico nei confronti dei gender studies è manifestato fin dalle prime battute. Pease, Connel e Kimmel sono alcuni tra i principali riferimenti ai men studies, che l’autrice confronta con alcune tra le posizioni più recenti della critica femminista, espresse attraverso interventi di Butler, Sedgwick, Moi, tra gli altri, oltre che di Kandioty, tra quelle dedicate al Medio Oriente.

La necessità stessa di un tale studio trova spunto e giustificazione nella concezione di mascolinità che ne fa da base. Non si può più parlare di un “uomo arabo archetipo”: una simile concezione è contestabile per il suo essere indubbiamente legata ad un eccessivo eurocentrismo. La mascolinità va ricollocata nelle diverse configurazioni culturali e sociali in cui si dà, permettendo agli studi di genere nell’area di non restare isolati da un contesto in cui sia uomini che donne soffrono oppressione politica e sociale.

In considerazione della vasta eterogeneità culturale del mondo arabo, l’area di riferimento è stata delimitata all’Arab East, ovvero si tratta di autori provenienti da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. È poi significativa la collocazione storica e geografica dell’indagine proposta: i testi in esame sono stati redatti dopo la disfatta del 1967. Le ragioni di tale scelta sono intimamente collegate con la lettura problematica offerta della mascolinità: la scrittura narrativa verrà letta «nel contesto di uno specifico complesso di ansie nei confronti della mascolinità, del ruolo di genere e della sessualità negli anni tumultuosi che condussero alla Naksah del 1967, fino al presente» [pp. 1-2].

Chiaro è il ruolo rivelatore che ha la scrittura romanzesca nei confronti della politica, sopratutto in virtù della sua capacità di aggirare il controllo dei regimi; tuttavia, le considerazioni di genere complicano il quadro. Aghacy, infatti, scegliendo sia autori che autrici, contesta l’osservazione di Miriam Cooke riguardo alla letteratura libanese, secondo la quale le donne sarebbero più propense a scrivere del quotidiano e del personale, a discapito della politica e dell’ideologia[2]. Da un lato, si sottolinea l’interesse da parte di scrittrici arabe per le tematiche politiche; dall’altro, anche gli uomini sono tutt’altro che restii a proiettare il loro sguardo verso lo sfera privata e domestica dell’esistenza.

Sono molti (18 in tutto, senza contare vari altri cui si accenna) i romanzi che in questo volume Samira Aghacy analizza con una tecnica «fortemente influenzata dalla close reading» [p. 16]. Essendo il gender la chiave della sua analisi, appare logico come la selezione non sia stata guidata dalle caratteristiche formali, o dalle poetiche o tecniche narrative utilizzate. Mentre un aspetto condiviso dalla maggior parte di queste scritture è il ricorso alla tematica politica, il quale giustifica la predominanza di stili realistici e lineari in narrative generalmente unitarie e goal-oriented, altre opere, invece, denotano un approccio più sperimentale, tendente all’instabilità, volto verso stili introspettivi, confidenziali. Ciò conduce a un problema nella sua essenza interpretativo. È per non scivolare nella trappola di un eccessivo allegorismo, a mio avviso, che l’autrice desidera mettere le cose in chiaro da subito: pochi testi possono essere definiti allegorici, nondimeno la maggioranza di questi romanzi ha la capacità, allegorica per definizione, di alludere ad altre storie al di fuori del testo, rendendo il privato generale e politico.

Su ognuno dei quattro paradigmi di mascolinità che la studiosa libanese vede operanti all’interno di queste narrative è incentrato uno dei quattro capitoli principali dello studio.

Il primo, Oedipus King – Tortured Masculinity, verte intorno alla tipologia più egemonica e conservatrice di mascolinità. In essa il ricorso a valori indiscussi di virilità e machismo, considerati immutabili ed universali, è utilizzato da parte dei personaggi come reazione al drastico cambiamento della realtà circostante: lo scopo di questa esibizione di mascolinità tradizionale è quello di mantenere il controllo di una situazione radicalmente mutata ormai difficile da interpretare.

