Bassem Khandaqji, Una maschera color del cielo, traduzione di B. Teresi, edizioni e/o, Roma 2024, pp. 240.

in La rivista di Arablit, a. XIV, n. 28, dicembre 2024, pp. 142-147.

Una maschera color del cielo di Bassem Khandaqji (Bāsim Ḫandaqǧī, Qināʿ bi-lawn al-samāʾ, Dār al-Ādāb, Bayrūt 2023), pubblicato in Italia dalle edizioni e/o nel 2024 nella traduzione di Barbara Teresi, è il vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction (IPAF) del 2024.

Bassem Khandaqji, autore palestinese nato nel 1983, è in carcere da vent’anni con l’accusa di aver preso parte alla pianificazione dell’attentato del 2 novembre 2004 a Tel Aviv, successivamente rivendicato dal FPLP. Nel carcere israeliano di Gilboa, famoso nelle cronache per l’evasione di sei prigionieri palestinesi nel 2021 e definito dall’autore “coloniale”, Bassem Khandaqji ha terminato i suoi studi universitari e ha scritto quattro romanzi, due raccolte di poesia e circa duecento articoli.

Le sue raccolte poetiche, Ṭuqūs al-marrah al-ūlà (Rituali della prima volta, 2009) e Anfās qaṣīdah layliyyah (Sospiri di una poesia notturna, 2013), dimostrano come la poetica dell’autore palestinese sia innovativa all’interno del panorama della letteratura dal carcere, che solitamente si limita a denunciare le condizioni dei prigionieri. Come affermato nella prefazione del libro Anfās qaṣīdah layliyyah, scritta dal giornalista libanese Zāhī Wahbī, la poesia di Khandaqji non si trasforma in un discorso politico diretto, ma resta legata ad una poesia libera, questo proprio perché «si può imprigionare un corpo, ma non la sua anima»1, che invece sembra svolazzare felice fuori dalla prigionia, senza dare ad una occupazione meschina la possibilità di zittire le voci e la fantasia di coloro che ne sono vittime, tanto da poter affermare che nella figura di Bassem Khandaqji il poeta ha sconfitto il prigioniero. Quest’ultima raccolta di poesie si apre, inoltre, con una citazione del poeta palestinese Maḥmūd Darwīš (Mahmoud Darwish), anche lui imprigionato più volte dalle forze di occupazione israeliana, al quale l’autore di Una maschera color del cielo afferma di dovere molto in quanto ad ispirazione.

Questi elementi della sua poetica vengono ripresentati anche all’interno dei suoi romanzi, Misk al-Kifāyah: sirat sayyidat al-ẓilāl al-ḥurrah (Misk al-Kifayah: biografia della signora delle ombre libere, 2014), Narǧis al-ʿuzlah (Il narciso della solitudine, 2017), Ḫusūf Badr al-Dīn (L’eclissi di Badr al-Din, 2019) e Anfās imraʾah maḫḏūlah (Sospiri di una donna tradita, 2020), in cui l’autore intreccia elementi storici e narrazione fantastica, offrendo spesso un’allegoria della questione palestinese. Questo aspetto si ritrova nell’ultimo romanzo di Khandaqji, Qināʿ bi-lawn al-samāʾ.

Il prestigioso premio assegnato a quest’opera ha un valore simbolico e, in un certo senso, sembra dare valore anche al difficile iter di scrittura e pubblicazione del romanzo. Come racconta la traduttrice Barbara Teresi, Bassem Khandaqji è stato posto in isolamento quando si è diffusa la notizia che avrebbe potuto vincere il premio letterario. Il riconoscimento è stato ritirato dal fratello Youssef e dall’editrice libanese Rana Idris. Khandaqji aveva iniziato a scrivere il romanzo tra maggio e novembre del 2021, adottando stratagemmi per aggirare la censura: nascondeva le parole tra le righe, scriveva con tratti leggeri e utilizzava una grafia minuscola per evitare che i testi venissero scoperti.

