Yasmina Khadra. L’ultima notte del Rais, traduzione dal francese di M. Di Leo, Sellerio, Palermo 2015, pp. 165 (ed. or.: La dernière nuit de Kadhafi, Julliard, Paris 2015).

in La rivista di Arablit, a. VI, n. 11, giugno 2016, pp. 75-80.

L’ultima notte del Rais è un recente romanzo di Yasmina Khadra[1], pseudonimo dello scrittore algerino francofono Mohamed Moulessehoul (Muḥammad Mūlissihūl, 1956), autore prolifico che solo nel 1999 ha svelato il suo vero nome, dopo aver lasciato l’esercito algerino in cui era entrato sin dall’età di nove anni.
Com’è noto, nella notte tra il 19 e il 20 ottobre 2011, in Libia, terminava il potere durato oltre quarant’anni del colonnello Gheddafi (Mu‘ammar al-Qaḏḏāfī, 1942-2011), il «Fratello Guida» [pp. 15, 18 ss.], «il mito fatto uomo» [p. 14], catturato e ucciso dalle forze ribelli. Da questo dato storico Yasmina Khadra ricostruisce l’ultima notte vissuta dall’ex leader libico. Il libro, infatti, è la trasposizione letteraria della storia di uno dei principali protagonisti della scena politica araba e internazionale degli ultimi quarant’anni. Il romanzo è una lettura avvincente e intensa che coinvolge il lettore, grazie allo stile incalzante, rafforzato probabilmente anche dalla scelta dello scrittore di far parlare il protagonista in prima persona che rappresenta, così, l’unica voce narrante dell’opera. Il libro si apre con Gheddafi bambino, quando trascorreva ore nel deserto con lo zio, secondo il quale, nel firmamento di quello spazio vuoto, «c’era un astro per ogni coraggioso sulla terra» [p. 12] e, a suo dire, quello assegnato al nipote, senza dubbio alcuno, era la luna piena. La stessa luna che, sessantatré anni dopo, in quell’ultima notte trascorsa dal protagonista in una scuola abbandonata di Sirte, sembra ridotta a «un frammento di unghia» [p. 12].
In questo modo, si dipana la trama del romanzo, incentrata sulle ultime ore del Rais, in cui continui flashback riportano l’ex leader indietro nel tempo, costringendolo a ripercorrere fotogrammi del proprio passato popolati da ombre e fantasmi. Nella sua ultima notte, si riaffacciano tenebrose e inquietanti alla sua memoria e alla sua coscienza l’infanzia vissuta nel silenzio del deserto tra miseria e indigenza, la prima giovinezza contrassegnata da costante irrequietezza e ribellione, la vita militare. Quello che emerge è il ritratto di un uomo megalomane e paranoico, dedito all’uso di droghe, sinceramente convinto di essere stato guidato da una «Voce cosmica» [p. 73] che gli confermava, giorno dopo giorno, «di essere un beniamino del cielo»   [p. 73]. A tal proposito, si legge: «Le mie parole sono Vangelo, i miei pensieri vaticini. […] Sono un essere superiore, l’uomo della provvidenza, che gli dèi invidiano e che della sua causa ha fatto una religione» [pp. 71-72].
Un uomo, dunque, profondamente persuaso di aver ricevuto da Dio il ruolo di giustiziere con il compito di riscattare le ingiustizie personali e collettive perpetrate in Libia, prima dagli italiani e poi dalla monarchia, definita nel romanzo «l’epoca d’oro dei feudatari usurpatori, dei borghesi musulmani che parlavano l’italiano» [p. 134], alludendo alla politica filo-occidentale del re Idrīs. Un ruolo, questo, che il Rais avrebbe ricevuto ancor prima della nascita, come  l’autore fa dire al suo protagonista: «nessuna forza malefica mi svierà dalla mia missione, giacché era scritto, ancor prima che il villaggio di Qasr Abu Hadi mi accogliesse nella sua culla, che avrei vendicato le offese inflitte ai popoli oppressi mettendo in ginocchio il diavolo e i suoi accoliti»  [pp. 14-15]. Vale la pena ricordare che proprio nei pressi di quel villaggio, nei primi anni della colonizzazione italiana, nell’aprile del 1915, accadde un evento storico molto significativo: una poderosa colonna militare italiana fu attaccata, dispersa e quasi del tutto distrutta dalla resistenza libica. L’io narrante del romanzo appare fiero di aver assorbito la forza e la ribellione derivanti da quei luoghi natii. Il suo narcisismo, secondo l’autore, non sarebbe stato scalfito neanche dal profondo complesso di inferiorità vissuto per non aver mai saputo con certezza chi fosse suo padre. Questo fatto spingerà lo scrittore a indurre il suo protagonista/Gheddafi a paragonarsi a Muḥammad o a Gesù che, come si legge nel romanzo, non avrebbero mai conosciuto il padre[2]. Gheddafi, infatti, avrebbe ignorato se suo  padre fosse stato un uomo del proprio clan, morto in un duello d’onore, come gli ripeteva lo zio, oppure un aviatore corso di nome Alexandre Albert Preziosi, soccorso e curato dalla sua tribù «dopo che il suo aereo era stato abbattuto da un caccia tedesco nel 1941» [p. 97][3].
