C. Ceyhun Arslan, The Ottoman Canon and the Construction of Arabic and Turkish Literatures, Edinburgh University Press, Edinburgh 2024, pp. 231.
in La rivista di Arablit, a. XIV, n. 27, giugno 2024, pp. 157-163.
Come studiosi di letteratura araba della nahḍah, è spesso venuto naturale porsi una domanda: perché è così raro che gli studi sulla letteratura araba di questo periodo (diciamo per comodità Ottocento-inizio Novecento) tengano presente il fatto che essa si sia sviluppata all’interno di un contesto culturale ottomano? In altre parole, perché la letteratura araba moderna viene solo raramente giustapposta a quella ottomana? E, di contro, letteratura araba e letteratura ottomana sono effettivamente due sistemi così distinti fino all’inizio del Novecento? E quando hanno cominciato a essere considerati tali?
È evidente che per rendere conto di un fenomeno transnazionale (o pre-nazionale) e plurilinguistico come la letteratura ottomana sono necessarie competenze linguistiche, oltre che di comparatistica, che molto raramente si riuniscono in un solo studioso. Chi ha percepito la necessità di dover affrontare la questione ha optato per soluzioni alternative. Ad esempio, in Migrating Texts. Circulating Translations Around the Ottoman Mediterranean (edited by Marilyn Booth, Edinburgh University Press, Edinburgh 2019), una parte della complessità del sistema culturale e letterario ottomano è stata restituita attraverso i contributi di studiosi provenienti da diversi campi linguistici e letterari in qualche modo correlati al mondo ottomano. In un altro caso, l’antologia Literary Visions of the Middle East. An anthology of canonical masterpieces of Arabic, Persian, Turkish and Hebrew fiction (mid-19th to early 21st centuries) (edited by Stephan Guth, Harrassowitz, Wiesbaden 2019), il curatore ha scelto di aggirare il problema della competenza multilingue riportando brani già tradotti in inglese dalle varie letterature, con tutti i limiti che questa scelta può comportare.
The Ottoman Canon and the Construction of Arabic and Turkish Literatures si distingue nel panorama degli studi esistenti proprio perché, grazie alle competenze linguistiche e comparatistiche del suo autore, C. Ceyhun Arslan (Koç University), riesce a integrare le nascenti letterature nazionali araba e turca all’interno di una più ampia letteratura ottomana. Lungi dal voler fornire una storia esaustiva di questo processo di evoluzione, il volume propone, attraverso un’analisi storico-testuale, degli esempi letterari testimoni dei graduali segni di cambiamento che portarono le letterature araba e turca a divincolarsi da quel crogiolo ottomano in cui per lungo tempo avevano nuotato e a definirsi nelle rispettive specificità attraverso un confronto continuo.
Il volume si apre con una corposa introduzione che espone i principi cardine su cui si basa lo studio. In particolare, The Ottoman Canon vuole mettere in discussione il paradigma dell’influenza che ha guidato la gran parte degli studi esistenti e che vede la letteratura ottomana come frutto dell’influenza araba e persiana, prima, ed europea, poi. Inoltre, lo studio vuole mettere in discussione la sovrapposizione tra letteratura ottomana e turca, come anche l’esistenza di tre linee monolingue (araba, persiana e turca) distinte e parallele. A questa visione viene opposta invece l’immagine dell’“Ottoman reservoir”, ossia un canone ottomano che includeva un insieme di testi appartenenti a diversi periodi e culture. Soprattutto, viene posto l’accento sul concetto di afterlife, ovverosia della nuova vita e della nuova ricezione che molti testi arabi pre-ottomani ebbero nel contesto ottomano. A discapito di una visione complessiva che renda conto delle tante letterature nazionali presenti all’interno del contesto ottomano, lo studio sceglie di concentrarsi su intellettuali “canonizzati” del periodo tardo-ottomano che sono stati studiati come pionieri e hanno generato una concezione esclusivista della letteratura e dell’identità ottomana [p. 10]. La metodologia utilizzata consiste in un close reading dei testi contestualizzati storicamente. Questo tipo di approccio, che unisce analisi storica e testuale, risulta molto utile per individuare i legami tra testi del canone provenienti da luoghi e tempi differenti, evidenziando quindi le connessioni transnazionali, transtoriche e interlinguistiche proprie del canone ottomano.