Nei testi che compongono la seconda sezione, The Politics of Masculinity – Goal-(Dis)Oriented Masculinity, incontriamo personaggi che offrono, inestricabilmente intrecciata all’impegno politico, «un tipo di mascolinità paradossalmente progressista ed allo stesso tempo retrograda» [p. 55], il cui obiettivo è il cambiamento sociale e la resistenza politica attraverso la lotta armata. Queste narrative mostrano «la figura del fidāʼī come epitome di una mascolinità idealizzata [e una] identità nazionale caricata di valenze di genere, dove il sessuale e il politico sono interconnessi» [p. 56].

Dictator as a Patriarch – The State and the (Dys)Functional Male propone invece l’intellettuale non di fronte al discorso nazionalista, bensì di fronte allo Stato arabo; qui troviamo opere che criticano i governi ed i regimi postcoloniali, che pongono in evidenza l’impatto dello Stato militare sulle élite educate, nel suo tentativo di ridurle a cittadini passivi. Il concetto di Stato neopatriarcale evidenzia qua il nesso tra gender e politics: l’oppressione statale umilia il maschio arabo costringendolo a posizioni subordinate, che sovente assumono connotazioni femminili. Dall’altro lato, Aghacy fa notare come nei romanzi proposti il carcere susciti immagini contrastanti, sia un luogo di deprivazione fisica e tortura e una zona grigia attraversata da legami omoerotici, ma anche «generatore di una presa di responsabilità e fonte di liberazione» [p. 95].

Infine, Oedipus Deposed – The Man Sex(uality) è incentrato su testi consapevoli di un tipo di mascolinità fragile e vulnerabile, scritti immediatamente dopo la guerra civile libanese. Secondo Aghacy si tratta di una diversa sensibilità di genere derivata appunto dall’esperienza della guerra. Questa, configurandosi come forma di potere e di coercizione di uomini su altri uomini, più che come esperienza virile per eccellenza, getta luce sulla discordanza tra il modello ideale di mascolinità ed altre mascolinità realizzatesi nei fatti storici, che sono invece subalterne, insicure, marginali.

Ben risaltano le potenzialità offerte da un’analisi letteraria che sia gender conscious dal punto di vista sia femminile che maschile. L’impianto teorico su cui tale visione si basa è condiviso da una serie di studi dedicati a diversi ambiti disciplinari e raggruppamenti culturali e geografici. La vera novità sta nel trovarlo come chiave di volta interpretativa di uno studio di letteratura araba contemporanea.

Il pregio del presente studio è di non tradire la natura di questa monografia e le sue premesse e di concentrarsi, quindi, sul materiale trattato: il romanzo arabo. Conferma di ciò si trova scorrendo la ricca bibliografia, dove il peso dei riferimenti agli studi di genere è bilanciato da testi per lo più recenti di critica letteraria, di soggetto e autori arabi e non, dei quali colpisce l’estrema varietà tematica e di orientamento.

Traspare da queste pagine un rapporto engagé, se non proprio militante, con la materia letteraria. Ciò è prima di tutto evidente nella predominanza data agli aspetti politici ed ideologici nel definire le dinamiche caratterizzanti i quattro paradigmi di mascolinità identificati. Se da un lato le relazioni di potere sono imprescindibili da certe connotazioni di genere che assumono, è altrettanto vero, sostiene l’autrice, che il rapporto tra cittadino e Stato, come quello tra ideologia, oppressione, libertà di espressione e democrazia, non smette di essere una problematica viva ed aperta nella realtà sociale e culturale dei paesi arabi.

