Tarek El-Ariss, Trials of Arab Modernity: Literary Affects and the New Political, Fordham University Press, New York 2013, pp. xiv + 233.

Trials of Arab Modernity: Literary Affects and the New Political, saggio di Tarek El-Ariss pubblicato da pochi mesi, rivela una certa ambizione già dal titolo e promette al tempo stesso nuove prospettive su uno degli argomenti tuttora più dibattuti e controversi della letteratura e della cultura arabe.
Uno dei principali spunti alla rilettura della modernità proposta in questa monografia è fornito dalla concezione di “evento” formulata da Deleuze e Guattari, secondo i quali esso è un momento nel fluire cronologico che permette al tempo di prendere una direzione diversa. Seguendo questa intuizione El-Ariss si discosta, infatti, da concezioni che vedono alla base semantica di ḥadāṯāh il termine iḥdāṯ, rinnovamento, ma riconfigura la modernità araba – ḥadāṯāh – come una condizione somatica, che prende forma attraverso eventi – aḥdāṯ –, siano essi accidentali o reazioni, che hanno luogo tra l’Europa e il mondo arabo [p. 3].
La prospettiva di ricerca dello studioso statunitense si pone in dialogo critico con l’esistente produzione accademica sul tema della modernità araba, nella fattispecie mettendo in questione la validità epistemologica dell’associazione tra quest’ultima e il secolarismo e l’umanismo, in opposizione alla tradizione e alla cultura islamica. L’autore sostiene che la modernità araba, analizzata in termini di mera rappresentazione, si troverebbe confinata a forma di espressione di un periodo storico-cronologico e di movimenti politici e sociali specifici. In tal modo, questa la critica suggerita da El-Ariss, il testo letterario arabo si troverebbe relegato al ruolo di sito di resistenza a o dispiegamento dei modelli culturali occidentali, la modernità araba verrebbe interpretata come una narrativa di complicità con un Occidente egemonico [p. 10].
Trials of Arab Modernity è un saggio fortemente improntato all’interdisciplinarietà, che pone lo studio della letteratura araba moderna e contemporanea in dialogo con post-strutturalismo, decostruzionismo e psicoanalisi. La chiave di volta delle analisi testuali e letterarie proposte in questo volume è la centralità che rivestono gli affetti corporei nelle pratiche sociali e culturali; in questo senso, El-Ariss riprende una linea teorica che passa per Spinoza, Bergson, Deleuze, fino ad arrivare a studiosi più recenti. Alla base dello studio si trova una concezione del corpo mutuata dalle teorie sulla performatività di Eve Sedgwick e Judith Butler, secondo le quali la frontiera tra verbale e non verbale, tra fenomeni linguistici e non linguistici è porosa e in costante movimento. Nella prospettiva d’indagine proposta da El-Ariss, quindi, il corpo letterario si svincola da letture allegoriche e metonimiche, che lo riducono a mero contenitore di concetti concepiti al di fuori di esso, ma diventa generatore attivo di significati: «the bodily, the physical, and movement itself are sites of transformation and new meaning» [p. 7]. Con tale premessa, l’esplorazione del progetto culturale della modernità nella letteratura araba sfugge le opposizioni tra razionale e irrazionale, tra rappresentazione e materiale [p. 6], configurandosi, invece, come un’attività di scoperta di quanto nel testo è nascosto o distorto, interrogando «traces in language, intertextuality, omitted connections and suppressed narratives and experiences» [p. 11]. Si apre così una diversa prospettiva dalla quale contemplare l’incontro arabo con l’Europa e la modernità, attraverso, cioè, istanze di rottura e di collasso.
Questo lavoro monografico copre un arco temporale particolarmente vasto, proponendo comparazioni che si spingono fino alla letteratura abbaside; tuttavia, più che fornire una panoramica dell’intera produzione letteraria araba moderna e contemporanea, si limita a offrire una close reading di specifici testi in cui viene «messo in atto» l’incontro con la modernità. Lo sguardo spazia, infatti, dai resoconti di viaggio di due dei primi pionieri della Nahḍah, al-Ṭahṭāwī e al-Šidyāq, fino alla produzione, altamente sperimentale, dei giovani scrittori egiziani appartenenti alla generazione nota come Ǧīl al-tisʻīnāt (La generazione degli anni Novanta); tra questi due estremi, sono affrontati testi significativi della letteratura postcoloniale e romanzi recenti in cui il tema dell’omosessualità è trattato con particolare rilievo.
