Zeina G. Halabi, The Unmaking of the Arab Intellectual: Prophecy, Exile and the Nation, Edinburgh University Press, Edinburgh 2017, pp. Xix, 191.
In questa sua monografia d’esordio, Zeina G. Halabi indaga le sorti dell’intellettuale arabo a partire dagli anni Novanta. La scelta di questo periodo è motivata dal fatto che, negli anni Novanta, diversi eventi storici segnarono definitivamente la fine di tutte le illusioni politiche e ideologiche che avevano caratterizzato i decenni precedenti. Innanzi tutto, la guerra civile libanese, formalmente terminata nel 1989 con gli accordi di Tāʾif, aveva lasciato dietro di sé uno scenario di distruzione senza precedenti, acuendo la piaga del settarismo anziché porvi fine. In secondo luogo, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq (1990) aveva fatto emergere in modo eclatante l’aggressività della politica regionale di Saddam Hussein e la fragilità della solidarietà interaraba. Quanto alla questione palestinese, infine, essa era rimasta irrisolta, e anzi si era ulteriormente complicata impantanandosi nel ginepraio diplomatico di Oslo (1993), che, nonostante una facciata ricca di buone intenzioni, aveva confermato una volta di più l’impossibilità de facto di costituire uno stato palestinese in un territorio reso ormai discontinuo dai numerosi insediamenti israeliani illegali.
In un simile scenario, si chiede Halabi, che cosa resta dell’intellettuale-profeta incarnato da figure come Maḥmūd Darwīš, ʿAbd al-Raḥmān Munīf, Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā e altri protagonisti della cultura araba del Novecento? E che cosa resta delle loro profezie che non si sono avverate, rimanendo nient’altro che inchiostro su carta? Facendo affidamento su un’accezione ampia e composita del lavoro intellettuale, in questo suo studio Halabi prende in considerazione fonti primarie eterogenee: non solo poesia e romanzo, dunque, ma anche i film di Ilyā Sulaymān e i documentari di Simone Bitton; non solo letteratura in arabo, ma anche letteratura diasporica anglofona, come nel caso di Rawi Hage (Rāwī al-Ḥāǧǧ), uno degli autori presi in analisi; non solo, infine, autori ultra contemporanei, ma anche autori delle generazioni precedenti, e persino un pioniere del romanzo arabo come Ǧurǧī Zaydān. La scelta di operare in modo “prismatico” è dettata dalla necessità di rispettare la complessità del presente, evitando la rigidità di un approccio storicizzante lineare e tentando di restituire la multidimensionalità delle opere esplorate; un obiettivo, questo, che la monografia realizza in pieno.
Dopo una Prefazione in cui viene introdotta la profezia inadempiuta di Maḥmūd Darwīš su un mondo senza oppressione – profezia che, in una sorta di fil rouge narrativo, viene ribadita all’inizio di ogni capitolo, dove Halabi cita sempre qualche verso del poeta palestinese che profetizza l’avvento di un futuro luminoso –, l’Introduzione, che porta il titolo di «In the Beginning was the Word», inquadra la problematica della sparizione dell’intellettuale-profeta affrontata dal volume.
The Unmaking of the Arab Intellectual si compone di cinque capitoli, che – avverte l’autrice nell’Introduzione – «do not constitute a teleological narrative, for each can be read on its own and in no particular order» [p. 31]; tuttavia, alla fine della lettura risulta chiaro come i cinque capitoli insieme diano un quadro piuttosto dettagliato e corposo del disfacimento dell’intellettuale-profeta arabo nel corso degli ultimi decenni. La scelta del corpus è operata sulla base della pertinenza di certi autori rispetto al tema in oggetto: ad esempio, Rabīʿ Ǧābir e Ilyās Ḫūrī sono scelti per la loro innegabile importanza nel panorama letterario libanese post-bellico, Rawi Hage e Ilyā Sulaymān perché emblematici di un trattamento post-umanistico della tematica dell’esilio, Rašīd Ḍaʿīf in quanto ricolloca l’intellettuale della nahḍah nel presente. Aggiungiamo che il metodo comparativo-contrastivo utilizzato nella gran parte dei casi ha probabilmente influenzato la scelta degli autori, che di volta in volta vengono messi in rispettiva contrapposizione per evidenziarne le differenze.
Un numero così ristretto di casi studio – ammette Halabi – può risultare in una mancata generalizzabilità delle conclusioni raggiunte dal saggio; tuttavia, l’autrice non si prefigge di essere esaustiva, ma solo di illustrare alcune delle modalità in cui l’intellettuale arabo si è andato riconfigurando nell’ultimo trentennio.
Il capitolo I, significativamente intitolato «Requiem for the Enlightenment», è incentrato sulla rielaborazione della figura dell’intellettuale nahḍawī proposta dal romanziere libanese Rašīd Ḍaʿīf nel suo Tablīṭ al-baḥr (Pavimentare il mare, 2011). Si tratta di un romanzo storico che ha come protagonista Ǧurǧī Zaydān e il suo amico fittizio Fāris al-Hāšim: i due, che simboleggiano l’intellettuale arabo di formazione laica e scientifica, dotato di una fede incrollabile nella modernità e nel progresso, vengono fatti oggetto di un’ironia dissacrante che ne smaschera l’“auto-orientalismo” e il vano ottimismo positivista. L’intellettuale del passato non rappresenta più un archetipo a cui guardare con nostalgia, ma deve essere de-romanticizzato poiché la sua profezia risulta ormai inservibile e muta.