Youssef Khandaqji, che si definisce l’agente letterario del fratello, ha raccontato ad “Al Jazeera” le numerose difficoltà affrontate per completare il romanzo2. Tra queste, la più rilevante è stata far arrivare in carcere i libri necessari a Bassem, che ha impiegato sei mesi per scrivere il testo in condizioni estremamente dure. La stesura ha richiesto accordi speciali per permettergli di trascrivere e ricopiare il romanzo, oltre che per farlo uscire clandestinamente dal carcere, con il costante rischio di un sequestro. Una maschera color del cielo, in questo senso, non è solo un romanzo, ma un vero e proprio atto di resistenza.

Il testo è ambientato in un arco temporale ben preciso, dal 19 aprile all’11 maggio 2021, circa un anno dopo lo scoppio della pandemia e precisamente nel periodo in cui sono avvenuti gli scontri nel quartiere di Gerusalemme di Sheikh Jarrah a seguito dello sfratto perpetrato ai danni di famiglie arabe gerosolomitane dalle autorità israeliane.

Il protagonista del romanzo, Nur Mahdi al-Shahdi3, laureato presso l’Istituto superiore di Archeologia Islamica ed ex guida turistica, è nato e cresciuto nei vicoli stretti del campo profughi di Ramallah «e di tutti i campi profughi» [p. 15]. Durante il corso del romanzo, egli registra delle note vocali per appuntare le idee sul romanzo che desidera scrivere sulla figura di Maria Maddalena. Affascinato dal personaggio biblico della donna, è intenzionato a scriverne una sorta di biografia romanzata, basata sui vangeli apocrifi, per riscattare la donna non solo dalla profana narrazione del romanzo di Dan Brown, in cui la Maddalena si lega carnalmente a Gesù diventandone la sposa, ma soprattutto per riportarla nel suo contesto storico-geografico originale. Ogni registrazione vocale si conclude con una sorta di lettera indirizzata al suo amico Murad, condannato all’ergastolo, da dieci anni detenuto nelle carceri israeliane, in cui Nur, in un dialogo privato, gli parla più sinceramente di quanto possa fare attraverso le lettere di contrabbando che si scambiano pericolosamente attraverso dei libri.

Al personaggio di Murad l’autore affida le sue posizioni sul carcere: l’isolamento, infatti, diventa per Murad – come per l’autore stesso – un’opportunità per intraprendere un «percorso di conoscenza e cultura» [p. 20]. Egli sfrutta il tempo leggendo numerosi libri, perlopiù relativi alla questione palestinese e all’occupazione israeliana, rafforzando le sue posizioni antisioniste. È proprio Murad a citare Mahmoud Darwish; l’affermazione «La prigione è densità, Nur, amico mio» [p. 22] richiama infatti le parole del poeta dell’esilio, quando scrive: «La prigione è densità. Nessuno ci ha passato la notte senza ammaestrare la gola a qualcosa di simile al canto»4, riferendosi appunto a come i giorni di prigionia, nella loro densità spazio-temporale, possano essere trasformati in espressione e resistenza. È proprio di fronte a Murad che Nur si vergogna maggiormente per le azioni che intraprenderà nel corso del romanzo.

I tratti somatici somiglianti a quelli di un ebreo ashkenazita di Nur al-Shahdi e la sua padronanza dell’ebraico gli procurano evidenti vantaggi, che il protagonista sfrutta a suo piacimento. Quando Nur troverà all’interno di un cappotto comprato al mercato dell’usato di Jaffa una carta di identità israeliana, gli si offrirà l’opportunità di rendere ancora più concreti questi vantaggi. Egli, infatti, sostituisce la foto della carta d’identità con la sua e comincia a simulare la personalità di Ur Shapira. A incoraggiarlo inoltre è la coincidenza che il nome presente sulla carta d’identità, Ur, in ebraico, ha lo stesso significato di Nur in arabo, cioè “luce”.