Il primo di questi incontri, al quale è dedicato il secondo capitolo (Fantasy of the Imam), è il celebre resoconto di viaggio di Rifāʻah Rāfiʻ al-Ṭahṭāwī, Taḫlīṣ al-ibrīz fī talḫīṣ Bārīs (Dall’oro raffinato a Parigi in condensato, 1834). L’attenzione, qui, è posta sugli elementi letterari e poetici disseminati nell’opera, cui la produzione accademica avrebbe finora dato poca importanza; l’autore del saggio sostiene, infatti, che questi non siano semplici elementi ornamentali rispondenti alle consuetudini estetiche dell’epoca, quindi superflui, ma che vadano letti come «the unconscious of the Nahda narrative» [p. 50], rivelatori, dunque, di come al-Ṭahṭāwī dia corpo alla sua esperienza della modernità. A tal riguardo, El-Ariss riprende le osservazioni di Walter Benjamin sulla poetica di Baudelaire, secondo le quali l’esperienza traumatica sarebbe alla base della poesia moderna. Un parallelismo con il poeta francese consente di inquadrare le modalità in cui lo shock generato dall’incontro con la modernità/Occidente è inscenato in questi frammenti poetici e narrativi: in definitiva, questi ultimi intervengono a negoziare i significati e le implicazioni connesse ai processi di modernizzazione che al-Ṭahṭāwī e i suoi contemporanei stavano vivendo.
Tra le strategie letterarie che permettono al rāʼid egiziano sia di rappresentare, che di patire/assorbire, lo shock culturale, trova un ruolo significativo il ricorso al madḥ, il panegirico, nei confronti di Muḥammad ‘Alī. Lo studioso statunitense legge questa forma tradizionale di poesia sotto una nuova luce: essa consentirebbe al giovane ʻālim di inscrivere le ansietà connesse alla propria missione all’interno del desiderio di modernità del khedivé riformatore. Il ricorso a tale genere letterario è interpretato così nel quadro delle mutate condizioni di sponsorizzazione, produzione e circolazione della letteratura agli inizi della Nahḍah. In questo modo, inoltre, l’autore stende una linea di connessione che travalica i limiti del genere della riḥlah e risale fino alla poesia abbaside del IX secolo.
Il terzo capitolo (Aversion to Civilization) sposta l’attenzione sulla questione della civilizzazione nel pensiero arabo della Nahḍah, nella fattispecie leggendo il diario di viaggio di Aḥmad Fāris al-Šidyāq, Kašf al-muḫabbaʼ ʻan funūn Ūrūbbā, pubblicato nel 1863, che riprende alcune delle tematiche principali già espresse nel più celebre al-Sāq ʻalà al-sāq fī mā huwa al-Fāriyāq. Nell’opera qui analizzata, secondo El-Ariss, il rāʼid di origine libanese espone una dura critica alla concezione di civilizzazione derivata dal pensiero europeo. Il fulcro di tale critica è appunto il corpo dell’intellettuale arabo in viaggio nel Vecchio continente, rappresentato negli atti di ingerire ed espellere, incorporare e rigettare tanto il cibo che i modelli ideologici europei. Attraverso descrizioni di luoghi insalubri e cibi scadenti o marci, indigestioni e svenimenti, al-Šidyāq svela la civiltà occidentale moderna in quanto fenomeno di decadenza e di violenza nei confronti del corpo, che diventa sia il luogo che oggetto di questo kašf. L’opera di al-Šidyāq intesse simmetrie tra il corpo e il testo, tra il materiale e l’ideologico, scoprendosi così capace di criticare le narrative dominanti che hanno imposto una modernità di matrice esclusivamente europea; ma ciò non avviene facendo leva sulla rivalutazione della tradizione arabo-islamica, bensì muovendo in un’altra direzione, ovvero smantellando le opposizioni binarie (Oriente tradizionale/Occidente moderno) su cui questa imposizione ha tratto giustificazione e fondamento.
