Libya: Hurriya. Contemporary Artists from Libya, Luciano Benetton Collection, Fabrica, Antiga Edizioni, Crocetta del Montello (TV) 2016, pp. 354.

In un momento storico come quello attuale in cui la Libia appare avvolta da una cappa nera che simboleggia, da una parte, il tetro colore della presenza dell’Isis e, dall’altra, la disperazione dei migranti che arrivano per mare dalle sue coste, sfogliare un libro che ritrae immagini provenienti da quella realtà, ma ricche di colori, luce e sorrisi di speranza, rappresenta un vero sollievo. È quanto accade con Libya: Hurriya. Contemporary Artists from Libya, che la Collezione Luciano Benetton ha dedicato alla Libia. Il volume rientra nel più ampio progetto di Imago Mundi, la collezione di arte contemporanea formata da migliaia di opere che l’imprenditore ha raccolto nei suoi viaggi, coinvolgendo artisti noti ed emergenti di tutto il mondo1. Fino a oggi i paesi interessati sono stati circa cento e la Libia è stato uno degli ultimi, nel 2016.
Il catalogo, come il resto della Collezione, è pubblicato in tre lingue: italiano, inglese e, in questo caso, arabo; il tutto a cura di Naǧlā’ al-‘Aǧīlī (Najlaa El-Ageli)2, curatrice d’arte libica che nel 2012, a Londra, ha creato Nūn li ’l-funūn (La Nūn delle Arti), una piccola fondazione privata avente lo scopo di promuovere l’arte contemporanea libica nel mondo. Le opere e le biografie dei 140 artisti selezionati sono anticipate da quattro capitoli affidati a esperti locali, con l’Introduzione di Luciano Benetton, che ricorda come in Libia tra la popolazione civile, nonostante le fazioni tribali e i conflitti, non manchino «giovani cittadini, uomini e donne, che con ottimismo tornano a fare progetti per il futuro. […] Giovani e giovanissimi che aspirano a studiare, lavorare, ascoltare musica o fare sport con gli amici. Sognano in grande e sperano nel futuro» [pp. 10-11]. Proprio la speranza di un nuovo domani sembra cogliersi nella domanda a firma del poeta libico ‘Āšūr al-Ṭuwaybī (1952), impegnato in prima persona nella rinascita del paese, che l’imprenditore pone in apertura alla sua Introduzione: «Attraverseremo il ponte con la pace?» [p. 10]. Ed è sempre al poeta che viene affidata una possibile risposta, allorché egli invita a «ripartire da una cultura moderna non macchiata da idee tradizionaliste o sterili ideologie di chiusura, sotto qualunque bandiera esse si presentino. Dunque, il nostro obiettivo deve essere quello di vivere in una società moderna in ogni senso della parola, in cui tutti i suoi membri e tutte le classi godano dei loro pieni diritti»3 [p. 10].
Il senso dell’intero volume si può percepire sin dalla parola contenuta nel titolo Hurriya (ḥurriyyah, libertà), giacché nella collezione Imago Mundi i titoli dei cataloghi sono simbolicamente rappresentativi di alcune realtà dei singoli paesi4. Hurriya è anche il titolo dell’Introduzione che non viene tradotto nelle versioni inglese e italiana, probabilmente per rimarcare quanto la libertà costituisca la condizione ineludibile per il riscatto del paese, la cui assenza è costata cara ai tanti letterati e artisti libici che, attraverso diverse forme d’arte, hanno manifestato il proprio dissenso sotto il regime di Gheddafi (Mu‘ammar al-Qaḏḏāfī). Non a caso sin dalle prime pagine il volume menziona, quasi a mo’ di simbolo per tutte le vittime uccise in nome della libertà di espressione, il giovane Qays al-Hilālī (Kais al-Hilali, 1979-2011), uno dei più noti street artist e attivisti libici ucciso a colpi di pistola il 20 marzo del 2011 in una strada di Bengasi, proprio mentre realizzava una delle sue storiche caricature dell’ex leader.