Tra le manie dell’ex leader lo scrittore rimarca la sua eccessiva diffidenza, che portò le carceri libiche a riempirsi di suoi «collaboratori irrispettosi, di sospettati, di insoddisfatti, di imprudenti», di uomini che avrebbero avuto il torto «di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato» [p. 71]. D’altronde lo scrittore insiste a far dire al suo protagonista che sarebbero stati «in migliaia a marcire in galera per non essere stati degni della mia fiducia né della mia clemenza» [p. 150]. In quella notte finale, sebbene circondato dagli ultimi fedelissimi, la sua mente, resa maggiormente disturbata dalla precarietà delle condizioni, diventa persino più guardinga e sospettosa, a tal punto da affermare che il potere «è allucinogeno, perciò non si è mai al riparo dalle fantasie omicide» [p. 61]. Così il leader ripassa mentalmente i nomi di coloro che, un tempo, facevano parte del suo entourage ma che, allo scoppio della rivolta popolare del 2011, gli voltarono le spalle. Sono nomi di personaggi reali che hanno storicamente accompagnato la politica di Gheddafi: è questo il caso del generale Abd al-Fattah Yunis [‘Abd       al-Fattāḥ Yūnis, 1944-2011] ricevuto all’Eliseo da Nicolas Sarkozy, come si legge nel romanzo, alludendo al passaggio del militare nell’Esercito Nazionale Libico di Liberazione; del Ministro degli Esteri Musa Muhammad Kusa [Mūsà Muḥammad Kūsā, 1949] che, secondo  la voce narrante, «ha chiesto asilo politico agli inglesi» [p. 29]; dell’altro Ministro degli Esteri Abdurrahman Shalgam [‘Abd al-Raḥmān Šalqam, 1949], che lavorò all’Onu come delegato libico e che nel libro viene definito dal Rais «un traditore giurato, emissario di felloni e mercenari…» [p. 29][4].
Tra i suoi fedelissimi non manca la presenza femminile rappresentata da Amira, una delle prime guardie del corpo del colonnello, qui descritta come  «un’amazzone intrepida e instancabile, […] di una fedeltà a tutta prova» [p. 46]. Il Rais si sarebbe fidato solo di lei. Solo a lei, infatti, in quei momenti difficili, il Colonnello avrebbe affidato lo zaino contenente le ultime bustine di eroina che la donna, dietro suo ordine, di volta in volta gli avrebbe iniettato. Amira è una guardia dell’Accademia militare femminile, l’istituzione fondata in Libia nel 1979. È interessante notare che l’Accademia all’epoca appariva come una conquista per le donne, dato che permetteva alle ragazze di uscire di casa vincendo le resistenze familiari e le consuetudini sociali.
Nel romanzo lo  scrittore, però, non si limita a sottolineare gli atteggiamenti paranoici del leader che, forse, denotavano anche l’insicurezza e la vulnerabilità di un uomo alla continua ricerca di consenso. L’autore va oltre e traccia il percorso compiuto dal paese che, al di là dell’enfasi espressa dagli adulatori del Rais, registrò modifiche, a volte miglioramenti, rispetto alle precedenti condizioni di vita socio-economiche: «Eravamo soltanto dei nomadi coperti di polvere che un re incapace trattava come stracci e [… il Rais] ha fatto di noi un popolo libero ed invidiato» [p. 23]. O, ancora, fa riferimento all’unità nazionale, seppur apparente, che Gheddafi era stato in grado di conferire alle diverse regioni del paese. In un dialogo con il Rais, un suo sottoposto avrebbe detto profeticamente: «Se le capitasse una disgrazia, la Libia non si riprenderebbe. Questo bellissimo paese, che lei ha costruito con le sue mani, superando ogni avversità, si sbriciolerebbe come una vecchia reliquia tarlata. […] Senza di lei, le tribù dissotterreranno l’ascia di guerra che dormiva sotto secoli di rancore, di vendette covate e di tradimenti impuniti. Ci saranno tanti stati quanti sono i clan. Il popolo che lei ha compattato troverà intatte le sue fratture» [pp. 69-70]. Attraverso i continui flashback dell’io narrante, lo scrittore ripercorre alcuni dei momenti più bui della politica interna ed estera della Libia, come il massacro nel carcere di Abu Salim [Abū Salīm], presentato dal nostro protagonista come un’azione necessaria per «liberare la nostra nazione da un verminaio schifoso, da un’accozzaglia di esalatati con la vocazione del terrorismo. Minacciavano la stabilità del paese» [p. 66][5]. Così gli attentati di Lockerbie e del volo 772 dell’UTA, vengono giustificati dalla voce narrante come inevitabile risposta libica ad attacchi americani.
