La passione del derviscio (Šawq al-darwīš): alla ricerca del Sé nell’altro.  Šawq al-darwīš di Ḥammūr Ziyādah, Dār al-‘Ayn li ’l-Našr, al-Qāhirah 2014, pp. 464.

in La rivista di Arablit, a. VI, n. 11, giugno 2016, pp. 89-95.

Ḥammūr Ziyādah (Hammour Ziada) è uno scrittore e giornalista sudanese nato nel 1977 a Khartoum dove, nel 2002, conseguì una laurea in informatica. La sua sensibilità verso la questione dei diritti umani, evidentemente ereditata dal padre Muḥammad Ziyādah, ex Presidente dell’Ordine degli avvocati sudanesi, lo portò a collaborare con alcune associazioni della società civile operanti in un paese sfortunatamente famoso per le discriminazioni contro le donne e per le violenze a sfondo etnico e confessionale. Contemporaneamente, Ḥammūr Ziyādah intraprese la sua attività giornalistica scrivendo per la sezione culturale di alcuni quotidiani e riviste, come “al-Mustaqillah”,  “al-Ǧarīdah” e “Aǧrās al-ḥurriyyah”. Nel 2009 associò il suo impegno civile e umanitario alla sua passione letteraria e pubblicò un breve racconto dal titolo Walā’ lam ta‘ud taḍḥak (Walā’ non ride più), rompendo il silenzio imposto sulla violenza sessuale contro i bambini in una società islamica conservatrice[1]. La reazione degli organi ufficiali e religiosi fu scontata e immediata. A nome di una morale pubblica offesa, Ḥammūr Ziyādah fu sospeso dalla professione giornalistica in seguito a un’azione disciplinare e nel novembre dello stesso anno la sua casa fu data alle fiamme da ignoti. Dopo questa triste vicenda, lo scrittore si trasferì al Cairo, dove pubblicò due raccolte, Sīrat Umm Durmāniyyah (Una storia di Omdurman, 2008) e al-Nawm ‘inda qadamay al-ǧabal (Dormire ai piedi della montagna, 2013), e due romanzi, al-Kunǧ (2010) e Šawq   al-darwīš[2].
Similmente a molti altri paesi arabi e africani, il Sudan vanta una grande tradizione orale. Vi è un intrinseco rispetto per la parola parlata e ciò ha infuso negli scrittori la consapevolezza del profondo legame tra la lingua, la letteratura e la realtà sociale[3]. Questa impronta caratterizzante della narrativa sudanese contemporanea emerge sin dalle prime opere di Ḥammūr Ziyādah. I suoi scritti, che ruotano attorno alla complessa realtà del paese arabo e africano con tutte le sue tradizioni multiculturali e i suoi paradossi, hanno suscitato il grande interesse della critica[4]. Grazie a diversi fattori letterari ed extraletterari, alcuni critici ritengono che nessun altro romanzo sudanese dopo Mawsim al-hiǧrah ilà al-šamāl (La stagione della migrazione a Nord, 1967) del grande scrittore al-Ṭayyib Ṣāliḥ (1929-2009)[5] sia riuscito a richiamare l’attenzione della critica e del pubblico arabo sulla ricchezza e sulla peculiarità della narrativa del Sudan più di quanto abbia fatto Šawq    al-darwīš, ultimo lavoro di Ḥammūr Ziyādah[6]. L’opera, descritta dal noto accademico e critico egiziano Ṣalāḥ Faḍl come «un romanzo del ritorno alle radici, capace di documentare la storia emotiva di popoli e di segnare la nascita della loro letteratura», viene considerata una vera svolta che «delinea nuovi confini per la letteratura sudanese»[7]. Il romanzo è vincitore del rinomato premio letterario egiziano The 2014 Naguib Mahfouz Medal for Literature, organizzato dall’Università Americana del Cairo[8] e si è classificato tra i finalisti del prestigioso Premio internazionale del romanzo arabo, comunemente conosciuto come “Arabic Booker” (IPAF), edizione 2015.
