Desolazione e speranza di un giovane prigioniero arabo alla mercé del boia. Mu‘aḏḏibatī (La mia aguzzina) di Binsālim Ḥimmīš, Dār al-šurūq, al-Qāhirah 2010, pp. 295.
Mu‘aḏḏibatī, dello scrittore marocchino Binsālim Ḥimmīš (1949), è stato candidato al premio IPAF (Booker Prize) per il romanzo arabo 2011, risultando nella rosa dei cinque finalisti, e ha ricevuto entusiastici consensi da parte della critica. Si tratta di un testo profondo che rivela ancora una volta la cultura e la sensibilità dell’autore.
La storia è raccontata in prima persona dal protagonista, Ḥammūdah al-Wağdī, un giovane della regione del Rif che ritorna al villaggio natale dopo una lontananza di circa sei anni. Benché gli sia stato imposto di non rivelare a nessuno le esperienze vissute in quel lungo periodo, egli è deciso a scrivere un memoriale che spera di poter un giorno pubblicare per far conoscere al mondo la sua verità.
Questo bel romanzo, molto realistico e crudo, ma anche ricco di una intensa verve ironica e, a tratti, di dolcezza, è stato creato da uno dei più raffinati scrittori arabi, apprezzato sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori, e attualmente Ministro della Cultura del Regno del Marocco. Alla sua attività di narratore, poeta, drammaturgo e sceneggiatore per il cinema, Binsālim Ḥimmīš ha sempre alternato il lavoro in ambito accademico. Egli è, infatti, docente universitario e filosofo e, in questa veste, ha studiato in maniera approfondita l’opera del celebre storiografo tunisino Ibn Ḫaldūn (XIV-XV sec.), al quale ha dedicato uno dei suoi romanzi storici più fortunati, al-‘Allāmah (Il grande erudito, 1997), tradotto in vari paesi tra cui l’Italia. Per i suoi lavori, che sono ormai conosciuti in ogni parte del mondo, ha ottenuto diversi e importanti riconoscimenti quali il Premio Sarjah-Unesco (2003), il Premio Nağīb Maḥfūẓ dell’Unione degli scrittori egiziani (2009) e il Gran Premio dell’Académie des Jeux Floraux (Tolosa, 2011).
Sebbene abbia scritto sia in arabo che in francese, Binsālim Ḥimmīš ha dimostrato di essere uno dei più entusiasti e accaniti assertori della necessità, per gli autori suoi connazionali (e in generale per i maghrebini che hanno vissuto l’esperienza della dominazione francese), di privilegiare l’arabo. La questione linguistica, strettamente legata a quella dell’incontro-scontro tra Oriente e Occidente, è centrale in Mu‘aḏḏibatī dove i personaggi, che sono sia arabi che americani, ma anche europei (almeno, questa è l’impressione che il protagonista, e il lettore con lui, ricava riflettendo sull’esperienza che vive) si muovono tra arabo, francese e inglese, idiomi che a volte si intersecano, si sovrappongono, si mescolano, quasi l’autore voglia rappresentare in questo modo la confusione e il tormento in cui perennemente deve districarsi l’uomo maghrebino (e arabo in generale), dilaniato tra l’appartenenza ora all’una ora all’altra cultura. Anzi, pare di essere davanti ad una nuova Torre di Babele che, idealmente, rimanda all’Iraq e a tutto ciò che il paese arabo ha attraversato e sta attraversando nella sua storia più recente. Nel romanzo, infatti, sono stati ravvisati echi di quanto accaduto in una prigione come Abu Ghraib, nei dintorni di Baghdad, carcere in cui si è consumato un dramma le cui immagini nel 2004 hanno fatto il giro del mondo.
Nelle prime pagine dell’opera, Binsālim Ḥimmīš ci presenta il protagonista, Ḥammūdah, che trascorre le sue giornate da solo, visitando moschee in cui si ferma a pregare, finché è avvicinato da uno šayḫ che lo convince a recarsi in un luogo solitario e tranquillo. Una volta lì, Ḥammūdah inizia a scrivere dell’assurda vicenda capitatagli.
