Mathilde Chèvre, Le poussin n’est pas un chien : quarante ans de création arabe en littérature pour la jeunesse, reflets et projet de sociétés (Égypte, Syrie, Liban)

in La rivista di Arablit, a. XIII, n. 25, giugno 2023, pp. 104-110.

Analizzare l’evoluzione della società araba attraverso una lente d’ingrandimento focalizzata sugli albi illustrati per l’infanzia pubblicati tra gli anni Settanta del secolo scorso e gli anni Dieci del nuovo millennio in Egitto, Libano e Siria è uno degli obiettivi che si è posta la scrittrice, illustratrice ed editrice francese Mathilde Chèvre nel saggio Le poussin n’est pas un chien : quarante ans de création arabe en littérature pour la jeunesse, reflets et projet de sociétés (Égypte, Syrie, Liban).

Protagonisti di questo viaggio letterario e storico-sociale sono gli illustratori e gli scrittori di quelle storie (nonché gli editori che le hanno pubblicate), spesso donne, come l’autrice sottolinea nel corso dell’opera. Il legame tra vite e opere di questi illustratori e scrittori costituisce il filo conduttore che accompagna tutto il volume. Tale legame si riverbera sull’intera società e in parte è da essa condizionato, in un percorso per definire il quale Mathilde Chèvre, forse esagerando, forse no, ha riesumato il termine nahḍah. L’analisi che ne viene fuori deve una buona parte della sua efficacia al fatto che l’autrice ha incontrato e intervistato molte di quelle persone, le quali hanno scelto di cimentarsi in una letteratura diversa da quella per adulti, facendola a volte convivere con essa, per narrare delle storie e per immaginare o preparare un mondo nuovo.

Il libro è composto di cinque capitoli, preceduti da un’introduzione originale, poetica, viva, precisa ed esauriente, che quasi costituisce un capitolo a sé stante. In essa Mathilde Chèvre mette in primo piano le tesi principali dell’opera e considera le motivazioni sociali, politiche ed esistenziali che hanno spinto autori e illustratori arabi a produrre le loro opere. L’autrice riflette sul fatto che il libro per bambini è, da un lato, specchio della società e, dall’altro, potenziale creatore sia di un linguaggio che di un’identità, in questo caso araba. Interessante è la parte, molto corposa, nella quale Mathilde Chèvre mette in primo piano il suo metodo di indagine, la ricerca sul campo, l’incontro con gli autori e la scelta delle opere. Tale metodo di indagine ha supplito, con risultati di alto livello, alla mancanza di fonti e archivi bibliografici arabi che si riferiscano alla letteratura per l’infanzia. Partiti negli anni Settanta come modelli di educazione per i più giovani, gli albi illustrati sono divenuti nel corso del tempo un crogiolo di esperimenti finalizzati all’intrattenimento e all’aspetto immaginativo, di cui il bambino è divenuto protagonista attivo. A un’impostazione di tipo classico, entro la quale, però, se non nella scrittura almeno nei disegni, si riconoscevano germogli innovativi, è succeduta nel nuovo millennio una forma più d’avanguardia, tesa a superare le teorie che giudicavano il bambino come creatura eteronoma, incapace di essere potenziale artista egli stesso.

Essenziale è l’impatto avuto dalla naksah, la “ricaduta” successiva alla Guerra dei sei giorni, su molte opere degli anni Settanta. Di esse si parla approfonditamente nel primo capitolo. In questo periodo spicca l’impegno dell’intellettuale arabo nel cercare un modo per cambiare la società del futuro. Scrittori e illustratori perseguono, infatti, la creazione di un nuovo mondo panarabo, a partire dalla formazione del bambino. Mescolando esigenze collettive e individuali parte una sorta di progetto, cui la politica, in particolar modo quella di stampo socialista e ba‘thista, dà un contributo rilevante. Nascono un paio di riviste per l’infanzia e l’adolescenza che espandono e non di poco il processo didattico-educativo intrapreso negli anni Cinquanta e Sessanta tramite libri scolastici e riviste di grande impatto. La Siria è la vera pioniera di questa rivoluzione, seguita da Libano ed Egitto. Tutto sembra partire dal desiderio di programmare l’avvento di una generazione nuova che si rialzi dalla sconfitta del 1967. Una generazione panaraba, la cui formazione dovrà essere in parte sollecitata dalla letteratura per bambini: il lettore o il fruitore di quella letteratura sarà infatti l’adulto del domani. Quegli anni non sono solo un periodo di innovazione, ma anche di critiche a quella innovazione. Seppur positiva, tale innovazione rimane, infatti, per alcuni ancora ideologica e non davvero in linea con quello che avrebbe dovuto essere il vero obiettivo di quel processo: il bambino stesso e la sua tensione immaginativa.

