Cristina La Rosa. L’Arabo di Sicilia nel contesto maghrebino: nuove prospettive di ricerca, Pubblicazioni dell’Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, Roma 2019, pp. 349.
in La rivista di Arablit, a. X, n. 19, giugno 2020, pp. 95-99.
Pubblicata all’interno della collana diretta da Mirella Cassarino, La Sicilia islamica: testi, ricerche letterarie e linguistiche, dell’Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (IPOCAN) di Roma, questa monografia di Cristina La Rosa, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Catania, analizza l’arabo della Sicilia musulmana con nuovi approcci metodologici procedenti sia dalla dialettologia che dalla sociolinguistica, e sotto una prospettiva ambivalente: sincronica, da un lato, diacronica, dall’altro. Il lavoro presenta, infatti, la descrizione delle caratteristiche linguistiche a livelli di analisi diversi: fonologico, morfologico, sintattico, e lessicale.
Nello specifico, il volume è interamente dedicato a quella varietà nota col nome di medioarabo, ossia la tipologia linguistica scritta che, concepita dallo scrivente secondo la norma standard, di fatto, finisce per presentare forti devianze dalla fuṣḥà dovute alle numerose incursioni dialettali a lungo considerate “errori” del parlato comune. Ma proprio lo studio di questi dialettalismi, permette all’autrice di discernere diversi aspetti linguistici dell’arabo in uso nella Sicilia sotto dominazione araba e normanna.
Si precisa sin da subito che il lavoro realizzato dall’autrice risulta di estrema rilevanza scientifica e colma appieno un vuoto nella storia della variazione linguistica nella Sicilia arabo-islamica e nel Maghreb medievale: lo studio della lingua presa in esame nel volume parte dall’analisi di un corpus importante di testi, prevalentemente manoscritti, finora mai studiati, da queste angolazioni, dal punto di vista linguistico. Di fatto, esigue e datate informazioni si sono possedute sinora in merito alla varietà siculo-araba.
Innanzitutto, all’interno dei Laḥn al-‘awāmm (Solecismo del volgo), ossia compendi sulle sgrammaticature delle scritture di semicolti, nati, appunto, con l’intento di ripulire errori del parlato comune, troviamo il trattato Taṯqīf al-lisān wa talqīḥ al-ǧanān (Correzione della lingua e fecondazione dell’animo) del filologo e poeta Ibn Makkī al-ṣiqillī (m. 1170) detto “Il Mazarese”, che analizza una serie di componenti strettamente dialettali della parlata araba del V secolo dell’Egira in Sicilia, senza però interrogarsi su eventuali interferenze con il sostrato romanzo. Lo scopo principale del trattato, concepito come errata corrige delle sgrammaticature degli arabofoni siciliani, tuttavia, è il suo limite principale: esso finisce per non offrire una piena descrizione grammaticale della varietà in oggetto e non si rivela, di conseguenza, uno strumento utile alla ricostruzione di quella che era la lingua effettivamente parlata.
Nel 1996 fa la sua comparsa la monografia di Dionisius Agius, la prima che offre uno studio sistematico della lingua araba in uso in Sicilia in epoca islamica e normanna in ottica anche comparatistica con il maltese e l’arabo andaluso. L’opera, tuttavia, si concentra strettamente sul Taṯqīf al-lisān wa talqīḥ al-ǧanān di Ibn Makkī al-ṣiqillī, considerata dall’autore del libro unica fonte utile per la conoscenza di questo dialetto. Ventitré anni dopo la monografia di Agius, quindi, Cristina La Rosa propone, sull’argomento, uno studio nuovo e aggiornato, reso possibile dalla solerzia della sua ricerca estesa a un corpus mai affrontato con uno studio così sistematico prima d’ora.
Il punto di forza del lavoro, di fatto, risulta essere la portata delle fonti analizzate: l’aspetto linguistico viene approfondito attraverso l’analisi di scritti in arabo prodotti anche nel periodo successivo rispetto alla sola dominazione araba, iniziata quando gli Aghlabidi (800-909) di Tunisi importarono un dialetto maghrebino di tipo sedentario, ed esplora il corpus risalente alla dominazione normanna alla fine dell’XI secolo, quando i nuovi conquistatori incoraggiarono una certa produzione nella lingua della cultura dominante.