Il primo capitolo, della curatrice Naǧlā’ al-‘Aǧīlī, evidenzia le numerose difficoltà riscontrate per contattare gli artisti selezionati, in particolare i 110 residenti in Libia, a causa delle instabili condizioni sociali e della mancanza quasi totale di ogni sorta di collegamento. Per quanto riguarda gli altri 30, questi vivono da anni all’estero e le loro voci sembrano rappresentare le varie diaspore vissute dal popolo libico nell’arco degli ultimi quarant’anni di dittatura. Particolarmente interessanti sono i successivi due capitoli che propongono un excursus sulla nascita dell’arte moderna e contemporanea in Libia: Breve storia dell’arte libica: focus sulle arti visive di Hādiyah Qānah (Hadia Gana, 1973) e Breve studio storico: la scena artistica in Libia di Hālah al-Qillālī (Hala Ghellali). Secondo Hādiyah Qānah – figlia del famoso artista e scultore ‘Alī Qānah (1936-2006), impegnata nella creazione della Fondazione in memoria di suo padre rivolta a promuovere l’educazione culturale e artistica in Libia –, i moderni movimenti artistici libici si possono comprendere solo guardando da vicino la recente storia del paese che, come è noto, nel secolo scorso è passato dall’Impero ottomano alla colonizzazione italiana, per poi conoscere l’indipendenza nel 1951 con la monarchia di Muḥammad Idrīs al-Sanūsī (1889-1983), il cui regno è durato fino al golpe militare di Gheddafi nel 1969. Entrambe le autrici introducono i capitoli ricordando la prima figura di rilievo dell’arte moderna libica, Muḥammad ‘Alī Lāġā (Mehmet Ali Laga, 1878), uno dei fondatori della Ǧam‘iyyat al-rassāmīn al-‘umāniyyah (Società Ottomana dei Pittori), che realizzava disegni e schizzi a carboncino. Le sue opere, che ritraevano ambienti cittadini, edifici religiosi, marabutti, sono divenute importanti testimonianze della vita dell’epoca.
Hālah al-Qillālī rievoca, inoltre, un evento fondamentale per la vita culturale non solo del periodo: l’inaugurazione nel 1898 della Madrasah li ’l-funūn wa ’l-anā’i‘ (Scuola di Arti e Mestieri), tuttora importante istituto di Tripoli. Vale la pena ricordare che la Scuola, insieme ad altri istituti come le Rāšidiyyah, la Dār al-mu‘allimīn (Casa dei Maestri), al-Madrasah al-zirā‘iyyah (Scuola Agraria), ebbe il grande il merito di contribuire alla nahḍah del paese, anche perché queste scuole erano dotate di tipografie, basilari per la divulgazione della cultura attraverso la pubblicazione dei primi giornali locali5. La Scuola, nata grazie alla generosità dei tripolini che donarono fondi e terreni su cui costruire l’istituto, «nel corso di tutti i momenti storici difficili, è rimasta aperta e ha continuato a essere un centro attivo anche durante la colonizzazione italiana e le due guerre mondiali» [p. 34].
Le due autrici, poi, parimenti rilevano l’assenza totale di attività culturale durante la colonizzazione italiana. Come fa intendere Hādiyah Qānah, è solo in seguito all’allontanamento degli italiani e la successiva «apertura delle scuole secondarie arabe che in precedenza non erano accessibili agli indigeni» [p. 27] che il paese registrò la comparsa di numerosi artisti, tra cui Fu’ād al-Ka‘bāzī (1922-2012), noto soprattutto come letterato e grande conoscitore della lingua italiana in cui compose alcune poesie.
Tuttavia, per una svolta decisiva bisogna attendere gli anni Sessanta, testimoni di profondi cambiamenti sociali e culturali per la Libia, conseguenza del repentino passaggio da una comunità beduina e rurale a una urbana e industrializzata. Ecco che come da un punto di vista letterario gli scrittori gradualmente uscirono dal loro isolamento, da un punto di vista artistico si rilevò una maggiore sensibilità e consapevolezza artistica: si inaugurò il Nādī al-fannānīn (Club degli Artisti), tra i cui rappresentanti si segnala il summenzionato ‘Alī Qānah che, nel 1973 all’Università di Tripoli, fondò il Qism al-funūn al-taškīliyyah (Dipartimento di Arti Plastiche), importante tappa per la formazione artistica dei giovani del tempo. Nacque anche la prima scuola caricaturale libica ad opera del famoso fumettista bengasino Muḥammad al-Zawāwī (1936-2011) e, gradualmente, gli artisti libici conquistarono la possibilità di esporre le proprie opere fuori dalla Libia.