Come accennato sopra, è attraverso alcune interviste rilasciate da autori e illustratori dell’epoca che Mathilde Chèvre ricostruisce questo quadro e le ragioni dietro la scelta di ricorrere a quel tipo di letteratura per rifondare la società araba.

Se tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Novanta nascono, tra Egitto, Siria e Libano, oltre a due riviste per ragazzi, tre case editrici rivolte ai bambini, all’inizio del nuovo millennio il loro numero sale esponenzialmente. A volte esse fioriscono come costole di case editrici già esistenti, ma nella maggior parte dei casi nascono da zero. Tuttavia, il sentimento panarabo non sembra essere più il motore propulsore. Lo scopriamo nel secondo capitolo, nel quale viene dato largo spazio alla relazione tra l’essere genitori, in particolare madri e donne, e la creazione di albi per l’infanzia. L’ideologia lascia spazio alla storia personale, e spesso è il confronto con gli albi occidentali a donare agli autori lo stimolo giusto. Emerge il tentativo, che non sfocia mai nell’imitazione, di recuperare un ritardo, senza però dimenticare la grande tradizione araba. Questa anzi è inserita in un contesto cosmopolita, favorendo la nascita di un linguaggio nuovo e di storie interessanti (a volte realistiche, a volte fantastiche) che spingano il bambino alla lettura.

Le donne non sono solo autrici. Tante intellettuali si pongono, infatti, a capo di case editrici. Il nuovo millennio rappresenta un momento favorevole a livello di finanziamenti: la globalizzazione si espande nel mondo letterario arabo e il denaro emiratino, saudita, qatariota e anche quello di alcune fondazioni occidentali riverbera sui paesi un tempo detentori dell’assoluta leadership nel campo della letteratura, Egitto e Libano in special modo. Questa volta la Siria appare più in ritardo. La globalizzazione non forma però una generazione di letterati desiderosi di far parte di un gruppo, come era invece accaduto negli anni Settanta. Si rivendica il diritto, in Libano per esempio, di mettere in discussione la violenza generata dal patriarcato e dalle lotte religiose e dunque di isolarsi. Nonostante gli aneliti e le motivazioni siano prettamente individuali, un filo conduttore collettivo sembra esistere: l’obiettivo è ora rendere il bambino protagonista, non solo fruitore di insegnamenti. Quei finanziamenti sembrano però trascinarsi dietro alcune ambiguità di fondo. Finiti i progetti, molti dei libri rimangono inutilizzati e i bambini non vi hanno accesso. Le fiere del libro, tra le quali quelle di Sharjah e di Abu Dhabi, hanno quasi soppiantato le fiere più tradizionali, il denaro scorre, innescando un vero e proprio trampolino di lancio per molte pubblicazioni. E tuttavia questo nuovo stato di cose non sembra del tutto positivo.

Nel terzo capitolo l’autrice si addentra più in profondità nell’argomento politico, sottolineando le differenze con cui gli albi degli anni Settanta e dei primi anni del Duemila cercano di affrontarlo. Come detto, nel periodo immediatamente successivo alla naksah, la causa palestinese costituiva il tema maggiormente trattato. Nel nuovo millennio, invece, il nemico arabo non sembra più essere solo esterno, ma anche interno, in vera sintonia con le imminenti rivoluzioni. La rivista siriana “Usāmah” (tra i cui fondatori vi fu Zakariyyā Tāmir) e la casa editrice libanese Dār al-Fatà al-‘Arabī (del direttore artistico Muḥyī al-Dīn al-Labbād, a cui Mathilde Chèvre ha tra l’altro dedicato il saggio), nate fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sono gli esempi più acclarati del trend sviluppatosi in quel periodo: le storie raccontate hanno, non poche volte, come protagonista un bambino che combatte per la causa palestinese. Al contrario, all’inizio del nuovo millennio la Palestina rimane un argomento, ma non è più l’Argomento. Nuovi e vecchi spazi identitari si affiancano e si sostituiscono a quello palestinese. Su tutti spiccano l’Egitto e Beirut, che, soprattutto a seguito della Guerra civile, diviene protagonista di albi che cercano di suscitare nel bambino non solo la paura ma anche la speranza e la nostalgia della ricostruzione.

