Yāsīn al-Ḥāǧǧ Ṣāliḥ, Bi ’l-ḫalāṣ yā šabāb! 16 ʿāman fī ’l-suǧūn al-sūriyyah (Siamo salvi, ragazzi! 16 anni nelle carceri siriane), Dār al-Sāqī, Bayrūt 2012, pp. 215

A partire dalla fine degli anni Novanta, il panorama editoriale siriano ha assistito a un notevole incremento delle pubblicazioni che rientrano nella dicitura di adab al-suǧūn (letteratura delle carceri). Sempre più ex-detenuti hanno infranto il muro del silenzio per documentare attraverso romanzi, raccolte poetiche e libri di memorie la propria esperienza nelle carceri siriane, spesso protrattasi per oltre un decennio. Opere come Ḫiyānāt al-luġah wa ’l-ṣamt. Taġrībatī fī suǧūn al-muḫābarāt al-sūriyyah (Tradimenti della lingua e del silenzio. Il mio esilio nelle carceri dei servizi segreti siriani, 2006) di Faraǧ Bayraqdār, al-Qawqaʿah. Yawmiyyāt mutalaṣṣiṣ (La conchiglia. Memorie di un osservatore furtivo, 2008) di Muṣṭafà Ḫalīfah, al-Raḥīl ilà ’l-maǧhūl. Yawmiyyāt fī ’l-suǧūn al-sūriyyah (Partenza per l’ignoto. Memorie delle carceri siriane, 2010) di Ārām Karabīt e Māḏā warā’ hāḏihi al-ǧudrān (Cosa c’è dietro queste mura, 2015) di Rātib Šaʿbū, sono solo alcuni dei titoli più recenti e rappresentativi di questa tendenza, in cui rientra anche il testo qui recensito.
L’autore, Yāsīn al-Ḥāǧǧ Ṣāliḥ (1961), è uno scrittore siriano nativo di    al-Raqqah, dalla fine del 2013 residente a Istanbul. Collabora a diverse testate arabe, tra le quali “al-Ḥayāh”, “al-Quds al-ʿarabī” e  “al-Ǧumhūriyyah”, ed è autore di saggi di carattere socio-politico, l’ultimo dei quali, al-Ṯaqāfah ka-siyāsah (La cultura come politica), pubblicato nel 2016. A causa della sua appartenenza al Partito comunista siriano, ha trascorso sedici anni nelle carceri del regime siriano tra il 1980 e il 1996.    Bi ’l-ḫalāṣ yā šabāb! 16 ʿāman fī ’l-suǧūn al-sūriyyah è una raccolta di nove scritti, in parte inediti, datati tra il 1996 e il 2011, in cui l’autore legge le varie fasi della detenzione in Siria attraverso la lente della sua esperienza personale: gli anni trascorsi nel carcere (scritti 1-3), la memoria del carcere dopo il rilascio (scritti 4 e 5), la condizione degli ex-detenuti siriani (scritti 6-8). Il nono e ultimo scritto funge da conclusione all’opera.
Dopo un’introduzione sull’oggetto della pubblicazione e una cronologia della detenzione di Yāsīn al-Ḥāǧǧ Ṣāliḥ, la raccolta si apre riproponendo un suo articolo pubblicato nel 2003 con il titolo di Ṭarīq ilà Tadmur (Sulla strada verso Palmira). Si tratta del suo primo testo che affronta la questione del carcere e include pertanto le ragioni che lo hanno spinto alla scrittura a distanza di quasi sette anni dalla scarcerazione. «Non credo – scrive – di essere diverso da molti siriani quando provo avversione per ogni minimo ricordo di quanto avvenuto in quegli anni folli, come il massacro di Palmira del 1980, o tutta la storia di Palmira tra la fine degli anni Settanta e la fine del secolo, o ancora il dramma di Hama del 1982, fino alle principali fasi della storia della mia detenzione. Non è differente, tale avversione, dall’atto di chi cambia strada per evitare di vedere un cadavere impiccato e lasciato pendere in un luogo pubblico. E dopo tutti questi anni chi è che non vorrebbe oggi risparmiarsi la visione del cadavere di un morto, deturpato e decomposto? Eppure noi siamo la famiglia di quel morto, quello è il nostro cadavere. Non possiamo non riconoscerlo, lavarlo e onorarlo con una sepoltura. Ricordare è davvero difficile, ma dimenticare è proibito. Questo è il motivo per il quale scrivo queste pagine, nel tentativo di vincere una forte resistenza» [p. 15].