Grazie a questo nuovo passaporto per il mondo dell’Altro egli riuscirà a partecipare a seminari e conferenze tenuti a Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv dai più importanti ricercatori e specialisti di archeologia di vari Paesi. Non solo, Nur sembra vedere in questa finzione l’occasione di liberarsi da una delle sue caratteristiche più radicate, il silenzio. Un silenzio ereditato dal padre e dalla morte della madre, e che sembra avvolgere l’intero popolo palestinese, un popolo nato, come dice lui stesso, «da un grembo invisibile, conosciuto solo da chi subisce la Nakba fin dal primo vagito, un grembo che genera orfani delle proprie radici, afflitti, feriti, silenziosi, zittiti, smarriti, esuli» [p. 15].

Sul web, Nur scorge un avviso pubblicato dall’Albright Institute for Archaeological Research che annuncia l’inizio della seconda stagione di scavi per riportare alla luce l’accampamento della VI Legione romana nei pressi del sito archeologico di Megiddo, proprio il luogo in cui Nur desidera ambientare gran parte del suo romanzo. Mosso dal desiderio di trovare in quei luoghi dettagli più convincenti per la sua storia, egli decide, dunque, di partecipare indossando in tutto e per tutto i panni dell’ebreo ashkenazita, rischiando per l’ultima volta.

All’interno del personaggio di Nur si consuma un dialogo interiore lacerante tra l’israeliano e il palestinese: Ur, infatti, rinfaccia costantemente a Nur di avergli rubato l’identità. Nur, a sua volta, gli ricorda che sono stati i sionisti come lui a sottrarre ai palestinesi la loro identità, relegandoli ai margini non solo di uno spazio, ma anche di un tempo in cui esistere. È per questo motivo che indossare l’identità di Ur si presenta come una sorta di riscatto, un modo per ribaltare le dinamiche che hanno segnato il suo popolo dopo la nakbah.

Questo colloquio interiore si riflette concretamente nell’incontro di due figure femminili che Nur/Ur conosce all’interno del gruppo di archeologi: Aliyah, ebrea sionista convinta che Israele sia terra destinata al popolo ebraico, e Samaʾ, araba palestinese con cittadinanza israeliana che invece entra a far parte del gruppo di ricerca senza maschera, fieramente convinta delle sue posizioni politiche antisioniste simboleggiate da un tatuaggio che porta sul polso con scritto in arabo “Haifa 1948”. Queste due figure femminili attraggono rispettivamente Ur e Nur, i quali si fondono e si scontrano perfino nelle fantasie più intime. Litigando più volte sulle loro posizioni politiche, le due ragazze mettono in seria difficoltà il protagonista, che si avvale della facoltà del silenzio, mostrandoci come, nonostante la nuova identità, questa caratteristica non l’abbia abbandonato.

Durante gli scavi, le registrazioni vocali destinate all’amico Murad si fanno più profonde, oltre che più silenziose, a causa del fatto che Nur deve nascondersi quando parla nella sua lingua madre. Egli gli confiderà desideri intimi e preoccupazioni, sogni ad occhi aperti e sogni notturni, in cui Samaʾ prende le forme della sua eroina Maddalena, che, se in principio era il motivo principale del fingersi un’altra persona, dopo l’incontro con Samaʾ passerà in secondo piano.

Una volta interrotti gli scavi a causa delle crescenti tensioni tra l’esercito israeliano e i palestinesi che si oppongono allo sfratto del quartiere gerosolomitano, Nur torna in sé, rivelando la sua vera identità attraverso la sua lingua madre all’amica palestinese, liberandosi così della maschera attraverso Samaʾ. Qui si snoda uno dei principali giochi linguistici del romanzo: Samaʾ, infatti, è la parola araba per indicare il cielo, lo stesso cielo del titolo, che ha il duplice significato di riferirsi al colore azzurro della carta di identità israeliana e alla protagonista femminile in cui Nur ritroverà la sua voce autentica.