Nel capitolo II, «Elegy for the Intellectual», il focus è su Rabīʿ Ǧābir e Ilyās Ḫūrī, e in particolare sul loro rapporto con il suicidio dell’intellettuale libanese Rālf Rizq Allāh nel 1995. Se Ḫūrī, nella sua elegia per Rizq Allāh pubblicata su “al-Mulḥaq”, supplemento culturale settimanale del quotidiano beirutino “al-Nahār”, legge la morte dell’amico e collega come l’atto di protesta di un intellettuale che si sacrifica per la propria generazione, rigettato da una Beirut che cerca di cancellare ogni traccia della guerra, Ǧābir invece indaga fittivamente su questo accadimento nel suo romanzo Rālf Rizq Allāh fī ʾl-mirʾāh (Rālf Rizq Allāh allo specchio, 1997), reinterpretando il suicidio di Rizq Allāh come gesto narcisistico, individuale, privato. Ciò che si scontra, in questo caso, sono due opposte concezioni dell’intellettuale: da un lato, Ilyās Ḫūrī rappresenta l’intellettuale custode della memoria collettiva, in grado di salvare la propria società dalla rimozione del trauma e quindi dalla consequenziale coazione a ripetere; dall’altro, Rabīʿ Ǧābir, scrittore estremamente schivo e sfuggente, rigetta il ruolo di intellettuale pubblico e di portavoce di una generazione, fosse anche la dimessa ǧīl al-ḫarāb, la generazione delle rovine di cui parla Ḫūrī.
Nel capitolo III, «The Banality of Exile», Halabi mostra come Rawi Hage e Ilyā Sulaymān decostruiscono la mitologia romantica della ġurbah, alimentata dagli scritti di intellettuali quali Edward Said e Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā. Nel suo romanzo Cockroach (2008), Hage si produce in una satira spietata che prende di mira l’intellettuale multazim degli Anni ’60 e ’70, il quale, trovandosi esule, vorrebbe camuffare lo squallore delle proprie condizioni di vita con il belletto dell’esilio nobile e gravido di creatività, finendo per risultare soltanto ridicolo. Quanto a Sulaymān, in film come Saǧl iḫtifāʾ (1996), distribuito in italiano col titolo di Cronaca di una sparizione, egli mette in scena con accenti comici il ritorno dell’intellettuale in Palestina dopo Oslo, e la sua totale afasia di fronte alla prosaica realtà che si trova davanti: persino la scena della perquisizione del suo appartamento e del demenziale inventario dei suoi averi, che ricorda da vicino una analoga scena di al-Baḥṯ ‘an Walīd Masʿūd (In cerca di Walīd Masʿūd, 1988) di Ǧabrā, dimostrano una volta di più l’incolmabile distanza che divide lo svilito intellettuale palestinese odierno dalla dignitosa solennità del suo omologo del passato.
Il capitolo IV, intitolato «Ruins of Secular Nationalism», è interamente dedicato al romanzo al-Āḫarūn (Gli altri, 2006)[1] della giovane saudita che scrive sotto lo pseudonimo di Seba al-Herz (Ṣibā al-Ḥirz). Nonostante questo romanzo sia stato da molti catalogato come un disimpegnato esempio di chick-lit arabo, Halabi evidenzia come esso abbia in realtà un portato politico ben preciso: l’autrice, infatti, ingaggiando una lotta ideologica con la generazione dei propri genitori, ne rifiuta l’ideologia panaraba per darsi delle coordinate identitarie molto più localistiche e, soprattutto, di chiara marca religiosa, e più precisamente sciita.
Nel capitolo V, «The Political Remains», che funge da conclusione, Halabi tira le fila del discorso, riepilogando i diversi argomenti e casi studio trattati nelle pagine precedenti, senza trascurare una riflessione sul possibile ruolo dell’intellettuale arabo nel post-2011.
Evidenziando come gli intellettuali arabi siano impegnati ormai da decenni a superare qualsiasi retorica romantizzante e qualsiasi forma di autocompiacimento per i drammi storici vissuti, e a demistificare un passato e un presente troppo spesso velati di fumosa retorica, in questa sua monografia Halabi riesce a dipingere un’immagine assolutamente inedita e cangiante – per quanto disincantata e spesso cinica – dell’intellettuale arabo contemporaneo, figura spesso idealizzata fino al parossismo, sacralizzata, ma raramente sottoposta al vaglio della critica e, soprattutto, a quello ben più severo della Storia.
Fernanda Fischione
[1] Edizione italiana: Siba al-Harez, Gli altri, traduzione dall’arabo di L. Declich e D. Mascitelli, Neri Pozza, Vicenza 2007.