Il rilievo dato a queste criticità è ancor più chiaro nella Afterword: qui Aghacy affronta due nodi rilevanti. Il primo è quello della religione, l’Islam politico, che l’autrice fa notare quanto sia un tema pressoché assente o marginale nella produzione letteraria. Ad essere chiamata in causa è la relazione instabile e conflittuale tra intellettuali arabi e islamisti, questi ultimi visti dai primi come complici dei regimi. Dell’Islam politico viene qui notato l’aspetto prevaricatore e anti-culturale, responsabile di campagne diffamatorie nei confronti di scrittori che hanno “osato” storicizzare l’Islam, in reazione al quale tale assunto è stato quasi del tutto abbandonato, a vantaggio di un rinchiudersi in esperienze personali e tematiche locali. Tale osservazione finale propone una lettura che vada oltre il dato di genere: essa poggia, infatti, su considerazioni essenzialmente politiche, che chiamano in causa, cioè, il rapporto tra potere e scrittore.

Il secondo nodo, connesso al ritirarsi della letteratura nel privato, riguarda il confine tra sessualità, oscenità e censura. Il ricorso a questioni “scottanti” è presentato anch’esso all’ombra della relazione tra gli intellettuali ed i regimi: la trasgressione ha scopo politico, per la sua duplice capacità di collegare il personale al pubblico/politico e di scuotere il lettore aggirando la censura, anch’essa politica.

In definitiva, fin nelle sue righe conclusive questa monografia sembra indicare implicitamente altri aspetti dell’identità maschile araba, meritevoli di approfondimento. La sensazione è che sia stato aperto un vaso di Pandora: abbiamo forse davanti una nuova frontiera?

ِAlessandro Buontempo

[3] I romanzi proposti sono: Ẓill ʻala al-nāfiḏah (Ombra sulla finestra), Ġāʼib Ṭuʼmih Faramān, 1979; al-Raḥīl ʻinda al-ġurūb (Partenza al tramonto), Ḥannā Mīnah 1992; ʻIṣbah al-wardah al-damiyah (La lega della rosa insanguinata), Muʼnis al-Razzāz, 1997; Ḥikāyah Zahrah (La storia di Zahra), Ḥanān al-Šayḫ, 1980.

[4] al-Baḥṯ ʼan Walīd Masʻūd (Alla ricerca di Walīd Masʻūd), Ğabrā Ibraḥīm Ğabrā, 2000; al-Mirāṯ (L’eredità), Saḥar Ḫalīfah, 1997; Bāb al-Šams, Īlyās al-Ḫūrī (trad. it. La porta del sole, Torino, Einaudi, 2004), 1998; al-Ẓill wa’l-ṣadā (L’ombra e l’eco), Yusīf Ḫabšī al-Ašqar, 1989.

[5] I testi sono: Iʻtirāfāt kātim al-ṣawt (Confessioni di un silenziatore), Muʼnis al-Razzāz, 1986; Nihāyah al-barāʼah (Il lato dell’innocenza), Rašīd al-Ḍaʻīf, 1997; Iḏā al-ayyām aġsaqat (Se i giorni si accorciano), Ḥayāt Šarārah, 2002; al-Futiyt al-mubaʻṯar (Briciole sparse), Muḥsin al-Ramlī, 2000; al-Ṣamt wa’l-ṣaḫab (Il silenzio e il rumore), Nihād Sīrī, 2004.

[6] Ḥağar al-ḍaḥik (La pietra del riso), Hūdā Barakāt, 1990; Ġināʼ al-batrīq (Il canto del pinguino), Ḥassān Dawūd, 1998; Yā salām, Nağwah Barakāt, 1999 (trad. it. Ya salam!, Epochè, Milano, 2007); Taṣṭafil Mīril Strīb, Rašīd al-Ḍaʻīf, 2000 (trad. it. Chi se ne frega di Meryl Streep, Jouvence, Roma, 2003); Yawm al-Dīn (Il giorno del Giudizio), Rašā al-Amīr, 2002.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 1, giugno 2011

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Alessandro Buontempo |