Un’analisi particolarmente interessante di Mawsim al-hiǧrah ilà al-šamāl (1968) di al-Ṭayyib Ṣāliḥ forma il quarto capitolo (Staging the Colonial Encounter). Qui, infatti, El-Ariss complica e decostruisce la lettura che gli studi post-coloniali e di letteratura araba offrono del capolavoro sudanese come testo cardine della letteratura postcoloniale, secondo la quale l’esperienza di Muṣṭafà Saʻīd rifletterebbe, sebbene in maniera instabile e generatrice di ansietà, la violenza dell’incontro coloniale, incardinandolo sulle rigide opposizioni tra Est e Ovest (Sudan e Regno Unito). Diversamente, sostiene lo studioso attingendo a teorie e letture psicoanalitiche, questo incontro si configura come perdita, come incapacità di risalire all’origine del trauma. In quest’ottica, al centro del testo viene posta la funzione del narratore in quanto focalizzatore: se egli è infatti colui che interpreta e consegna al lettore la storia di Muṣṭafà, lo fa riconoscendone gli “affetti” e riconducendoli al trauma coloniale. L’incontro con la modernità postcoloniale trae origine dagli “eventi”, cioè le posture, i sintomi di Muṣṭafà Saʻīd, nel momento in cui vengono letti, interpretati e criticati dal narratore/lettore. La modernità si trasforma così in narrativa, diventa testo in un’accezione più complessa, lettura ed esperienza di affetti evanescenti, ambivalenti. Tali esperienze e letture sono capaci, in virtù di questa instabilità, di dimostrare che i testi arabi ed Europei non sono gli uni opposti all’altri, ma dialogano tra di loro attraverso multipli contesi letterari e culturali [p. 111]; in ultima istanza, dunque, mettono in discussione gli assunti su razza e violenza coloniale, e allo stesso tempo scardinano i modelli che fissano, circoscrivono e stabilizzano l’esperienza della modernità in paradigmi oppositivi.
Un’altra tematica strettamente connessa alla modernità araba e alle modalità nelle quali la letteratura le conferisce forma narrativa è l’omosessualità; tale assunto ha ricevuto una cospicua e rigorosa attenzione accademica solo in tempi piuttosto recenti, per quanto riguarda il mondo arabo islamico ma non solo. Si inserisce appieno in questo ambito di studio il quinto capitolo (Majnun Stikes Back), che si propone di analizzare come l’identità omosessuale, qui definita con il più flessibile e comprensivo termine di queer identity, sia rappresentata nella narrativa contemporanea attraverso i prismi della follia, della ribellione e della teatralità. Innahā Lūndūn yā ʻazīzī (Così è Londra, caro mio), di Ḥanān al-Šayḫ, e Luṣūṣ mutaqāʻidūn (Ladri in pensione), di Ḥamdī Abū Ǧulayyil, sono posti in dialogo critico con le teorie di Foucault che vedono nell’identità omosessuale una creazione della modernità occidentale. I personaggi omosessuali di questi due romanzi riconfigurano performativamente la figura del folle – richiamando il Maǧnūn dell’epica udhrita e, al contempo, immagini di effeminato, comunemente etichettato in arabo come maǧnūnah –, facendone un ribelle omosessuale e un focoso amante, che scardina le norme sociali e le strutture di violenza [p. 116].
Nell’analisi di El-Ariss, le performance sovversive cui questi personaggi danno vita, colte attraverso le loro posture corporee, patimenti e articolazioni del desiderio, denunciano la connivenza tra potere statale e strutture patriarcali tradizionali, impegnate a mettere i ceppi a qualsiasi articolazione del desiderio queer [p. 142]. È così minata alla base la validità della dialettica epistemologica che vede la versione araba tradizionale dell’omosessualità in netta opposizione alla sua concezione moderna. Il ricercatore fa qui riferimento alla contrapposizione tra ars amandi orientale e scientia sexualis occidentale, esplicitata nella nota formulazione di Michael Foucault. Non più inquadrato nella critica alla modernità europea e alle pratiche discorsive dell’Occidente, il dibattito sull’identità queer araba e i suoi prodotti culturali e letterari si carica di altre possibilità, che svelano l’articolarsi complesso tra forme di autorità, ideologia e contesti culturali e letterari.
An takūna ʻAbbās al-ʻAbd (2003), dell’egiziano Aḥmad al-ʻĀyīdī, è l’ultimo testo del quale questo saggio, nel quinto capitolo (Hacking the Modern), offre un’analisi. Qui, la discussione affronta le forme di scrittura altamente sperimentali e dissacranti fiorite in Egitto e in altri paesi arabi a partire dagli anni ’90, e che negli ultimi hanno cominciato ad attirare una sempre crescente attenzione da parte di critici e accademici. Si tratta di nuovi testi i quali, carichi di «affetti e discontinuità» [p. 146], esprimono sentimenti di rabbia e frustrazione e che El-Ariss mette in collegamento diretto con gli eventi politici noti come “Primavera araba”, i quali dal 2010 hanno ridisegnato profondamente il panorama culturale e politico di numerosi Stati arabi. In un simile contesto, lo sperimentalismo nella scrittura assume un ruolo fondamentale, come osserva El-Ariss nei riguardi del romanzo di al-ʻĀyīdī, nel quale «affects are no longer inscribed in the body of the disoriented Arab traveler in Europe, but rather conditions the text’s production, language and mechanics» [p. 147].