Ricordare e onorare le vittime sono appunto i due scopi principali della scrittura. Ed è col ricordo dei momenti più terribili della sua esperienza che inizia la narrazione, il ricordo dell’ultimo anno di detenzione, trascorso nella lunga attesa del rilascio nella più terrificante delle carceri siriane, quella di Palmira. Somma rappresentazione del più bieco ideale di carcere, l’autore ne descrive le cerimonie di «accoglienza» [p. 23], le torture e le umiliazioni subite. Vero inferno dantesco sulla terra, il carcere di Palmira richiama alla mente dolorosi ricordi, che però non possono giustificare la sua rimozione dalla memoria né la sua distruzione fisica. Piuttosto, propone l’autore, quel carcere dovrebbe essere trasformato in un museo, di strumenti di tortura per esempio, un monumento che onori le sofferenze delle sue vittime e che avversi l’oblio. La proposta dell’autore diventa oggi irrealizzabile dal momento che il carcere di Palmira è stato distrutto da militanti del sedicente Stato islamico nel maggio 2015.
Nel secondo articolo, ʿAn al-ḥayāh wa ’l-zaman fī ’l-siǧn (La vita e il tempo in carcere), il ricordo dell’autore si sofferma sulla quotidianità della vita carceraria. Per sopravvivere a una detenzione di cui si ignora del tutto la durata, bisogna tenere a mente una regola d’oro: «Concepisci il carcere come se dovessi starci per sempre, e la libertà come se dovessi essere rilasciato domani» [p. 35]. È sulla base di questa logica che i carcerati si sforzano di dare un senso nuovo al tempo, quantomeno laddove ciò sia possibile, certamente non nel carcere di Palmira. Come scrive l’autore, si tratta di «domare il carcere» [p. 30] come se fosse una bestia. E il modo migliore per farlo è il ricorso ai libri, alle penne e agli altri strumenti di formazione. D’altra parte, è necessario anche «domare se stessi per il carcere» [p. 31]. Quest’ultimo infatti sottrae all’individuo ogni possibilità di privacy, cosicché ogni aspetto della sua persona è di pubblico dominio, per quanto egli possa tentare di nasconderlo. In tal modo, l’individuo si trova nudo, senza la possibilità di offrire all’altro l’aspetto che preferisce di sé. Da qui nasce, però, la possibilità di costruire una personalità interiore priva di ogni sovrastruttura imposta da ideologie esterne, una personalità veramente libera nonostante fisicamente in catene.
Il lungo scritto successivo, intitolato Wuǧūh al-sanawāt wa ’l-amkinah (I volti degli anni e dei luoghi) e che raccoglie testi prodotti tra il 2009 e il 2011, appare come una rappresentazione del percorso di formazione di questa nuova personalità, attraverso un resoconto dettagliato di alcuni episodi vissuti dall’autore nelle diverse carceri da lui attraversate. Lo spazio maggiore è dedicato al carcere di al-Musallamiyyah (Aleppo), dove Yāsīn al-Ḥāǧǧ Ṣāliḥ ha trascorso oltre undici anni. L’autore descrive la composizione del gruppo dei detenuti, la loro identità politico-ideologica, le iniziative di gestione comune dei risparmi, le lotte per l’acquisizione di piccoli diritti, i conflitti ideologici tra le fazioni presenti, il rapporto con i carcerieri, il processo di acculturazione attraverso la lettura di libri che pian piano facevano il loro ingresso nel carcere. La conformazione della prigione di ʿAdrā (Damasco), che assicurava spazi maggiori a ciascun detenuto e una maggior distanza con i detenuti delle altre celle, non permetteva che si verificassero le stesse dinamiche. Ancor meno, ma per diverse ragioni, ciò era possibile a Palmira, dove vigevano tutt’altre regole di comportamento.