Gli albi dei primi anni del Duemila non sono soltanto Storia e passato, sono anche futuro, e alcuni di essi sembrano presagire le imminenti rivoluzioni, come accade per esempio in al-Nuqṭah al-sawdā’ (Il punto nero), di Walīd Ṭāhir, il creatore del personaggio Fīzū. Non solo le presagiscono del resto, ma le descrivono anche come in Ġadan (Domani), che parla della guerra in Siria, e in Habbat rīḥ qawiyyah (Ha soffiato un vento forte) di Fāṭimah Šaraf al-Dīn (Sharafeddine), che evoca gli avvenimenti egiziani. Un altro tema è il non senso della guerra, così come il non senso delle divisioni religiose o di classe.

Come detto, non sembra esistere alcun sentimento panarabo a fare da sfondo a tali considerazioni, sebbene molte delle realtà editoriali esistenti siano il frutto di una commistione geografica. Si pensi, tra le altre, alle case editrici libanesi Dār Aṣālah e Dār al-Ḥadā’iq, quest’ultima fondata dalla scrittrice Nabīhah Muḥaydlī e con una storia che data dalla fine degli anni Ottanta, alle sezioni infanzia dell’egiziana Dār al-Šurūq e della libanese Dār al-Ādāb e alla casa editrice emiratina Kalimāt, che si avvalgono di figure cruciali provenienti da tutto il mondo arabo. In ogni caso, non sembra più esistere un bisogno comune di combattere Israele tramite la letteratura per bambini. Nel contempo, sovente i temi che fanno da sfondo alle storie possono essere raggruppati secondo filoni ben riconoscibili. Il tema del lavoro e quello dell’immigrazione sono trattati in vari libri, talvolta insieme. In Qiṣṣatī (Il mio racconto), albo che diviene quasi un pretesto per criticare la maniera antiquata con cui gli adulti pensano debba essere scritto un libro per bambini, il geniale e compianto Samāh Idrīs – autore, tra gli altri, di al-Malǧa’ (Il rifugio), splendido romanzo per ragazzi di estrema attualità, nonché creatore delle avventure dell’eroe Usāmah – menziona brevemente la storia di una domestica cingalese immersa nelle vicende dell’ingiusta società beirutina. In Mantūr Fāṭimah Šaraf al-Dīn parla di diritti del lavoro: un asinello operatore ecologico protesta contro la sua condizione lavorativa dettando nuove regole.

Nel quarto capitolo Chèvre si sofferma su uno dei maggiori cambiamenti avvenuti negli albi dei primi anni del Duemila: il bambino non è più una creatura succube dell’adulto. Egli, grazie anche all’esempio della madre, diviene un essere capace di indipendenza. Parimenti prende piede la questione di genere: la bambina acquisisce un ruolo che nei periodi precedenti non aveva mai avuto. L’eroina Farḥānah, per esempio, gioca a calcio e si veste come vuole. Sempre nel quarto capitolo viene sviscerato l’argomento “alterità”, nell’ambito del quale l’autrice ci fa notare alcune gravi carenze, ossia la quasi completa assenza di storie legate al disagio mentale, ma soprattutto al razzismo nei confronti delle minoranze etniche e religiose. Più affrontato è il tema della disabilità fisica. La questione morale rimane al centro, ma sembra mutare la maniera di comunicarne le regole al bambino. L’albo “classico” reitera la dicotomia Bene-Male: il piccolo lettore deve essere istruito leggendo storie che si spingono sino al drammatico e che a volte sembrano costruite apposta per instillargli il senso di colpa. Lo schema “adulto saggio/bambino ignorante” viene gradualmente a sgretolarsi negli albi dei primi anni del Duemila: anche qui Farḥānah è una pioniera. Capisce, attraverso la propria esperienza, e non solo grazie all’intervento degli adulti, come affrontare il mondo e superare le proprie mancanze e i propri difetti. Certi aspetti etichettati nell’albo classico come solamente cattivi iniziano ad assumere un’ambivalenza più umana che suggerisce il bisogno di tempo da parte del bambino nel suo percorso di crescita. Anche Līnā Mirhaǧ (Merhej) in Lam akun aqṣidu (Non intendevo) insiste sull’importanza dell’esperienza e dell’errore, quando l’errore non porta a conseguenze nefaste. Molti albi illustrati hanno al centro il personaggio della madre, che spesso è colei che unisce la dolcezza all’insegnamento della morale. Una madre che sovente è sola nella cura della prole e della casa. L’albo classico insiste sull’infallibilità dei genitori e sulla chiara e netta gerarchia dei loro ruoli, per cui la donna è sensibile e piccola, mentre l’uomo è grande e forte. Pochi, oltre a Samāḥ Idrīs, hanno il coraggio di stravolgere quella visione stereotipata, evidenziando invece una nuova verità: i genitori hanno i loro difetti, mentono, fanno promesse che non mantengono, e il padre non è poi così grande e forte. Anche il bambino ovviamente diverrà adulto e tale passaggio è ben argomentato in al-Katkūt laysa kalban (Il pulcino non è un cane), opera del cui titolo Mathilde Chèvre si è appropriata per il presente saggio e che gioca sulla contrapposizione pulcino (ovverosia infanzia protetta) / cane (ovverosia inizio di un nuovo percorso esistenziale), e in albi nei quali la figura della madre, ultimo legame che tiene unito il bambino all’infanzia, prima della trasformazione in adolescente, è in primo piano.

