Yusrà Muqaddim, al-Ḥarīm al-luġawī (L’harem linguistico), Šarikat al-matbūʻāt li ʼl-tawzīʻ wa ʼl-našr, Bayrūt 2010, pp.196

È ormai stata abbondantemente smentita l’idea secondo la quale il femminismo sia prodotto esclusivo del “progresso occidentale”, cui spetta di conseguenza il compito di “illuminare” culture meno “fortunate e avanzate”, come nella fattispecie quella mediorientale.

A ulteriore conferma della vivacità del dibattito e dei movimenti sulla condizione della donna in atto nel mondo arabo e islamico, troviamo l’ultima pubblicazione di Yusrà Muqaddim, al-Ḥarīm al-luġawī, con la quale la ricercatrice libanese porta l’analisi di genere ad addentrarsi nel campo della lingua e della grammatica araba. È un libro capace fin dalle prime pagine di calamitare l’interesse del lettore, dal momento che promette di condurlo attraverso un profondo cammino analitico per confutare norme così interiorizzate da essere date per “assoluti indiscutibili”. Si tratta, in questo caso, di quelle regole che sanciscono tra il femminile ed il maschile una divisione «biologica, intellettuale, sociale e conseguentemente creativa, fondata non sulla differenza e sulla specificità, ma su una base gerarchica tra il difetto e la completezza, il ramo e l’origine, il passivo e l’attivo, il margine ed il centro» [p. 10].

L’ipotesi da cui prende forma l’opera è che la lingua araba sia uno dei principali ambiti nei quali viene esercitato il “potere patriarcale”, relegando la donna, nel passato come tuttora, a posizioni di subalternità e di inferiorità nella società (un harem linguistico, appunto). Secondo l’autrice, ciò è avvenuto grazie alla sedimentazione, tanto nella struttura quanto nel lessico, di concetti e idee che asserivano l’egemonia dell’uomo sulla donna, fino ad averla resa un fatto del tutto naturale.

La studiosa dedica i primi due dei quindici capitoli che compongono il libro ad un’articolata quanto necessaria premessa teorica. Per lei, infatti, un idioma non si limita ad essere un sistema di significati astratti cui corrispondono significanti materiali. Esso «non è un semplice contenitore, né le parole che la compongono sono semplici simboli che rappresentano arbitrariamente le cose», bensì è «un’esistenza totale creatrice, palpitante, che trabocca di noi e ci racchiude al suo interno come utero vivo prima e dopo la nascita, per continuare a cingerci delle sue cure da tutti i lati» [p. 21]. In quest’ottica, la lingua è intimamente connessa con i nostri sentimenti, i nostri pensieri, la cultura, la società. Ad essa è intrinseca un’autorità che è «giustizia pura», al punto che «senza di essa le parole non offrirebbero alcuna garanzia sulla certezza dell’esistenza della verità» [pp. 21-22].

Yusrà Muqaddim ritiene che la struttura, niẓām, sia solo un’imma­gine della lingua, e che alla lingua sia stata imposta arbitrariamente dal “potere patriarcale”. La qual cosa diventa ancora più pregnante per quanto riguarda l’arabo, idioma della rivelazione, considerato dai grammatici principio, origine, al-luġah al-umm, nel senso però di madre umana, relegata quindi alla semplice funzionalità biologica di progeneratrice. È a partire da questo momento ed in virtù di questa considerazione preliminare che la lingua araba è stata spodestata, le è stata sottratta la sua naturale indipendenza, per renderla asservita alle sentenze e alle regole espresse dagli studiosi di grammatica, gli esperti del fiqh naḥwī, nel corso del costituirsi della materia. La creazione del niẓām ha provocato, per la studiosa, una frattura secondo la quale si è venuto a creare un ordine, preferenziale, tra il «segno/ori­gine/completo/maschile/essenza esistente a sé stante», cui è subordinato il «significato/derivazione/difettoso/femminile/che non possiede esis­tenza indipendente dall’origine» [p. 36]. Ciò avviene secondo una dinamica che si riflette sui vari piani, dal filosofico (segno>significato) al sociale (signore>dominato), garantita dall’interdipendenza dei vari livelli di competenza del fiqh (dal filosofico, al sociale, al linguistico) peculiarità dell’arabo e della cultura islamica.

Una volta chiarita questa incongruenza di base, lo studio della critica libanese si muove alla disamina e confutazione delle pretestuose osservazioni e giudizi di valore in base ai quali al-fuqahāʼ al-naḥwiyyūn hanno creato un complesso sistema di regole grammaticali che hanno sancito l’inferiorità del femminile nei confronti del maschile. Viene così svelata una rete di pregiudizi che si basa su un’errata interpretazione della fonte coranica, fondata sul mito della Genesi secondo il quale Eva sarebbe nata da una costola di Adamo. L’osservazione di al-Siǧistānī, portata come esempio nel testo, la quale asserisce che «il maschile non ha segno, pertanto è il primo», trova così la propria giustificazione in una fonte es­terna, non originaria. Secondo l’autrice in questo modo si è venuto a creare un fondamento (aṣl) falso, che si costituisce autorità e cancella ogni legame con lo stato di cose reale e antecedente, ovvero quello sancito da due versetti del Corano, secondo i quali è plausibile che uomo e donna siano posti entrambi esattamente all’origine e quindi sullo stesso piano.

Questo può essere considerato il punto di innesto di una reazione a catena, un accumularsi di regole grammaticali, uno stabilirsi di metafore e similitudini che completano l’accerchiamento del femminile nella grammatica e nella lingua, il quale poi si riflette nella segregazione e subordinazione della donna nella cultura e nella società.