Il quarto e quinto scritto rappresentano la fase di transizione incarnata dagli anni immediatamente successivi al rilascio, quando il legame con il ricordo della prigione è estremamente forte e controverso. Il primo testo propone un’interessante intervista, dal titolo Fī ’l-siǧn taḥarrartu, fī ’l-siǧn kānat ṯawratī! (In carcere mi sono liberato, in carcere ho trovato la mia rivoluzione!), rilasciata nel 2009 dall’autore a Razān Zaytūnah, avvocatessa e attivista siriana per i diritti umani, scomparsa dal dicembre 2013. Le domande dell’intervistatrice portano alla luce l’influenza che l’esperienza del carcere ha avuto sulla maturazione personale e sulle scelte politiche e ideologiche prese dopo il rilascio. Torna l’importanza della formazione durante la prigionia ed emergono più chiaramente le ragioni del progressivo distacco dell’autore da ogni appartenenza ideologica e partitica monolitica e priva di dialettica interna. Solo grazie a questo distacco, «dalle prigioni dell’ideologia, del partito e del sé» [p. 113], è possibile scrivere dell’esperienza del carcere, senza cadere vittima della sua celebrazione eroica, mettendola inevitabilmente al servizio di fattori ideologici esterni.
Rimanendo nell’orbita del ricordo del carcere da parte dell’ex-detenuto, il quinto scritto, Ḥanīn ilà ’l-siǧn (Nostalgia per il carcere), tocca il controverso sentimento di nostalgia che lo lega a quel periodo apparentemente oscuro della sua esistenza. L’autore precisa che è un sentimento che ricorre in chi come lui è riuscito a salvarsi da quell’esperienza senza esserne totalmente o parzialmente annientato, come nel caso non raro di chi si è trovato in condizioni ben peggiori. Nel dare una spiegazione a tale atteggiamento nostalgico, Yāsīn al-Ḥāǧǧ Ṣāliḥ propone due punti di vista. Il primo vede nel carcere una sorta di «rito di iniziazione»: se si riesce a superare, il detenuto ha la possibilità di rinascere a nuova vita. Il secondo è legato a quanto detto in merito al carattere formativo della prigione. La lettura di libri e l’esercizio del pensiero in maniera paradossalmente più libera che all’esterno rendono il carcere un luogo quasi desiderabile dopo il ritorno alla libertà fisica.
Il sesto, settimo e ottavo scritto aprono una finestra sulla condizione degli ex-detenuti siriani. Il sesto,ʿAwālim al-muʿtaqalīn al-siyāsiyyīn al-sābiqīn fī Sūriyyah (I mondi degli ex-detenuti politici in Siria), del 2006, ha un carattere più storico-documentario, rispetto al resto dei testi della raccolta, anche se pur sempre ancorato all’esperienza personale e senza alcuna pretesa scientifica. Dopo una panoramica storica sulle principali ondate di arresti nella storia siriana recente e un breve excursus sul consueto iter dall’arresto al rilascio, il saggio propone una classificazione degli ex-detenuti sulla base di cinque criteri: 1) la partecipazione alla vita pubblica; 2) i rapporti con la famiglia; 3) i rapporti con l’altro sesso; 4) il lavoro; 5) il rapporto con se stessi. Come corollario a questa sorta di categorizzazione teorica, l’autore fornisce dei profili di ex-detenuti con cui è entrato in contatto, ognuno rappresentativo di una delle quattro principali forze partitiche finite in carcere (Fratelli Musulmani, Partito Comunista – Ufficio Politico, Partito Comunista del Lavoro, Partito Baʿṯ iracheno). Il saggio si chiude con delle considerazioni sui nuovi ex-detenuti degli anni 2000 e con un accenno a un’iniziativa volta a risvegliare le coscienze su questa fetta importante della società siriana.
Il settimo scritto, ʿAn «muṯaqqafī al-siǧn» bi ’l-aḥrà, lā ʿan siǧn al-muṯaqqafīn (Gli «intellettuali del carcere», piuttosto che il carcere degli intellettuali), riprende la questione culturale legata al mondo del carcere. La tesi di fondo è che, contrariamente a quanto normalmente succede, nel caso siriano la cultura non precede il carcere, ma ne consegue. In altre parole, gli individui non vengono arrestati in qualità di intellettuali, ma lo divengono grazie e attraverso l’esperienza di prigionia: «giovani sconosciuti sono rinchiusi in carcere per lungo tempo, e ne escono fuori traduttori, scrittori o letterati» [p. 187].