Il romanzo, gradualmente, trascende la storia nazionale della Libia e, attraverso le vicende del protagonista, propone spunti di riflessione sulla triste situazione in cui langue la politica del resto dei paesi arabi, governati da tanti altri rais, definiti «gaudenti gozzovigliatori» [pp. 35-36], esponenti di una Lega Araba che oggi, probabilmente, ha perso ogni efficacia e validità: «Erano tutti al Cairo, schierati in fila, intenti a spiarsi a vicenda, gli uni arroganti sotto le loro corone da patriarchi costipati, gli altri troppo ottusi per poter essere presi sul serio. Pivellini che si credevano già arrivati, presidenti di operetta incapaci di scrollarsi di dosso l’aria da bifolchi, emiri del petroldollaro saltati fuori dal cappello di un prestigiatore, sultani impacchettati nei loro abiti da fantasmi» [p. 36]. Il quadro che si evince è quello di governanti completamente avulsi dai problemi sociali dei loro popoli, come purtroppo hanno dimostrato le recenti rivolte arabe: «Occupati a riempirsi le tasche, non si accorgevano né che il mondo cambiava a velocità vertiginosa, né che all’orizzonte si addensavano nuvole cariche di tempesta. Le pene dei loro sudditi, la disperazione dei giovani, il progressivo impoverimento dei loro popoli erano dettagli irrilevanti» [p. 36].
Severe critiche sono rivolte, in particolare, contro Ben Ali [Zīn al-‘Ābidīn Bin ‘Alī, 1936] e Saddam Hussein [Ṣaddām Ḥusayn, 1937-2006]. Il primo, secondo lo scrittore,  sarebbe stato definito da Gheddafi un «pappamolle travestito da boss che mostrava i muscoli con i suoi scagnozzi e diventava uno stuoino davanti all’ultimo degli emissari occidentali!» [p. 36], o ancora «un magnaccia imborghesito, pronto a darsela a gambe al minimo tafferuglio» [p. 38]. Il secondo è rimproverato di essersi lasciato prendere vivo e giustiziare nel giorno del ‘Īd, diventando un animale da circo per gli occidentali. A tal proposito, il Rais esclama: «Non passerete il vostro cotton fioc sulle mucose della mia bocca. Non mi esporrete sulle vostre reti televisive con una barba da clochard. E tu, Sarkozy, non avrai l’onore di esibire il mio scalpo dall’alto del tuo trespolo» [p. 106]. Qui il lettore può cogliere una chiara critica all’Occidente che, all’epoca, spettacolarizzò la cattura del dittatore iracheno in nome del trionfo della democrazia, ma lo lasciò poi morire secondo le leggi vigenti nel paese del dittatore, anziché sottoporlo al giudizio di un tribunale internazionale.
A un certo punto della trama, lo scrittore inserisce un immaginario, quanto insolito, tutor che avrebbe accompagnato il Rais nei momenti cruciali della sua vita, comparendogli in sogno: si tratta del pittore Vincent Van Gogh che ritroviamo nelle vesti del maestro che impartisce le lezioni coraniche a Gheddafi bambino, pronto a punire gli indisciplinati con  la tortura della falaqa. Rieccolo alla vigilia del colpo di Stato del 1969 quando il pittore, immobile «nella sua cornice dorata» [p. 58], rimane a fissare il Rais finché non arriva la notizia che il principe ereditario ha abdicato. Ancora, qualche mese dopo il golpe, gli riappare in sogno per ispirargli una decisione drastica: «mai più crociati sulla terra sacrosanta di Omar al-Mukhtar» [p. 58], allusione all’espulsione degli italiani dal paese. È sempre Van Gogh che nel 1975, attraverso «un sogno di rara violenza» [p. 58], lo mette in guardia sul tradimento di due compagni rivoluzionari Bachir Saghir Hawdi [Bašīr al-Saġīr al-Hawādī] e Omar al-Meheichin [‘Umar ‘Abdallah al-Miḥayšī, m. 1984][6].