Compito del saggio al-Ḥarīm al-luġāwī è seguire i meccanismi secondo i quali questa mentalità discriminatoria filtra attraverso i modelli educativi per riflettersi poi nella politica, nella società, nell’economia, fino nei diversi ambiti della produzione scientifica [pp. 64-65] e letteraria; al punto che «nessun discorso culturale e scientifico, e si veda come è stato requisito il discorso letterario […], è stato risparmiato dalla tracotanza del potere patriarcale […], mentre il femminile ne è stato cancellato» [p. 71]. La scrittura critica e creativa resta esclusivo appannaggio di una specificità maschile dominante, che impone il proprio sistema di valori.

Non si tratta qui di stabilire quanto e a quali livelli la donna araba partecipi attivamente alla vita scientifica e culturale (sebbene sia riconosciuto un palese squilibro tra i due sessi): oggetto del libro è il femminile o “femminile della scrittura”, considerato come l’espres­sione di una soggettività consapevole della propria completezza ed in grado di esprimere la propria esistenza, che si palesa attraverso la scrittura [pp. 77-78]. Viene così delineandosi un’immagine di un universo del sapere e della produzione culturale posto nella sua interezza sotto la tirannide del “potere patriarcale”, il quale consente all’indivi­dualità femminile di esprimersi, di asseverare la propria esistenza, solo attraverso una serie di metafore che non fanno altro che sancirne la subalternità, l’incompletezza e l’inferiorità, cancellandone ogni specificità.

Cosa fare, dunque? È nel capitolo finale che si intravede una possibilità di soluzione. Se «attraverso [i romanzi], è consentito al “femminile del romanzo” di farsi beffe delle costrizioni del potere, per dire il non detto e liberare ciò che è stato represso», questa possibilità è inficiata dal peccato originale, dal “dubbio”, che rende il corpo femminile metaforico, né vero, né libero, incapace di un’espressione che non sia marginalizzata [p. 179]. Il corpo, «origine ed essenza dell’iden­tità», diventa la posta in gioco, il fulcro della possibilità di liberazione: «la conoscenza vera non si può avere al di fuori dell’esperienza», e questa «non si avvera se non attraverso il corpo, ma che sia a sua volta verità, non soggetto alla verità» [p. 182].

Il libro è scritto in uno stile energico, carico di immagini, che richiama la tensione intellettuale di molta critica femminista “militante”, ed allo stesso tempo sembra trasmettere la forte consapevolezza di sostenere una tesi tanto difficile quanto giusta e necessaria. Questa sicurezza, tuttavia, rischia di trasformarsi in un punto debole, dal momento che nessuno sforzo è dedicato a meglio definire e analizzate il “potere patriarcale” contro cui il saggio, in definitiva, si muove: questo appare, infatti, alla stregua di un’entità misteriosa, quasi eterna, al di fuori del tempo e della storia.

Indubbiamente, al-Ḥarīm al-luġawī non si prefigura come uno studio critico di linguistica o grammatica. La materia linguistica in questo saggio è investita di un ruolo attivo, per certi versi simile a quello dei “discorsi” di Foucault, generatori più che portatori di potere. I meccanismi secondo i quali ciò avviene sono delineati in maniera intuitiva, poetica, più che razionale, filologica, fino a dare l’impressione che tutto succeda prima nell’idioma e, successivamente, al di fuori di esso.

Le fonti primarie sono costituite prevalentemente da brevi riferimenti a testi classici di fiqh naḥwī e a qualche lessico classico, che sono scarsi e dei quali non viene offerta nessuna lettura critica che possa metterli in relazione al loro contesto di origine. Allo stesso modo, i versetti coranici addotti come prova delle teorie sostenute sembrano essere presentati come delle verità autoevidenti, più che materia di indagine da sottoporre ad analisi storico-linguistica.

Il materiale scrutinato si trova affiancato da riferimenti a fonti di diversa natura, che spaziano dai capisaldi del pensiero classico, alla filosofia contemporanea ed alla linguistica occidentale (da Sofocle a Heidegger, da de Saussure a Eco). Di sicuro interesse è la presenza di contributi di intellettuali arabi, posti sia a sostegno della tesi che in luce critica: da un lato si trovano fugaci accenni a scrittori e pensatori della modernità e contemporaneità araba (Sayyid Quṭb, Qāsim Amīn, Adūnis, Ǧābir ʻAsfūr, Ḥanān al-Šayḫ e Ḥasan Dawūd, per indicare solo i principali); dall’altro, sono più significativi i riferimenti a numerosi lavori di accademici arabi che si sono interessati agli studi di genere.

In definitiva, se può risultare poco soddisfacente per lo studioso di linguistica, questo saggio ha indubbiamente valore quando preso come testimonianza di una riflessione sulla propria cultura in atto nel mondo arabo. L’autrice, Yusrà Muqaddim, è una studiosa araba poco nota negli ambiti accademici occidentali che però ha già precedentemente fatto discutere di sé con una monografia di critica letteraria femminista. In altre parole, più che essere considerato uno studio sul passato e su testi classici, al-Ḥarīm al-luġāwī va osservato sotto una luce più contemporanea: appare, infatti, tacitamente indebitato nei confronti delle impostazioni e direzioni impresse dal post-strutturalismo agli studi di genere. Un simile testo, che ha inoltre il pregio di addentrare la critica femminista fino a luoghi estremamente sensibili della cultura arabo-islamica, come il fiqh o il Corano, può essere considerato una istantanea dello stato dell’arte attuale del dibattito sul concetto di gender nei paesi arabi. Ciò fornisce un’ulteriore conferma della salute di un movimento femminista che, nonostante i media occidentali abbiano cominciato a conoscerne le numerose sfaccettature solo di recente, vanta una storia lunga e affascinante che continua a rivelare gradevoli sorprese.

Alessandro Buontempo

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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Alessandro Buontempo |