L’ottavo scritto, intitolato al-Muʿtaqal al-yasārī al-sābiq ka-burǧwāzī (L’ex-detenuto di sinistra è come un borghese), prosegue nella descrizione della figura dell’ex-carcerato, concentrandosi specificamente su quella dell’esponente di sinistra, in cui si identifica l’autore stesso. Quasi in contraddizione con la loro ideologia di appartenenza, questi esponenti vengono visti come dei nuovi borghesi, non certo per le loro entrate, che rimangono sempre su una soglia mediamente bassa, ma perché rappresentano una sorta di «capitale simbolico» [p. 196], fondato su un’esperienza di detenzione «onorevole» [p. 198], una base di conoscenze ragionevole e un interesse per la vita pubblica del paese. Questa condizione ha fatto elevare intellettuali e attivisti di sinistra da un livello sociale abbastanza modesto alla classe media, la borghesia appunto, il loro nemico dichiarato. E, ironia della sorte, è stata proprio la loro aderenza a ideali di sinistra a rendere possibile questa ascesa.
L’intervista posta in chiusura alla raccolta, intitolata al-Ḥabs wa ’l-istiḥbās (La detenzione e l’abitudine alla detenzione) e rilasciata nell’agosto del 2011 allo scrittore Muḥammad al-Ḥuǧayrī funge, come accennato, da conclusione in quanto riassume alcune delle importanti questioni affrontate nell’opera e ribadisce la necessità di ulteriori scritti che indaghino il mondo delle carceri siriane, attraverso gli occhi di chi ne ha vissuto la tragicità e soprattutto ricollocando il carcere all’interno di una sfera meno mitica, ma spazialmente e temporalmente identificabile.
Come afferma l’autore stesso nell’introduzione, quest’opera non è facilmente riconducibile a un genere ben preciso. Non rientra del tutto all’interno della letteratura carceraria, per la presenza di testi non squisitamente letterari. Non è esclusivamente autobiografica. Né d’altra parte può essere considerata un saggio sociologico o politico solo per la diffusa presenza di alcuni elementi propri di questi ambiti. Il fatto che si tratti di una raccolta di articoli eterogenei per tipologia, indipendenti l’uno dall’altro e redatti in un arco di tempo relativamente lungo certo contribuisce a renderne difficile la categorizzazione, e nel contempo causa anche inevitabili ripetizioni di immagini e considerazioni.
Pur tuttavia, è ben evidente il filo conduttore che lega insieme questi testi. Non tanto l’esperienza del carcere in sé, quanto piuttosto il carcere visto come «questione culturale» [p. 9]. Nelle intenzioni dichiarate dall’autore, infatti, quest’opera vuole essere un tentativo di rimuovere l’aura mitica che circonda il carcere e, soprattutto, il detenuto politico. E in effetti la rappresentazione che ne fa sembra riprodurre le dinamiche di una vita quasi “normale”, dove non c’è posto per le figure tradizionalmente concepite come eroiche dalla letteratura. I protagonisti, lui compreso, sono uomini e donne che hanno cercato di «addomesticare la bestia», hanno dato un senso a quella  lunga parte della loro vita, altrimenti avvicinata con terrore. Quello che ne risulta sembra quasi una guida o un manuale di comportamento per esorcizzare una rappresentazione fallace dell’esperienza carceraria. Non nasconde nulla della sua tragicità, ma fornisce gli strumenti per comprenderla e razionalizzarla.
È una rappresentazione diversa da quella fatta da Muṣṭafà Ḫalīfah nel suo al-Qawqaʿah. Yawmiyyāt mutalaṣṣiṣ dove ai toni quasi confortanti di Bi ’l-ḫalāṣ yā šabāb! 16 ʿāman fī ’l-suǧūn al-sūriyyah si contrappone l’eloquente brutalità del carcere di Palmira. Ma è nello stesso tempo in sintonia con essa, perché fondandosi su un’esperienza vissuta consente una lettura più aderente alla realtà, cosa più che mai urgente in anni in cui il fenomeno della detenzione per motivi politici in Siria è riemerso in tutta la sua gravità a seguito della nuova repressione.

Arturo Monaco

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VI, Numero 12, dicembre 2016

Shop online Back to Anno VI, Numero 12, dicembre 2016

L’Autore

Arturo Monaco | Dottore di ricerca in Civiltà, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa, presso il Dipartimento Istituto Italiano di Studi Orientali – ISO, Sapienza Università di Roma.