Filo conduttore di tutto il romanzo è la passione del protagonista per la storia e l’archeologia. Oltre a spingerlo verso i rischi che incorre nel fingersi un’altra persona, l’archeologia è l’elemento fondamentale con cui l’autore riporta l’attenzione sul colonialismo israeliano e sulla cancellazione dell’identità palestinese. Nur, infatti, scopre come la narrazione storica israeliana si basi su un uso politico dell’archeologia per legittimare l’occupazione del territorio. Là dove un israeliano vede la traccia di ciò che c’è scritto nella Bibbia e con essa una legittimazione di sé stesso in quel preciso luogo – «La Terra Santa è la Bibbia vivente che parla» [p. 124] –, un palestinese ricorda ciò che c’era prima, prima del 1948. E così è Nur a ricordare come nel luogo in cui ora è situato il mausoleo della tomba di Sansone prima c’era il villaggio palestinese di Saar. Inoltre, grazie alle parole di una collega archeologa, vengono identificate le rovine del villaggio di Abu Shusha, erroneamente scambiate dal capo della spedizione per “pietre bibliche”. In questo modo l’archeologia diventa un mezzo fondamentale per riportare alla luce le identità sepolte e brutalmente cancellate dal colonialismo sionista.

Un elemento significativo, infine, è la copertina del romanzo nella sua versione italiana, che dialoga con la copertina del romanzo in lingua originale e in cui è presente la Cupola della Roccia di Gerusalemme. Come si legge nel romanzo, «la Cupola era il velo di Gerusalemme e di quella sua moschea adornata di lapislazzuli e turchesi, e la Roccia era il suo cuore pulsante di sacralità e di sangue della terra e del cielo insieme. Chi aveva detto: “Morire alla Roccia è come morire in cielo”?» [p. 63].

Gerusalemme, infatti, si presenta quasi come un altro personaggio femminile, accanto alle donne protagoniste del romanzo, Aliyah, Samaʾ e la Maddalena: è «una donna, una donna creata da sangue e cielo» [p. 63] con cui il protagonista afferma di avere una storia d’amore. L’autore sembra infatti immaginarsi fuori dalla cella in cui è costretto a vivere, e camminare libero tra le strade della città, che descrive accuratamente. Inoltre, ne cita diversi riferimenti storici sui due piani narrativi del romanzo: la Gerusalemme degli sfratti di Sheikh Jarrah e la Gerusalemme della Maddalena.

Una maschera color del cielo fa parte di una trilogia che l’autore ha chiamato Ṯulāṯiyyat al-marāyā (La trilogia degli specchi) e che sta continuando a scrivere all’interno della sua cella. Il secondo titolo della trilogia è Sādin al-Maḥruqah (Il custode dell’Olocausto), pubblicato nel 2024 sempre per Dār al-Ādāb, in cui il protagonista è Ur Shapira stesso. In questo secondo romanzo Bassem Khandaqji è in grado di capovolgere la narrazione del primo, in cui traccia abilmente il profilo psicologico del protagonista Nur al-Shahdi, raccontando, al contrario, il personaggio di Ur Shapira. Il terzo volume è Šayāṭīn Maryam al-Ğalīliyyah (I demoni di Maria Maddalena), ancora inedito. Ci auguriamo che anche questi due libri vengano presto tradotti in italiano arricchendo la nostra conoscenza sulla narrativa palestinese contemporanea.


1Bāsim Ḫandaqǧī, Anfās qaṣīdah layliyyah, al-Dār al-ʿarabiyyah li ʾl-ʿulūm nāširūn, Bayrūt 2013, p. 5.

2ʿUmrān ʿAbd Allāh, “Qināʿ bi-lawn al-samāʾ” li ʾl-asīr al-filasṭīnī Bāsim Ḫandaqǧī tafūz bi ʾl-ǧāʾizah al-ʿālamiyyah li ʾl-riwāyah al-ʿarabiyyah 2024, in “al-Ǧazīrah”, 28 aprile 2024, disponibile al link: https://www.aljazeera.net/cultureقناعبلونالسماءللأسيرالفلسطيني/2024/4/28 (ultimo accesso 26 dicembre 2024).

3I nomi arabi vengono riportati così come appaiono nella traduzione italiana del romanzo e non in traslitterazione scientifica.

4Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, a cura di E. Bartuli, traduzione dall’arabo di E. Bartuli; R. Ciucani, Feltrinelli, Milano 2017, p. 316.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno XIV, numero 28, dicembre 2024

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L’Autore

Camilla Caramuta |