Il volume si compone di sei capitoli. I primi due esaminano il riassestamento delle relazioni tra le tradizioni linguistiche costituenti di quello che l’autore chiama “Ottoman reservoir”. Il terzo, quarto e quinto capitolo dimostrano come la crescente mobilità di testi e persone sul finire dell’epoca ottomana portò a nuove interpretazioni della cultura e della identità ottomana. Infine, il sesto capitolo osserva come l’“Ottoman reservoir” sopravviva in qualche forma anche dopo la caduta dell’Impero.
Venendo ai dettagli di ciascun capitolo, il primo è incentrato sull’antologia di poesia araba, persiana e turca Harabat (Taverna, 1874/75-75/76), compilata dallo scrittore e amministratore ottomano Ziya Pasha (1829-1880). Essa viene scelta in quanto esempio di un canone multilingue, rappresentato dalla metafora dell’oceano in cui confluiscono, si mescolano e si risignificano le diverse sorgenti linguistiche. Lungi dall’essere uno degli ultimi esempi di una tradizione antologista passata, questo testo dimostra quanto esso sia invece “moderno”. L’autore mette infatti in evidenza non solo il condizionamento da parte degli studi orientalistici europei in merito alle scelte antologiche (un caso è, ad esempio, la diffusa citazione di poesia andalusa, contrariamente alle antologie precedenti), ma anche lo spostamento epistemologico in atto: se il termine “oceano” viene generalmente adoperato per descrivere la lingua ottomana, talvolta lo stesso termine è usato in riferimento alle sole opere arabe, anticipando il concetto di subalternità alla letteratura araba che si troverà nelle trattazioni successive.
Nel processo di riassestamento delle diverse identità linguistiche all’interno del calderone culturale ottomano, il secondo capitolo si focalizza, nella sua prima parte, su due articoli di Ǧurǧī Zaydān (1861-1914) rispettivamente su Namık Kemal (1840-1888) e sulla letteratura turca, pubblicati su “al-Hilāl”, messi a confronto con la sua monumentale Tārīḫ ādāb al-luġah al-ʿarabiyyah (Storia delle lettere in lingua araba, 1894-1895). Dal confronto emerge come le storie tardo-ottomane della letteratura, come quelle di Zaydān, abbiano dipinto le storie della letteratura araba e turca come due traiettorie parallele che non si sono mai incontrate, favorendo in tal modo la concettualizzazione di un patrimonio arabo “classico” da cui si sarebbe generata la letteratura araba moderna. La seconda parte del capitolo insiste proprio sull’elaborazione del concetto di classico nelle storie della letteratura prodotte da Zaydān, Rūḥī al-Ḫālidī (1864-1913) e İsmail Hakkı [Eldem] (1871-1944). Forgiato sull’esempio della critica europea, questo concetto di classico porta a marcare l’antecedenza del patrimonio arabo pre-ottomano rispetto agli scritti turco-ottomani e, pertanto, ne fa un punto di riferimento letterario, tanto quanto il patrimonio greco e latino lo era per le letterature europee moderne.
Il terzo capitolo sposta l’attenzione sul fatto che tali cambiamenti vadano connessi alle trasformazioni socio-economiche in corso durante il periodo tardo-ottomano. In particolare, l’autore osserva come gli scritti dell’epoca camuffino sotto forme più digeribili gli aspetti disorientanti generati dalla modernità e dal capitalismo globale. Le due marche rappresentative di questo “travestimento” sono individuate nel copricapo ṭarbūš e nel genere romanzo e i due testi considerati sono Hasan Mellah (1874/75) di Ahmet Midhat (1844-1912) e Ḥadīṯ ʿĪsà ibn Hišām (Il discorso di ʿĪsà ibn Hišām 1898-1902) di Muḥammad al-Muwayliḥī (1858-1930). Come i personaggi di tanti racconti arabi e turchi, anche i personaggi di queste opere si travestono e attraverso il travestimento rafforzano l’impressione che i cambiamenti siano solo apparenti, degli abiti che possono essere indossati e dismessi senza con questo intaccare la propria essenza. Allo stesso modo, la categoria “romanzo”, a cui questi testi vengono spesso ricondotti e che la modernità sta portando alla ribalta, non viene intesa come segno della dissoluzione di un ordine culturale e politico da cui era caratterizzato il contesto ottomano. Nell’ottica di questi autori, la forma romanzo ha un carattere trans-storico [p. 101], per cui, come i personaggi dei due testi camuffano la propria identità, allo stesso modo gli autori suggeriscono che anche i loro testi possono indossare forme letterarie diverse come il romanzo o la maqāmah, cosicché i lettori possano avere una comprensione migliore delle loro storie [pp. 103-104] e, nello stesso tempo, abituarsi gradualmente a recepire i cambiamenti sociali ed economici in atto [p. 109]. Lo studio del testo turco e di quello arabo condotto in questo capitolo dimostra, quindi, l’utilità di un approccio comparato che individui strategie di camuffamento simili nelle due letterature, poiché frutto di un contesto socio-economico condiviso. In termini di evoluzione dell’“Ottoman reservoir”, si nota come il canone si stia modificando, includendo testi ben camuffati in modo da poter diventare prodotti di consumo della nuova industria editoriale.