L’opera è ambientata tra il 1882 e il 1898, periodo storico di fondamentale importanza, ricco di radicali cambiamenti politici e socio-culturali e ancora poco esplorato da parte degli autori arabi. Di fronte alla presenza sempre più invasiva della Gran Bretagna nel Sudan, ufficialmente sotto il dominio del governo egiziano dal 1821, le popolazioni locali e gli appartenenti alle confraternite religiose, animati dalla comparsa del Mahdī, l’imām atteso, salvatore degli ultimi giorni, individuato secondo alcune profezie nella figura di Muḥammad Aḥmad al-Mahdī (1844-1885), riescono a conquistare Khartoum in seguito all’uccisione del governatore britannico Gordon Pascià nel 1882. Tuttavia, nel tentativo di instaurare l’ordine divino, ristabilire la giustizia sulla terra e liberare la Dār al-islām dalle ingerenze straniere, le forze del Mahdī distruggono la capitale cosmopolita, seminano il terrore ovunque e dissidenti, stranieri e missionari vengono uccisi o fatti prigionieri. La sconvolgente avventura dei dervisci finisce con la loro sconfitta nel 1898 da parte della spedizione anglo-egiziana che ripristina il controllo dei due paesi sul Sudan.
Nel contesto di queste coordinate temporali e spaziali avviene l’incontro di Baḫīt Mandīl, ex schiavo arruolato nelle truppe del Mahdī, con Teodora, la graziosa suora alessandrina di origine greca, giunta in Sudan in missione e resa schiava dai dervisci. Nonostante le grandi differenze etniche, culturali e sociali, i due sono intimamente legati e accomunati dallo stesso destino. Il derviscio musulmano e la suora cristiana, ciascuno a modo proprio, sognano un mondo libero dalla malvagità, dall’odio e dal fanatismo. Teodora, o Ḥawwā’ (Eva) com’è stata ribattezzata dopo la sua conversione forzata all’Islam, è simbolo dell’amore impossibile, della purezza primordiale inafferrabile, del paradiso perduto, della luce divina alla quale si abbandonano l’anima e il cuore di ogni devoto [p. 75]. Baḫīt, invece, è uno schiavo che paradossalmente assomiglia ai grandi eroi: «Un personaggio che sorprenderebbe i lettori occidentali. La sua storia d’amore è degna di essere raccontata dalla letteratura occidentale. È uno degli amanti delle commedie shakespeariane finito per una svista in questi paesi selvaggi. Se non fosse stato nero! Se non fosse stato un derviscio schiavo!» [p. 423].  La vita di Teodora viene sacrificata nel momento in cui ella decide di riconquistare la propria libertà. Spetterà al suo derviscio innamorato vendicarsi degli assassini in una specie di rituale epico, che percorre tutto il romanzo. Baḫīt, destinatario di commoventi e consolanti apparizioni dell’amata, è convinto di dover instaurare la giustizia e portare a termine la sua missione divina, anche a costo di morire. La morte, inoltre, è l’unica via di pentimento e di purificazione che Baḫīt concede alle sue vittime, paradossalmente appartenenti alla sua stessa fede. La sua libertà sta nel decidere di non sfuggire al proprio destino al fine di ricongiungersi con la sua Eva: «Eva! Ho vissuto molte vite, più di quanto riesca a sopportare. Forse non ho vissuto a lungo ma intensamente, e non ho trovato una vita più bella di quella che tu sei stata per me. Se solo tu mi avessi amato! Ma io non ti rimprovero. Ho imparato in una delle mie vite che l’amore è come il destino, non lo puoi controllare […]. Solo la corda dell’impiccagione mi separa da te, ma non ti rattristare! È un incontro per l’eternità. È un incontro che placa la mia passione» [pp. 459-460].
La trama, raccontata principalmente da Baḫīt, viene arricchita con varie ambientazioni e molteplici storie, a volte frammentarie, di dervisci, preti, coloni, viaggiatori e avventurieri che si incrociano con il destino del protagonista (e di Teodora) e che fluiscono e confluiscono nella sua coscienza. Marīsīlah, amica di Baḫīt, è una figura singolare, accattivante e antitetica a Teodora e rappresenta l’invincibile e arrogante forza femminile musulmana e africana: «quella ventenne nera, venditrice clandestina del vino “Marīsa”, organizzatrice di incontri amorosi, mezzana di rapporti leciti e illeciti, assistente di fuggiaschi e mercantessa di collane, di catene e  di ricette magiche per l’amore, per l’unione e per la separazione […]. È colei che è famosa in città per aver salvato sette donne dall’impiccagione e per aver umiliato il portabandiera di un emiro, davanti agli occhi del Califfo all’ingresso della moschea» [pp. 15-16].
Un altro personaggio importante nel romanzo è al-Ḥasan al-Ǧrīfāwī, fervente sostenitore degli ideali della rivoluzione mahdista. al-Ǧrīfāwī decide di dare la caccia a Baḫīt per vendicare l’omicidio del suo datore di lavoro e capo spirituale, commesso per mano di quest’ultimo. Una volta catturato l’assassino, i due dervisci si scambiano lunghi dialoghi chiarificatori che rivelano la loro frustrazione e l’amarezza del disinganno per il mancato cambiamento, per il sangue versato e per tutte le grandi e illusorie aspettative tradite da una rivoluzione compiuta nel nome di Dio: «In un giorno ancora lontano, chi tra di noi sopravvivrà si chiederà come sia riuscito a salvarsi da tutta questa fede (īmān) e resterà meravigliato di non essere perito sotto le macerie di quella certezza (yaqīn) che si era abbattuta su di noi» [p. 456].