Da lì a breve, però, con l’avvento degli anni Ottanta si registrò, come hanno testimoniato molti scrittori libici, un inasprimento della censura e un restringimento di ogni forma di libertà di espressione. Tuttavia, dalle parole delle due autrici si intuisce che, nonostante il decennale isolamento del paese dai movimenti artistici internazionali, la fiammella dell’arte non si era mai spenta del tutto, tanto da rinfocolarsi con la rivoluzione del 2011. La rivolta ha portato con sé ondate di speranza, ma anche di profonda rabbia verso l’ex leader che inevitabilmente è diventato il soggetto di irriverenti murales, vignette, canzoni e così via. Hādiyah Qānah osserva come in particolare la fotografia, per esempio, bandita per decenni, sia diventata una nuova forma di testimonianza, incoraggiata anche dalla presenza nel paese di organizzazioni straniere. Gradualmente sono sorte piccole associazioni di settore, caffè e centri culturali che, soprattutto attraverso i nuovi mezzi a disposizione, in primis il web, stanno contribuendo a diffondere le arti figurative libiche nel mondo.
L’ultimo capitolo, ancora di Hālah al-Qillālī, si intitola Artiste donne nell’attuale scena artistica libica. Qui si sottolinea come l’esposizione pubblica di opere d’arte firmate da donne sia «un fenomeno relativamente recente all’interno di una scena artistica tradizionalmente maschilista» [p. 43], richiamando così un concetto già espresso per la letteratura libica, altro campo culturale in cui solo negli ultimi decenni, grazie a internet, «si sono fatte conoscere alcune giovani scrittrici, mutando, così gradualmente, il volto “maschile” che da sempre ha caratterizzato la letteratura libica»6. Fondamentale per la formazione di queste artiste, appartenenti per la gran parte alla generazione nata alla fine degli anni Sessanta e Settanta, è stata la Madrasat al-funūn al-ǧamīlah wa ’l-i‘lām (Scuola di Belle Arti e Media) fondata all’Università di Tripoli nel 1989. Lo stesso anno, sempre a Tripoli, veniva inaugurata la prima galleria d’arte privata, la Dār Lībiyā li ’l-funūn (Casa delle Arti della Libia), grazie al noto artista ‘Alī Muṣṭafà Ramaḑān (1938).
Le artiste selezionate per il catalogo si sono cimentate su materiale quanto mai eterogeneo: tela, tessuto, ceramica, vetro, legno, argilla. Arwà Abū‘ūn (Arwa Aboun, 1982), per esempio, che vive in Canada, nelle sue opere realizza interventi grafici, fotografie, video. Le sue creazioni esplorano il ruolo della donna musulmana in Occidente e l’opera creata per Imago Mundi è una stampa digitale su tela dal titolo Asif, sāmaḥtuka/ki (Scusa, ti ho perdonato), in cui è ritratto il profilo dei suoi genitori che si baciano il capo a vicenda, in segno di perdono reciproco. Il tutto su un particolare sfondo grafico in bianco e nero che rende l’immagine originale e toccante. Taqwà Abū Barnūsah (Takwa Abu Barnosa, 1998), tra le più giovani artiste inserite nel volume, invece, ama sperimentare la fusione della calligrafa araba ad altre forme tecniche. Per l’occasione ha deciso di scrivere la parola al-awf (La paura) su uno sfondo per metà colorato di rosso come il sangue, ispirandosi all’esperienza della paura vissuta in prima persona allorché, nel 2014, con la famiglia è dovuta scappare da Tripoli per rifugiarsi sulle montagne. La calligrafia è la tecnica scelta anche da diversi artisti uomini presenti nel catalogo, spesso allievi dei più stimati calligrafi libici, quali sono stati lo šayḫ Abū Bakir Sāsī (Abu Baker Sassi)7 e Ǧamāl Bin Sa‘īd (Jamal Bensaid). La pittrice Naǧlā’ Šawkat al-Fītūri (Najla Shawket El Fitouri, 1968) si distingue per il colore blu costantemente presente nei suoi lavori su tela; un colore che – come lei stessa ha spiegato – le viene ispirato dalla presenza del Mar Mediterraneo nella sua vita [p. 43]. I suoi quadri sono affollati di donne che, avvolte in veli bianchi o in colorati abiti tradizionali, dominano sempre il primo piano della scena, lasciando agli uomini solo spazi marginali. In questo breve memorandum di artiste, non si può trascurare il nome di Naǧwà Bint Šatwān (Najwa Benshatwan, 1968), più nota come scrittrice. Il suo ultimo romanzo Zarā’ib al-‘abīd (Le capanne dello schiavo, 2016) è stato inserito nella shortlist dell’International Prize for Arabic Fiction del 2017, ma già in passato l’artista aveva ottenuto vari riconoscimenti letterari. La sua raccolta di racconti al-Malikah (La regina, 2008) è stata recentemente tradotta in lingua italiana8.