Non ricorda in quali precise circostanze, ma nel 2000 si è ritrovato in un istituto di pena nel deserto, in una zona non ben identificata. Nel carcere è stato torturato psicologicamente e fisicamente in ogni modo possibile, ma soprattutto a tormentarlo e a torturarlo è stata una virago temibile e senza alcuno scrupolo, Māmā al-Ġawlah, la sua aguzzina, una donna occidentale di lingua francese che, però, talvolta si esprime in inglese e in arabo. Questo personaggio compare in più capitoli del romanzo, ma è specialmente in tre di essi che Ḥimmīš descrive fin nei minimi dettagli le crudeli violenze alle quali l’orchessa sottopone Ḥammūdah. In questi capitoli, le immagini e il linguaggio utilizzato sono durissimi, di fortissimo impatto emotivo. Bisogna però sottolineare che neanche nei brani più dolorosi e brutali, sia da una prospettiva contenutistica che formale, viene mai meno la bravura di Binsālim Ḥimmīš, il quale sa, peraltro, servirsi di una profonda carica ironica che trasmette ai propri personaggi, specialmente ai subalterni, alle vittime. È, infatti, spesso nell’ironia – che talvolta si trasforma in voluto sarcasmo, in comicità – che i “dannati” della terra riescono a sopravvivere alle più atroci esperienze. Altro punto di forza dei personaggi che subiscono i torti perpetrati dai potenti e dagli oppressori, nei romanzi di Ḥimmīš, è la devozione religiosa, la naturale bontà, l’amore per il prossimo, il rispetto per l’altro e per la vera giustizia, a qualunque costo. In carcere Ḥammūdah lentamente riesce a trovare anche delle persone che in qualche modo lo aiutano. Fra tutti, risalta Na‘īmah. Grazie alle comuni origini marocchine, tra lei e il prigioniero si instaura subito un’affinità, per cui la donna suggerisce al poveretto come dovrà comportarsi per poter avere una speranza di salvezza. Il romanzo si apre proprio sul biglietto che Na‘īmah fa avere a Ḥammūdah, e il cui contenuto verrà riproposto nel tredicesimo capitolo, che rappresenta un punto di svolta nella storia e nell’impianto dell’intera opera:
Caro Ḥammūdah,
se mai ti venisse imposto di metterti al servizio dei signori tiranni e dei loro progetti infernali, di divenire una spia infiltrata, un doppiogiochista, un assassino prezzolato, dovrai escogitare una soluzione che potrà rappresentare la tua salvezza. Se sarai bravo: dovrai fingerti stupido e malato… Stordisci gli inquirenti e chi ti sottoporrà a interrogatorio con discorsi sciocchi e da folle; minaccia i torturatori spaventandoli con i tuoi colpi di tosse e il pericolo di un contagio. Magari, così, rinunceranno a te e ti faranno tornare, narcotizzato, al tuo paese o in un luogo vicino. Dopo esserti risvegliato, verrai controllato con un braccialetto elettronico e sotto il tiro di una pallottola diretta alla testa, che ti colpirà senza fallire, qualora volessi raccontare la tua storia a chi ti è intorno o presentare una denuncia contro ignoti… [p. 9]
Dopo aver ricevuto il biglietto e averlo ingoiato per cancellarne ogni traccia, il protagonista non sarà più un semplice spettatore di quanto gli avviene intorno, bensì un osservatore critico. In realtà, questa è sempre stata una sua caratteristica fin dai primi giorni di detenzione. Egli, infatti, inizia a porsi ancora più domande, assume un atteggiamento più ironico che in passato, ed è perfettamente consapevole della propria forza, morale e spirituale, a dispetto della condizione di inferiorità materiale e dell’evidente debilitazione fisica. Impara a conoscere in profondità le persone, a capirne l’indole, a salvaguardarle; diventa, inoltre, più coraggioso di quanto non sia mai stato nei mesi trascorsi. Il giovane riesce, con la sua ostinazione, a non sottostare alle lusinghe di chi vuol farlo diventare una spia, trasformandosi, anzi, in una sorta di indiscusso eroe per gli altri, quasi una guida spirituale.
L’opera è interessante sotto diversi aspetti. Anzitutto, la lingua adoperata è prevalentemente colta, affascinante e accattivante. La narrazione è lineare, anche se la storia è molto densa di avvenimenti, così come lo è di richiami culturali e letterari, soprattutto al patrimonio arabo-islamico. Frequente, ad esempio, è il ricorso alle citazioni coraniche e poetiche, specialmente dell’epoca classica. Nel contempo, è nella figura di Māmā al-Ġawlah che ritroviamo un importantissimo riferimento culturale all’intera tradizione islamica, e non soltanto araba. al-Ġawlah è infatti una figura notissima nella più antica letteratura, principalmente in quella popolare. È una sorta di orchessa che porta il malcapitato che si è imbattuto in lei alla distruzione e alla morte, benché in alcune fiabe questa donna malefica addirittura venga sconfitta, di solito grazie all’astuzia di una seconda donna. Ciò che, però, è originale, è il suo utilizzo in un romanzo che s’inserisce nel filone della cosiddetta letteratura di prigione (adab al-suğūn), un sotto-genere molto fiorente nel mondo arabo che ha prodotto delle opere considerate dalla critica dei capolavori. Degno di attenzione è il modo in cui lo scrittore dipinge l’aguzzina di Ḥammūdah, un essere malvagio e ambiguo che agisce così soltanto per lavoro, non per motivazioni psicologiche o sentimentali particolari che possano, in qualche maniera, spiegarne il comportamento. L’autore non sembra incline a indagare davvero a fondo la psiche degli oppressori, in questa storia; piuttosto, desidera porre in risalto gli effetti della efferatezza cieca e gratuita sull’animo arabo. Inoltre, non cede alla tentazione di intessere un rapporto di amore-odio tra la carnefice e la sua vittima, cosa che pare adombrata, all’inizio, tanto che il lettore è indotto a presumere di sapere fin dalle prime battute come la vicenda si evolverà. In effetti, il personaggio dell’aguzzina pare voler attirare a sé il giovane per meglio divorarne ogni forza, ma il protagonista non si piega mentalmente o sentimentalmente, sebbene dal punto di vista fisico uscirà distrutto da ogni loro incontro.
Il romanzo Mu‘aḏḏibatī presenta infine un’ulteriore metafora, attraverso la narrazione di una vicenda tristissima: la situazione drammatica in cui si dibatte il popolo arabo e il suo tentativo di riappropriarsi del suo stesso destino. Soltanto mantenendo intatti i tratti tradizionali, che possono sintetizzarsi nel concetto di muruwwah, arricchiti dai precetti islamici più puri, la società arabo-musulmana sarà quindi capace, anche se molto lentamente, di dimostrare ai propri antagonisti di serbare in sé un’autentica forza interiore, atta a spezzare le catene dell’oppressione, qualsiasi ne sia l’origine.
Paola Viviani