Nello specifico, come l’autrice stessa spiega nell’introduzione [pp. 1-59], i manoscritti letterari e paraletterari di area maghrebina presi in esame, sono molteplici ed eterogenei dal punto di vista contenutistico e cronologico: alcuni risalgono al periodo tra X e XIII secolo, come l’opera anonima presumibilmente coeva alla dominazione arabo-islamica Tārīḫ Ǧazīrat ṣiqilliyyah (Storia dell’Isola di Sicilia) – più comunemente nota come Cronica di Cambridge –, il trattato di geografia Kitāb nuzhat al-muštāq fī iḫtirāq al-āfāq (Libro di diletto per chi è appassionato di peregrinazioni in giro per il Mondo), il trattato di botanica Kitāb al-ǧāmi‘ li-ṣifāt aštāt al-nabāt wa ḍurūb anwā‘ al-mufradāt (Compendio delle proprietà delle diverse piante e vari tipi di semplici) e l’opera che raccoglie descrizioni di itinerari geografici Uns al-muhaǧ wa rawḍ al-furaǧ (La distrazione dei cuori e le praterie della contemplazione). Altri scritti invece si collocano nel periodo successivo tra XVI e XVII secolo, come il codice che raccoglie esperienze di vita di giovani prodigi Anbā’ nuǧabā’ al-abnā’ (Notizie su giovani illustri), l’opera che offre consigli ai regnanti Sulwān al-muṭā‘ fī ‘udwān al-atbā‘ (I conforti politici) e il testo sulla preparazione degli inchiostri Kitāb al-ṣiqillī (Il libro del siciliano). Spicca, infine, tra le opere analizzate dalla studiosa, una serie di testi in giudeo-arabo, riconducibili, cioè, a una dimensione avulsa da quella musulmana, svincolata dalla sacralità del Corano e della sua lingua e, di conseguenza, più aperta alle devianze dalla norma standard.
La ricerca si muove all’interno della dimensione linguistica nella sua interezza: fonologia, morfologia, sintassi e lessico vengono sottoposti a un’accurata analisi, supportata e sostenuta da numerosi esempi desunti dall’arabo andaluso e dal maltese, con cui l’arabo-siculo è strettamente correlato, dal momento che l’arcipelago maltese fu conquistato nell’870 e l’insediamento di una colonia arabofona, risalente all’XI secolo, era di diretta provenienza siciliana. La monografia di Cristina La Rosa, che affronta lo studio di una varietà di derivazione maghrebina strettamente sedentaria, completamente avulsa dai tratti beduini riversatesi nel Maghreb nella seconda ondata di arabizzazione tra X e XI secolo, si rivela, dunque, un valido e aggiornato strumento per comprendere anche le caratteristiche fondamentali delle varietà neoarabe in uso in Nord Africa ai tempi della prima arabizzazione.
Il volume si compone di quattro corposi capitoli, che verranno, ora, analizzati. Il primo di essi [pp. 59-137] è interamente dedicato all’aspetto strettamente fonologico della varietà in oggetto, e traccia le linee fondamentali degli aspetti segmentali e soprasegmentali che rivelano il carattere maghrebino pre-hilalico del siculoarabo. Partendo dal vocalismo, ad esempio, spicca una serie di fattori: innanzitutto la conservazione delle tre vocali brevi del triangolo vocalico, /a : i : u/ – il cui valore fonetico cambia in prossimità di fonemi marcanti – in sillaba chiusa tonica; in secondo luogo, la loro sincope in sillaba aperta atona che comporta riassetti sillabici; e, in ultima analisi, i cambiamenti quantitativi in posizione atona dei fonemi vocalici lunghi.
Per quanto riguarda il consonantismo, di particolare interesse si rivelano i paragrafi riguardanti la realizzazione del fonema uvulare, da un lato, e quella delle interdentali, dall’altro, dal momento che, com’è noto, la realizzazione della qāf e delle interdentali incide su una prima classificazione dei dialetti, come postulato da Cantineau nel suo Cours de phonétique arabe del 1960: quelli sedentari possiedono una pronuncia sorda dell’uvulare e un passaggio delle interdentali a dentali semplici, mentre, nei dialetti beduini, qāf è sonora e le interdentali del classico vengono conservate.
Ora, per quanto riguarda il fonema uvulare, «in Sicilia poteva avere vari esiti» [p. 92], ma sempre sordi, oscillanti, cioè, tra un’occlusiva velare sorda [k] e una laringale sorda [x]. Nonostante vengano riportati esempi di sonorizzazione del fonema, riscontrati in alcuni toponimi, l’autrice precisa che nei casi più numerosi «la /q/ è, invece, sorda e nei prestiti romanzi trascritta con /c/. Alcune volte la /q/ sorda è confusa con la /k/, soprattutto nei registri bassi dell’arabo andaluso» [pp. 92-93]. Lo stesso discorso vale per le interdentali: nelle fonti analizzate dalla ricercatrice, la loro trascrizione oscilla tra dentale e interdentale, mentre /ḍ/ e /ḏ̣/ «sono confluite in un unico fonema /ḏ̣/» [p. 118].