Come artisti uomini ci piace segnalare ‘Alā’ Abū Dabbūs (Alla Abudabbus, 1975), invece, ingegnere civile con la passione per il graphic design, autore dell’immagine scelta per la copertina del catalogo: una stampa digitale su tela che reinterpreta, con una mise tipica del Nord Africa, la statua della libertà, simbolo universale di libertà e democrazia. Non a caso l’opera si intitola al-Ḥāǧǧah Ḥurriyyah, dove la parola ḥurriyyah è accompagnata da un titolo onorifico di profondo rispetto nella cultura musulmana – al-Ḥāǧǧah, femminile di al-ḥāǧǧ – che si attribuisce a persone di grande esperienza o di elevato ceto sociale che si presuppone abbiano compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, pilastro della fede islamica. Dunque, un’invocazione alla libertà e alla democrazia, ma senza rinnegare la religione, che non è certo sinonimo di fanatismo.
Tutti gli artisti presentati nel catalogo, a prescindere dal genere e dalle diverse espressioni artistiche utilizzate, hanno in comune tra loro un tipo di arte che non ha mai scisso i legami con il passato del paese; anzi, ne riflette la storia, intesa sia come patrimonio culturale sia come riflessione sui difficili momenti socio-politici che la Libia ha vissuto, ieri come oggi. Il volume vuole essere, così, una concreta testimonianza di quanto già espresso da tanti scrittori libici, ovvero che gli artisti, intesi con il termine ampio di mubdi‘ūn, svolgono una rilevante funzione sociale in tutti i tempi e spazi e la loro arte, sia essa un’opera letteraria o figurativa, può essere un importante strumento di coesione sociale e riappacificazione civile, contro ogni forma di fanatismo e settarismo. Questo tipo di iniziative editoriali sono certamente valide e contribuiscono a sostenere la rinascita dei popoli protagonisti delle primavere arabe. Tuttavia, l’editore e i curatori dell’opera avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione alla parte linguistica, evitando, ad esempio, la traduzione dall’arabo in italiano filtrata da una lingua “ponte”, in questo caso, molto verosimilmente, l’inglese. Si sarebbero così evitate alcune sviste, come quella in cui il menzionato club Nādī al-fannānīn è diventato il nome di un artista [pp. 23, 27]. O ancora, il titolo dell’opera di Hādiyah Qānah, Uḏran, qul-hā marrah uḫrà (Scusa, ripetila di nuovo), tradotto in inglese Sorry, Say It Again…, in italiano è diventato Scusa, ripetilo di nuovo… [p. 245], al maschile, trascurando che nella frase araba c’è il pronome femminile suffisso hā, che si riferisce alla Libia. Anche il già citato titolo della tela riportata sulla copertina del volume al-Ḥāǧǧah Ḥurriyyah, tradotto in inglese Libyan Freedom, è stato reso in italiano con Libertà libica [p. 65], traduzioni che sicuramente sminuiscono il senso dell’espressione nella lingua originaria.

Elvira Diana


1 Secondo il progetto, a ogni artista viene commissionato di realizzare un’opera, in maniera volontaria e gratuita, rispettando un unico vincolo: il formato dell’opera deve rientrare nei 10×12 centimetri. Si veda il sito www.imagomundiart.com.
2 Tra parentesi si indicano i nomi secondo la traslitterazione adottata nelle versioni inglese e italiana del catalogo, che è poi quella usata anche dalla stampa occidentale dedicata all’evento.
3 La traduzione è mia.
4 Per esempio, il volume dedicato alla Tunisia si intitola Tunisia Turbulences (2014); quello sul Marocco, Morocco: The Surprise of Absence (2014); quello sullo Yemen, Yemen Fantasticality (2015); quello sulla Siria, Syria off frame (2015).
5 E. Diana, La letteratura della Libia. Dall’epoca coloniale ai nostri giorni, Carocci, Roma 2008, p. 35.
6 E. Diana, L’immagine degli italiani nella letteratura libica dall’epoca coloniale alla caduta di Gheddafi, IPOCAN, Roma 2011, p. 8.
7 In altre fonti occidentali si può trovare traslitterato Abubaker Sasi.
8 Najwa Benshatwan, La regina, Introduzione, traduzione e note a cura di M.G. Sciortino, con la Prefazione di A. Pellitteri, collana Arabeschi 4, Aracne, Roma 2016.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VIII, numero 15, giugno 2018

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Elvira Diana |