Molto importante è la figura dei nonni, non così distante, nella narrazione e nell’illustrazione delle opere arabe, da quella in voga nell’immaginario occidentale: il nonno e soprattutto la nonna sono presenti nella vita dei nipoti, sono dolci e comprensivi, meno inclini dei genitori a far rispettare le regole, depositari della memoria storica, creature originali che per vari motivi sanno tornare bambine.

In Anā wa ǧaddatī (Io e mia nonna) la complicità nonna-nipote tocca le vette di un femminismo davvero audace. I bambini, come detto, iniziano a essere descritti come unità completamente a sé stanti rispetto agli adulti: scoprono gradualmente la propria identità e lo fanno attraverso profonde domande esistenziali, che riguardano concetti importanti come la tristezza e la paura. Ma, mentre gli albi degli anni Settanta sembravano dare risposte nette, le opere dei primi anni del Duemila paiono più caute. Anche la questione di genere, come accennato sopra, prende piede. Le storie di Farḥānah sono infarcite di eventi che sembrano suggerire una nuova via alle giovani lettrici, una via che non segua schemi preconcetti, tradizionalisti e a volte maschilisti e che ispiri le ragazze a non farsene condizionare. La stessa creatrice di Farḥānah, Rāniyah Ḥusayn Amīn, è una delle pioniere del racconto d’amore per bambini, argomento che nei primi anni del Duemila era ancora poco trattato, tanto da assumere a volte il carattere dell’impossibilità.

Nel quinto capitolo l’autrice analizza il ruolo della lingua e delle immagini. Per quanto riguarda il primo tema, si concentra sulle motivazioni che spingono autori e case editrici a puntare sulla lingua letteraria o al contrario, più raramente, sulle varianti dialettali: una questione che sicuramente nel mondo arabo è più presente che in altri universi culturali, dato che anche il bambino si trova a vivere una sorta di schizofrenia e a dover conoscere già in tenera età due lingue, di cui quella straniera è l’arabo letterario. E se gli scrittori degli anni Settanta si preoccupavano di più dell’impatto politico e didattico del loro linguaggio, quelli dei primi anni del Duemila sembrano puntare sul piacere della lettura. Fattore, quest’ultimo, che è un po’ in contraddizione con un imprescindibile dato di fatto: il livello raggiunto dal bambino nella conoscenza dell’arabo letterario non è nella maggior parte dei casi neanche lontanamente paragonabile all’abilità con la quale egli stesso maneggia l’arabo dialettale. Tale realtà si scontra prepotentemente con il desiderio delle case editrici di commercializzare i libri nel maggior numero di paesi possibili. Samāḥ Idrīs pare essere un vero precursore anche in questo processo. Da un’intervista emerge in maniera profonda quanto il registro linguistico sia per lui fattore determinante. Egli sembra suggerire agli autori l’utilizzo di parole, sì prelevate dall’arabo letterario, ma, essendo l’arabo una lingua gravida di sinonimi o di sfumature lessicali, li invita a scegliere fra esse quella più semplice o, se il libro è venduto solo in alcune zone, quella che maggiormente si avvicina al vocabolo del parlato. La questione linguistica non è dunque di poco conto. Tocca oltretutto personalmente la stessa Mathilde Chèvre, che nel 2014 ha fondato una casa editrice (Le port a jauni) che pubblica albi illustrati bilingue, in arabo e in francese.