L’autore, con l’aiuto di un narratore onnisciente ed esterno che unisce le varie voci, concede ad altri personaggi, oltre che al protagonista, libertà di azione e spazio nel raccontare esperienze ed esprimere emozioni e posizioni. Egli riesce a penetrare nell’animo dei suoi personaggi e a esprimere i loro sentimenti, pensieri e conflitti interiori, dimostrando una notevole finezza psicologica e capacità introspettiva.
La narrazione è interamente affidata a un registro spiccatamente elaborato e a una prosa assai raffinata e ricercata. In essa si intrecciano, in uno straordinario mosaico narrativo, richiami coranici, evangelici e biblici, versi di poesia mistica e riferimenti leggendari e mitologici, tessendo così una rete di relazioni che uniscono la sorte dei personaggi  del romanzo a quella di tutti gli essere umani di ogni tempo e spazio. Sin dal titolo, il romanzo è immerso in un’atmosfera mistica a volte sovrannaturale. A segnare e a condensare il messaggio dell’autore sull’amore verso “l’altro” e sul grande desiderio di libertà senza distinzione di colore, di razza o di religione, sono riportate, in apertura e chiusura dell’opera, citazioni sull’infinito amore divino del grande mistico Ibn ‘Arabī (1165-1240). La tecnica del flashback usata dallo scrittore avrebbe il ruolo di rievocare e riunire tutti i frammenti di memoria e di coinvolgere il lettore nella ricostruzione del passato, conferendo a esso la stessa forza e immediatezza del presente. La rievocazione del passato pare essere il perno espressivo del romanzo che richiama costantemente l’attenzione del lettore sulla questione dell’identità in un paese dalle molte anime e a lungo lacerato da controversie etniche e culturali.
Nonostante questa determinata ambientazione del romanzo, l’autore ha precisato in diverse interviste che non era sua intenzione offrire una ricostruzione storica degli sconvolgenti avvenimenti di quel periodo: «Mi interessava solo divertire il lettore con un piacevole racconto che rappresentasse l’ambiente sudanese da cui provengo, e stimolarlo a riflettere sui grandi interrogativi presenti dentro di me: la perdita della speranza e della madre patria, la sfiducia nelle persone e negli ideali»[9]. Le ripetute affermazioni dello scrittore sono avvenute in risposta a diverse critiche da parte di ambienti conservatori e nazionalisti nel suo paese per un suo atteggiamento giudicato molto scettico e poco riguardoso nei confronti della rivoluzione mahdista, assai esaltata nella storiografia sudanese come grande movimento islamico e patriottico di liberazione e di riformismo. Tuttavia, da un’attenta lettura del romanzo si può intuire la scelta di quel periodo storico come l’impalcatura ideale per sollevare quesiti attualissimi molto cari all’autore. È un romanzo storico-metaforico in cui l’ambientazione in quel passato rappresenta una maschera di allusione al presente, entrambi dominati da uno scenario angosciante di guerre, dispotismo, falsi patriottismi, fanatismo e bigottismo religioso.
Nel romanzo si percepiscono, inoltre, diversi temi postcoloniali: lo sradicamento, il razzismo, la relazione con l’altro culturalmente diverso e soprattutto l’aspra critica del paternalismo imperialista, nonché del nazionalismo anticolonialista. Tra le pagine serpeggia una sfiducia manifesta nella rivoluzione come mezzo di cambiamento ed essa viene espressa con maggior chiarezza da parte dell’autore in un’intervista: «Tutte le rivoluzioni del mondo si assomigliano. Iniziano di solito con un desiderio puramente umano di cambiamento verso il meglio, ma ben presto ne vengono fuori nuove forme di ingiustizia, oppressione, classismo e opportunismo, assieme ad alcuni futili risultati»[10]. In realtà, l’opera andrebbe letta anche alla luce della profonda frustrazione e dello scetticismo provati da diversi intellettuali e giovani arabi e dovuti al deludente epilogo della cosiddetta “primavera araba”.