L’attenzione per gli affetti letterari diventa qui una chiave per liberare lo sguardo critico sulla letteratura araba contemporanea dai limiti di un paradigma interpretativo imperniato su dinamiche di prestito e assimilazione di modelli di origine occidentale [p. 150]. In questo modo diventa possibile stendere un trait d’union tra l’indefinibilità di Tilka al-rāʼiḥah di Ṣunʻallāh Ibrāhīm e l’attitudine ribelle nei confronti dell’establishment intellettuale, del canone e dei generi letterari dimostrata dal testo di al-ʻĀyīdī. Infatti, grazie a un profondo lavoro di ridefinizione dei generi letterari, sfumando le linee di separazione tra virtuale e materiale, letterario e non letterario [p. 156], il pericolo, dubbio e claustrofobia provati da Yusūf Idrīs alla lettura dell’opera simbolo del Ǧīl al-sittīnāt(La generazione degli anni Sessanta); assumono in An takūna ʻAbbās al-ʻAbd una portata ancora più dirompente. Qua il lettore è chiamato prepotentemente in causa, interpellato in quanto soggetto di un’esperienza immediata, inscritta nel corpo ed espressa attraverso sensazioni di rabbia, frustrazione, e l’incitamento al sabotaggio [p. 157]. L’accademico statunitense suggerisce, quindi, che l’hacking a cui fa riferimento al-ʻĀyīdī nel suo romanzo d’esordio debba essere considerato progetto estetico e di azione politica insieme. L’interpretazione proposta, in definitiva, intende riconoscere a queste nuove scritture tutto il proprio dinamismo e potenziale di resistenza e cambiamento.
In conclusione, si può affermare che Trials of Arab Modernity mantiene la promessa, esplicitata nell’introduzione: «[to question] the Eurocentric framework that treats Arab modernity as a borrowing from the West, or as a process that started in the Arab-Islamic word independently from Europe» [p. 13].
Questa breve ma arguta e ben argomentata monografia, infatti, rivela come la modernità araba, letteraria, intellettuale, sociale e politica, prenda forma attraverso un continuo confrontarsi con essa, attraverso, cioè, una serie di prove, processi – trials, in inglese – che non giungono mai a qualcosa di fisso, di stabile, e che originano dalle multiple esperienze di ansietà, disorientamento, confusione e fascinazione.
L’analisi condotta da El-Ariss fa luce, sia in testi classici sia in recentissimi esperimenti, su aspetti e luoghi significativi precedentemente trascurati o sottovalutati dalla ricerca letteraria, generando così nuove letture critiche, capaci di liberarsi da griglie precostituite e di contestare visioni condizionate da costrutti di natura ideologica. Nonostante appaia più preoccupato di segnalare i punti di rottura epistemologica con le tradizionali prospettive di analisi, Trials of Arab Modernity s’inserisce di diritto all’interno delle più recenti tendenze nel campo dello studio della cultura e letteratura araba, le quali stanno mettendo in discussione assiomi e la coerenza di classificazioni e periodizzazioni fino a poco fa ritenuti fondanti.
In una simile direzione, lo sguardo sulla produzione letteraria volto a cogliere posture, gesti e affetti letterari nella loro interazione dinamica attraverso generi e periodi, si scopre capace di mettere in comunicazione prospettive d’indagine critica che, diversamente, apparirebbero irriconciliabilmente distanti tra loro. Così, il ridimensionamento del ruolo di una monolitica tradizione arabo-islamica, contrapposta a un’altrettanto immutabile civilizzazione europea, si ricollega alla necessità di comprendere le recenti dimensioni sociali e politiche, soprattutto nelle loro ricche e complesse articolazioni testuali.
Quella di affrontare loci classici di una disciplina da prospettive eccentriche – sia nel senso di geometrico, sia di non canonicità del termine – è indubbiamente un’operazione pericolosa, che incorre nel rischio di confinarsi nell’applicazione di un approccio specialistico, limitante, del quale la comunità accademica può prendere, sì, atto, ma lasciandolo appannaggio di un ristretto numero di specialisti. Ritengo che le possibilità di un simile lavoro di eludere tale empasse risieda nella sua capacità di rispondere a sfide teoriche, metodologiche e culturali di ampia portata, più semplicemente, di seminare. Trials of Arab Modernity conferma di avere queste potenzialità. Da un lato, infatti, questo saggio risponde a questioni riaperte di recente sulla validità degli approcci di studio tradizionali sulla naḥdah, e sulla pertinenza di classificazioni periodiche e generiche; dall’altro lato sembra voler suggerire, senza esplicitarlo, un ruolo più incisivo – volendo, finanche creativo – per la critica letteraria, capace, in ultima istanza, di rispondere alle sfide poste dalle scritture più recenti.

Alessandro Buontempo

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno III, numero 5, giugno 2013

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Alessandro Buontempo |