Per quanto riguarda il tema delle immagini, Chèvre, tuffandosi nella storia e prendendo spunto dai lavori di molti studiosi dell’argomento, tra i quali Annie Berthier e Hans Belting, opera un paragone tra la maniera in cui vengono costruite le illustrazioni in Occidente e la maniera in cui gli arabi illustrano i loro albi. Ne viene fuori una narrazione originale che dall’Egitto e dalla Mesopotamia si sviluppa sino ai nostri giorni passando dalle ambientazioni archetipiche descritte nelle poesie medievali alle calligrafie e alle miniature arabe, dalle teorie fisiche di Ibn al-Hayṯam (Alhazen) alla ritrattistica e alla prospettiva europea, senza dimenticare le ingerenze sovietiche. L’idea che la prospettiva metta al centro l’osservatore e che il punto di fuga esista nello sguardo ma non nel mondo è profonda e significativa. La funzione della geometria (sovente bidimensionale, ispirata a volte alla forma della spirale, a volte ai disegni che accompagnavano il testo di una maqāmah medievale, a volte ai favolosi muqarnas dell’architettura islamica) è determinante negli albi arabi persino nell’esprimere sentimenti ed emozioni che generalmente in un albo occidentale sono i gesti e le espressioni a evidenziare. L’importanza simbolica dell’immagine araba era già stata sottolineata da Chèvre lungo tutto il corso del libro.

L’autrice chiude l’opera tracciando le sue conclusioni, che esaurisce in meno di dieci pagine, riproponendo con intelligenza gli argomenti che sono stati il fulcro dei cinque capitoli, e augurandosi che la sua indagine non si concluda con questo suo lavoro.

Il libro ha molti tratti originali e il filo conduttore che lo pervade è coerente con gli esempi di carattere sociale, politico e letterario che l’autrice dipana lungo tutto il corso della narrazione. Sarebbe utile, secondo il nostro parere, un confronto con altri saggi dedicati alla letteratura per l’infanzia, una comparazione strutturata con opere che analizzino in maniera particolareggiata le pubblicazioni europee e americane. Sarebbe altresì utile avvicinarsi sia agli studi in cui si sottolinea l’aspetto didattico negli albi, sia a quelli nei quali il teorema che vorrebbe che il bambino impari dalla lettura viene capovolto, in base all’idea che sia l’adulto a doversi riappropriare di quella letteratura per scoprire cose che non conosce più. Da non sottovalutare poi i lavori di critica nei quali si sottolinea che per raccontare ai bambini il mondo dei bambini è necessario conoscerlo.

Questo mondo Mathilde Chèvre nella sua opera ha cercato di intuirlo, con genialità, attraverso la frequentazione di un mondo “altro”: quello degli adulti. E se, come afferma l’autrice francese, ogni creazione artistica deriva in parte dal desiderio di lasciare una traccia di sé, tale è anche il desiderio dei creatori di albi per l’infanzia. Partendo da questo presupposto, Chèvre ha interrogato le vite degli autori e degli illustratori al fine di conoscere le motivazioni che li hanno spinti verso quel mondo e da lì è entrata nel cuore dei libri, delle storie, dei personaggi, dei vocaboli, delle illustrazioni. Il suo saggio appare come un tentativo di fare giustizia nei confronti di due visioni che paiono parallele: la visione orientalista e la visione che inquadra la letteratura per l’infanzia in una cella di minore importanza rispetto alla letteratura per adulti.

Se alcune piccole critiche possono essere mosse all’opera, esse hanno a che fare con la presenza di un numero altissimo di note molto interessanti, posizionate, però, alla fine del libro e con la quantità forse esigua di illustrazioni.

Il valore universale del testo è ulteriormente confermato dalla traduzione in lingua araba, pubblicata nel 2021 con il titolo di ‘An aḥwāl kutub al-aṭfāl (Sullo stato dei libri per bambini) dalla casa editrice Ṣanawbar (Snoubar) di Beirut. Hālah Bizrī, che ne è stata la curatrice, in diverse occasioni ha sottolineato come questo lavoro abbia fornito l’opportunità di mettere assieme e archiviare, superando in questo caso l’originale francese, tutte le opere citate nel testo: un archivio visuale raccolto in una sezione centrale che permette di attraversare in immagini la storia della letteratura araba per l’infanzia. Un lavoro originalissimo e per nulla facile, dato che si è reso necessario l’utilizzo di una terminologia che nel mondo arabo pare davvero poco comune.

Fortunatamente anche il pubblico italiano non dovrà attendere a lungo prima di poter leggere quest’interessantissimo saggio, poiché è in corso di pubblicazione la sua traduzione con Astarte Edizioni1. L’opera di Mathilde Chèvre costituirà certamente un valido strumento di studio e consultazione (non solo per gli specialisti del settore) e forse anche un trampolino di lancio per la possibile traduzione di tanti pregevoli albi illustrati arabi in lingua italiana.

Luca Calistri


1Mathilde Chèvre, Il pulcino non è un cane. Quarant’anni di editoria araba per l’infanzia, traduzione di E. Battista e M. Decente, Astarte Edizioni, Pisa 2023.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno XIII, numero 25, giugno 2023

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Luca Calistri |