Sarà ancora Van Gogh l’ultima visione invocata dal Rais quando, negli istanti finali della sua fuga a piedi, braccato dai ribelli, si rifugia in una condotta d’acqua, con la speranza che tutto sia un incubo da cui svegliarsi. Quella, invece, è realtà. Una realtà che lo scrittore descrive nella crudezza della violenza fisica, forse per invitare il lettore a riflettere che, persino per un dittatore, la morte deve avere una sua dignità e non può essere ridotta allo scempio di un corpo impietosamente violentato da una folla in delirio. Solo alla fine del romanzo il lettore capirà lo strano legame tra Gheddafi e il pittore con l’orecchio mutilato, allorché il Rais si rivede bambino in compagnia della madre che lo rimproverava di ascoltare «soltanto con un orecchio, quello che presti volentieri ai tuoi demoni. L’altro è sordo alla ragione…» [p. 159].
In questi anni di grande sofferenza per molti popoli arabi, il romanzo di Yasmina Khadra propone una chiave di lettura di quanto è accaduto in Libia e in altri paesi arabi, assegnando le responsabilità a tutti, in diversa misura: ai leader arabi colpevoli di aver ignorato le più elementari leggi della ragione, a quelli occidentali, rei di aver chiuso gli occhi sulle «mostruosità» [p. 120] che i popoli arabi hanno subito per decenni dai rais di turno, legittimando così regimi dittatoriali che hanno ignorato le istanze di democrazia e libertà dei propri popoli. La narrazione è così vicina alla realtà, che si corre il rischio di confondere e di far prevaricare gli eventi storici con quelli romanzeschi.
Leggendo quest’opera di Yasmina Khadra, un pensiero infine va al grande scrittore Gabriel García Márquez che ne L’autunno del patriarca  (El otoño del patriarca) aveva anch’egli descritto l’inesorabile caduta di un dittatore che sembrava immortale come Gheddafi.

Elvira Diana


[1]  Dello scrittore di recente è uscita la riedizione de L’attentatrice (Mondadori, Milano 2006) con il titolo L’attentato (traduzione di M. Bellini, Sellerio, Palermo 2016; ed. or.: L’Attentat, Julliard, Paris 2005). Il romanzo aveva ispirato, nel 2013, il film del regista libanese Ziyād Duwayrī.
[2]  Se per Muḥammad il discorso può essere valido, sorprende che lo scrittore attribuisca una simile affermazione a Gesù.
[3]  Yasmina Khadra ha dato credito a chi ritiene che Gheddafi fosse figlio dell’aviatore francese, basandosi perlopiù sulla somiglianza fisica tra i due. Secondo altre fonti il padre ufficiale di Gheddafi sarebbe stato un beduino di nome Muḥammad ‘Abd al-Salām bin Aḥmad Abū Minyar, ma non è facile descrivere il percorso biografico del capo della rivolta militare prima del 1969. Cfr. M. Cricco, F. Cresti, Gheddafi. I volti del potere, Carocci, Roma 2011, p. 20.
[4]  ‘Abd al-Raḥmān Šalqam, che è stato ambasciatore a Roma, ha unito all’attività politica quella letteraria. Ha diretto numerose pubblicazioni culturali libiche, come «al-Faǧr al-ǧadīd» (La nuova alba) e ha pubblicato diverse raccolte di poesie, alcune tradotte in italiano. Si veda Abdurrahman Shalgam, Intimità, traduzione a cura di Pasquale Macaluso e Ibrahim Magdud, Flaccovio, Palermo 2003 (ed. or.: Asrār, Dār al-Multaqà, Bayrūt 2001).
[5]  Vale la pena ricordare che il massacro, avvenuto nella notte del 29 giugno 1996, registrò l’uccisione di circa 1200 detenuti, in prigione perlopiù per reati politici. I loro corpi non furono mai restituiti ai familiari.
[6]  Nell’agosto del 1975, i due componenti del CCR (Consiglio del Comando Rivoluzionario) tentarono un colpo di Stato contro il regime. Il golpe fu sventato e gli attentatori furono costretti a fuggire a Tunisi con un gruppo di sostenitori.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VI, Numero 11, giugno 2016

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Elvira Diana |