A un lettore assiduo della letteratura araba non sfuggirebbe un certo filo che lega Šawq al-darwīš ad altre importanti opere del panorama contemporaneo. Tratti rilevanti, quali il carattere storico metaforico e lo stile epico e aulico, lo accomunano ad al-Zaynī Barakāt (1971) di Ǧamāl al-Ġīṭānī (1945-2015)[11], romanzo ambientato nel XVI secolo col fine di sviscerare liberamente la realtà della dittatura nasseriana. Un’altra opera più recente che condivide con Šawq al-darwīš l’ambientazione storica, l’atmosfera mistica e in un certo senso la tecnica narrativa nel comune intento di affrontare lo scottante tema del fanatismo e dell’assolutismo religiosi è ‘Azazīl (Azazel, 2012)[12], di Yūsuf Zaydān (1958). Infine, così come in Mawsim al-hiǧrah ilà al-šamāl, scritto quasi subito dopo l’indipendenza del Sudan, l’incontro tra il protagonista Muṣṭafà Sa‘īd e l’Europa sta, in realtà, a simboleggiare quello tra Islam e missioni cristiane nonché tra un Sudan indipendente di stampo teocratico e l’Occidente, rappresentato nella Gran Bretagna[13], anche in Šawq al-darwīš sembra valere lo stesso discorso. Tuttavia, mentre Muṣṭafà Sa‘īd uccide la moglie inglese riversando su di lei, secondo alcuni critici, tutta la propria frustrazione e vendicandosi di tutto il potere esercitato in passato dall’uomo bianco su di lui e sul suo popolo[14], nell’opera di Ḥammūr Ziyādah si pone un’enfasi decisamente maggiore e senza pregiudizi sull’altro, sulle sue ragioni e sul suo mondo interno ed esterno, in un sottinteso ma chiaro tentativo di comprensione e riconciliazione in un momento di grande scontro e sconforto.

Nasser Ismail


[1]  Il racconto è reperibile sul blog personale dell’autore: http://hammourziada. blogspot.it/2009/02/blog-post_8109.html (ultima consultazione 30/04/2016).
[2]  Ḥammūr Ziyādah, Sīrat Umm Durmāniyyah, Dār al-Aḥmadī, al-Qāhirah 2008; Id., al-Nawm ‘inda qadamay al-ğabal, Dār Mīrīt li ’l-Našr, al-Qāhirah 2014; Id., al-Kunǧ, Dār Mīrīt li ’l-Našr, al-Qāhirah 2010.
[3]  C.E. Berkley, The Contours of Sudanese Literature Source,  in “Africa Today”, Vol. 28, No. 2, The Sudan: 25 Years of Independence (2nd Qtr., 1981), p. 109.
[4]  Sulla letteratura sudanese contemporanea cfr. Eiman El-Nour, The Development of Contemporary Literature in Sudan, in “Research in African Literatures”, Vol. 28, No. 3, Arabic Writing in Africa (Autumn, 1997), pp. 150-162.
[5]  Tayeb Salih, La stagione della migrazione al Nord, traduzione e introduzione di F. Leggio, Sellerio, Palermo 1992.
[6]  ‘Abd ad-Dā’im al-Salāmī, Karāmat al-sard al-sūdānī, in “al-‘Arabī al-ǧadīd”, 30/03/2015, https://goo.gl/2cXQsR (ultima consultazione 30/04/2016).
[7]  Ṣalāḥ Faḍl, Šawq al-darwīš riwāyat al-ǧuḏūr al-sūdāniyyah, in  “al-Miṣrī al-yawm” (Almasry alyoum), 17/01/2015,  http://goo.gl/amyjVb (ultima consultazione 30/04/2016).
[8]  Cfr. la deliberazione e i commenti della giuria del premio su www.aucpress.com/images/NM2014Citations.pdf (ultima consultazione 30/04/2016).
[9]  Intervista di Ḥammūr Ziyādah rilasciata al quotidiano kuwaitiano “al-Siyāsah” (al-Seyassah) del 12/02/2015: http://goo.gl/P5K8UQ (ultima consultazione 30/04/2016).
[10]  Ibidem.
[11]  Gamal Ghitani, Zayni Barakat, traduzione di L. Orelli, Giunti, Firenze 1997.
[12]  Youssef Zeidan, Azazel, traduzione di L. Declich e D. Mascitelli, Neri Pozza Editore, Vicenza 2010.
[13]  Evelyne Accad, in “Research in African Literatures”, Vol. 18, No. 3, Special Issue on the Concept of National Literature (Autumn, 1987), p. 384.
[14]  Eiman El-Nour, The Development of Contemporary Literature in Sudan, in “Research in African Literatures”, Vol. 28, No. 3, Arabic Writing in Africa (Autumn, 1997), p. 161.

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