Il secondo capitolo [pp. 139-198] è incentrato sulla morfologia, nominale e verbale. A livello nominale, l’autrice riporta una serie di elementi tipici dei dialetti maghrebini, come la formazione del plurale e del duale, maschile e femminile, con i soli morfemi suffissi /-īn/, /-āt/ e /-ayn ~ īn/, privi quindi di flessione, i nomi di mestiere formati mediante gli schemi /CaCCāC : CaCCāCī : CaCCāCy : CaCīC : CāCiC : CaCāCiCī/, i diminutivi di forma /CuCyyiC/, i numerali, in cui scompare l’opposizione di genere, il pronome relativo invariabile allaḏī, i pronomi personali isolati e suffissi. All’interno di quest’ultima categoria, come avviene in tunisino, spicca il «pronome maschile singolare di terza persona» che «doveva essere pronunciato –u dopo consonante e –h dopo vocale» [p. 163].
Di particolare rilievo, si rivela la parte riguardante la morfologia verbale: anche nel siculoarabo «la coniugazione dell’imperfetto […] è caratterizzata dalla presenza del prefisso n- nella prima persona singolare e nella prima persona plurale e da quella della desinenza –ū della prima persona plurale» [p. 179]. Per quanto riguarda la coniugazione al passato dei verbi di ultima debole, se in arabo maghrebino sedentario, «mantengono il dittongo nella coniugazione del verbo come in mleyt ‘ho riempito’ e mshew ‘sono andati’» [p. 183], crea un certo disagio che «gli esempi arabo-siculi disponibili» non siano «in numero sufficiente da permettere di affermare che lo stesso accadesse in Sicilia» [p. 184]. Al contrario, i numerosi casi di verbi geminati e hamzati hanno permesso di riscontrare che i primi «hanno sviluppato una coniugazione al perfetto con vocale /ī/ davanti a suffissi flessionali consonantici» [p. 185], mentre i secondi «presentano un’alif di prolungamento» [p. 186] se in posizione iniziale, e «coniugati come verbi di media debole» [p. 187] se in posizione mediana. Spicca infine, come avviene anche in arabo tunisino, l’assenza di preverbi verbali, ad eccezione di un enigmatico /bi-/ più tipico dell’Oriente, ma comunque non ignoto al libico, che l’autrice ha rintracciato nei Diplomi e che ha ricondotto alle origini egiziane del copista.
Oggetto di studio del terzo capitolo [pp. 199-238] è l’aspetto sintattico della varietà. Nello specifico, si affrontano questioni legate a determinazione e indeterminazione, quest’ultima realizzata mediante l’uso «dell’articolo indeterminativo invariabile wāḥd-əl/waḥd əl-, tipico dei dialetti non hilāliani e maghrebini» [p. 199]. Lo stato costrutto risulta ancora produttivo, nonostante, come in tutti i dialetti, esistano particelle genitivali formate a partire da /mtā‘/ “proprietà di”.
Nel quarto capitolo [pp. 239-297], la ricercatrice tenta di stilare un corpus lessicale esaustivo dell’arabo di Sicilia, ma come lei stessa ammette: «costruire, o ricostruire, un lessico dell’arabo di Sicilia, è un’impresa ardua» [pp. 239-297], stanti le fonti arabo-sicule troppo lacunose. I lemmi vengono suddivisi seguendo due logiche principali. La prima è di natura diatopica: due paragrafi, uno inerente ai sostantivi, l’altro ai verbi, raccolgono il lessico di diretta provenienza maghrebina. Il secondo procedimento vede una suddivisione del materiale lessicale per campi semantici diversi: si va, così, dai nomi dei mesi alla botanica, alla farmacopea, ai procedimenti di preparazione degli inchiostri, alle unità di misura, alle scienze dei materiali, all’ittionimia, alla geografia, alle imbarcazioni.
In conclusione, la monografia di Cristina La Rosa si rivela uno strumento aggiornato, completo ed esaustivo per la conoscenza di questa varietà neoaraba “periferica”. L’utilità dello studio realizzato dall’autrice, che si è concentrata su un dialetto di provenienza nordafricana, strettamente sedentaria in quanto immune da influenze beduine, non si rivela di grande utilità solo sul breve periodo, ma getta le basi per ricerche future su quello che doveva essere l’arabo importato in Nord Africa ai tempi della prima arabizzazione.
Maura Tarquini