Quanto sia importante e produttivo osservare le relazioni arabo-turche per ricostruire il percorso di formazione delle rispettive letterature nazionali lo dimostra anche l’ambito delle traduzioni, oggetto del quarto capitolo. Come fa notare l’autore, gran parte degli studi esistenti ha visto nelle traduzioni dalle lingue europee il marcatore per eccellenza della modernità letteraria, trascurando invece il movimento di traduzioni tra arabo e turco. Tale movimento, infatti, fu responsabile della genesi di un comune repertorio di temi e concetti negli scritti arabi e turchi e fu testimone delle dinamiche di potere culturale che via via si andavano affermando all’interno dell’Impero. Il caso studio scelto è Maʿrūf al-Ruṣāfī (1875-1945), poeta ed esponente di spicco della provincia irachena, del quale si esaminano Dafʿ al-huǧnah fī irtiḍāḫ al-luknah (Allontanare l’errore dalla pronuncia scorretta, 1912/1913), in cui viene riportata una lista di prestiti dal turco divenuti popolari tra i parlanti arabofoni; al-Ruʾyā fī baḥṯ al-ḥurriyyah (Il sogno alla ricerca della libertà, 1909), traduzione araba di Rüya (Sogno, 1908) di Namık Kemal, da cui si evincono le scelte linguistiche del traduttore al-Ruṣāfī; la poesia Nuwāḥ Diǧlah (Il lamento del Tigri), messa a confronto con Firak-ı Irak (La separazione dall’Iraq), raccolta del poeta turco Süleyman Nazif (1869-1927), entrambe relative alla sconfitta ottomana in Iraq durante la Prima guerra mondiale. Dall’analisi di queste opere emerge che, pur essendoci la condivisione di alcune immagini, temi e idee tra lingua e letteratura araba e turca, nei fatti i confini tra le due diventano sempre più definiti. La letteratura araba (come quella persiana) non sono più degli affluenti all’interno dell’oceano ottomano, ma delle fonti di influenza distinte.
Questo progressivo ma inesorabile allontanamento delle traiettorie letterarie araba e turca si ritrova anche in autori tardo-ottomani che apparentemente continuano a confermare la coincidenza di lingua e letteratura ottomana e araba. Il capitolo quinto esamina, quindi, il modo in cui le trasformazioni in atto si riflettano non solo sugli autori cosiddetti “moderni”, ma anche nei presunti difensori della “vecchia letteratura”, i cui scritti nei fatti testimoniano l’adozione delle categorie “moderne”, nonostante l’avversione nei confronti dell’occidentalizzazione. La prima sezione del capitolo è dedicata a Hacı İbrahim (1826-88), considerato un esponente dell’ala conservatrice critica delle Tanzimat, assertore del fatto che la poesia araba fosse parte della dieta naturale del suddito ottomano, allineandosi in questo con la concezione di un oceano ottomano multilingue, come quello immaginato da Ziya Pasha. Eppure, la visione di Hacı İbrahim espressa in alcuni articoli sulla lingua e letteratura araba presentava, suo malgrado, aspetti “moderni”, che risentivano dell’assimilazione di concetti e contenuti della critica europea e orientalistica, come ad esempio l’effettiva distinzione tra arabo e turco, l’equivalenza del rapporto tra arabo e ottomano con quello tra greco/latino e francese, la celebrazione dell’arabo e quindi l’affermazione della sua superiorità rispetto all’ottomano. Una simile visione viene identificata anche negli altri due esempi contenuti nel capitolo: alcuni numeri del giornale “Malumat”, dove vengono giustapposte foto della Siria tardo-ottomana e poesie arabe pre-ottomane con la spiegazione turca a fronte, testimoni della nuova significazione che tali poesie acquisiscono nel nuovo contesto e dell’avvenuta distinzione tra arabo e turco, adesso passibili di traduzione reciproca; e Arapların Terakkiyat-ı Medeniyyesi (Lo sviluppo della civiltà degli arabi, 1886/87) del “modernista” Ahmet Rasim (1864-1932), traduzione parziale de La civilisation des Arabes (1884) di Gustave Le Bon (1841-1931), in cui il traduttore si appropria selettivamente delle parole dell’orientalista francese e soprattutto assimila il concetto di letteratura come possesso di ogni comunità. Gli esempi riportati nel capitolo dimostrano quanto, a ben vedere, sia i sostenitori della “vecchia letteratura” che quelli della “nuova” costruiscano le loro visioni vis-à-vis con il discorso orientalista, che svolge un ruolo fondamentale nel contesto della modernità capitalista globale. Così, sul finire dell’epoca ottomana si consolida la concezione di una letteratura araba “classica” di cui sono figli gli autori ottomani e, d’altro canto, si consolidano i confini tra le letterature “moderne” araba e turca, che all’alba della nascita degli stati nazionali seguono ormai traiettorie parallele.
Tuttavia, il passato ottomano può “perseguitare” ancora gli scritti successivi alla caduta dell’Impero. Il sesto e ultimo capitolo offre, in questo senso, una suggestiva e originale analisi comparata di ʿAwdat al-rūḥ (Il ritorno dello spirito, 1933) di Tawfīq al-Ḥakīm (1898-1987) e Saatleri Ayarlama Enstitüsü (L’istituto di regolazione del tempo, 1954) di Ahmet Hamdi Tanpınar (1901-62). Facendo leva sull’interesse di entrambi gli autori per l’Edipo re di Sofocle, l’autore mette in luce una sorta di complesso di Edipo di turchi e arabi nei confronti del passato ottomano. In entrambi i romanzi troviamo, infatti, composizioni familiari eterogenee, eredi di quel passato appunto. Nonostante i tentativi dei protagonisti di emanciparsi dalle figure “genitoriali” opprimenti, essi realizzano che le società post-ottomane in cui vivono continuano a riproporre le stesse dinamiche del periodo imperiale. Come il passato di Edipo, le emblematiche figure della madre turca di Muḥsin, protagonista in al-Ḥakīm, e del tunisino Abdüsselam Efendi, una sorta di figura paterna per Hayri İrdal, protagonista in Tanpınar, rappresentano «a dark territory that can shatter one’s plans and visions of self-identity» [p. 171].
I sei capitoli che compongono il libro offrono un percorso attraverso varie tipologie di testi e autori che fotografano alcuni aspetti e momenti significativi dello sviluppo della letteratura canonica del periodo tardo e post-ottomano. Da una concezione di questa letteratura quale oceano in cui confluiscono e si mescolano arabo, persiano e turco si passa alla progressiva separazione delle tre letterature (e in particolare quella araba e turca che, come si è visto, costituiscono il focus principale dell’autore), che vengono sempre più viste come traiettorie letterarie parallele, laddove la letteratura araba pre-ottomana acquisisce i tratti di “classico”, fonte di influenza per la letteratura ottomana. Quest’ultima, d’altra parte, comincia a essere identificata in modo più restrittivo con la letteratura turca, anticipando la netta separazione con la letteratura araba successivamente alla caduta dell’Impero e alla nascita degli stati nazionali. In questo percorso, l’autore dà conto delle scelte effettuate dagli intellettuali dell’epoca, prima per la costruzione del canone ottomano, poi per consolidare la differente identità delle letterature in esso confluite. Nello stesso tempo, questo percorso rivela le tappe di elaborazione del concetto stesso di letteratura, costruito non solo attraverso il confronto con la produzione letteraria e l’orientalismo europei, ma anche – e qui risiede uno dei meriti di questo libro – attraverso il confronto tra letteratura turco-ottomana e araba, della modernità e dell’epoca pre-ottomana.
In conclusione, The Ottoman Canon di C. Ceyhun Arslan è un importante contributo che si inserisce all’interno del panorama di studi sulla letteratura araba, turca e ottomana proponendo una prospettiva originale, capace di mettere in discussione concezioni date e generare nuove riflessioni. Esso stimola a superare una serie di categorie e approcci che spesso limitano la comprensione di alcuni fenomeni letterari, come l’uso di studiare il turāṯ arabo solo all’interno della letteratura araba, la separazione netta tra classico e moderno, e quella tra letterature araba, persiana e turca. Il libro spinge invece a osservare «the refashionings of classical heritage» [p. 199], le riattualizzazioni e risignificazioni di quel patrimonio in tempi e luoghi diversi. Gli esempi proposti testimoniano questo fenomeno e rappresentano un punto di partenza importante per esplorare una produzione, quella tardo-ottomana (specialmente araba), che ancora rimane poco studiata, ma che promette di fornire una nuova prospettiva non solo sugli studi letterari dell’area, ma anche sulla stessa storia della letteratura.