Taha Huseyn, La poesia araba preislamica (Fī l-šiʿr al-ǧāhilī)

in La rivista di Arablit, a. XI, n. 21-22, giugno-dicembre 2021, pp. 124-127.

Probabilmente sono assai pochi gli studiosi, ma forse anche gli studenti o gli appassionati, della civiltà arabo-islamica nelle sue varie declinazioni linguistiche, culturali e storiche che non si siano prima o poi imbattuti nella vicenda che costrinse il celebre intellettuale Ṭāhā Ḥusayn a difendersi davanti ai tribunali egiziani dall’accusa di blasfemia. A finire sotto processo furono alcuni stralci dell’opera integralmente tradotta in italiano da Paola Viviani e recentemente pubblicata dall’Istituto per l’Oriente C. A. Nallino in coedizione con la General Egyptian Book Organization del Cairo, Fī ’l-šiʿr al-ǧāhilī (La poesia preislamica), nei quali, durante il tentativo solo apparentemente innocuo di Ḥusayn di dimostrare l’inautenticità di buona parte della poesia preislamica, gli accusatori videro un oltraggio alla religione.
Se la notorietà della tesi principale dell’opera è innegabile, forse meno conosciuti ne sono i contenuti precipui. La prima parte del saggio potrebbe essere ben riassunta da una delle dichiarazioni iniziali dell’autore: «ho nutrito e ancora nutro dubbi sul valore della poesia preislamica» [p. 66]. Subito dopo, Ṭāhā Ḥusayn si dice certo che la maggior parte di quanto si è soliti chiamare “poesia preislamica” non sia in realtà tale, non appartenga cioè all’epoca precedente all’avvento dell’Islam, la Ǧāhiliyyah, bensì sia un falso creato ad arte più tardi, nei primi due o tre secoli successivi alla rivelazione coranica. Sarebbe dunque un’altra la fonte primaria, sulla quale non c’è modo di dubitare, per lo studio della poesia precedente all’avvento dell’Islam e della società che le dava voce: il Corano, «il riflesso più veritiero della poesia preislamica» [p. 74]; è in esso che si rappresenta, ad esempio, la vivace e variegata vita religiosa dell’Arabia preislamica, non nella poesia attribuita alla Ǧāhiliyyah, dove sorprendentemente non vi è alcuna traccia di pratiche o sentimenti legati alla sfera spirituale. Secondo Ṭāhā Ḥusayn, anche l’uniformità linguistica tra le odi più rappresentative dell’età preislamica, le muʿallaqāt, i cui autori appartengono a tribù adnanite diverse, si scontrerebbe con la diversità dialettale che invece distingueva quelle tribù, così come, sempre secondo l’autore, avrebbe dimostrato in seguito la moderna scienza e come del resto è stato trasmesso dagli antichi filologi e grammatici arabi.
Nella seconda parte dell’opera, si passa in esame la vasta pletora dei possibili contraffattori e dei loro presunti mandanti: uomini politici e di potere, teologi, grammatici, trasmettitori, narratori, arabi beduini, esegeti, tradizionisti e genealogisti, nonché i diversi moventi all’origine delle invenzioni poetiche. Lo zelo tribale e la competizione tra fazioni (inizialmente tra tribù meridionali, yemenite, e dell’Arabia centrale, muḍarite; in seguito tra il lignaggio omayyade e quello hashemita; o ancora, tra gli Arabi e i mawālī, che con ogni mezzo vantavano la superiorità dell’antica civiltà persiana su quella araba beduina) sono alla base dei falsi poetici di ispirazione politica, prodotti dalle rispettive parti nel tentativo di nobilitare la propria storia e consolidare nel presente l’autorevolezza della propria leadership. Vi sono, naturalmente, anche motivazioni religiose a spingere alle false creazioni: nel tentativo di provare la veridicità della missione profetica di Muḥammad ex ante, molti versi sono stati attribuiti a poeti monoteisti, ḥanīf, vissuti molti anni prima del Profeta, i quali avrebbero preconizzato l’arrivo del suo messaggio; ancora, con l’intento di interpretare alcune narrazioni coraniche o di decifrare secondo l’accezione desiderata il lessico del Libro Sacro, venivano falsificati versi o interi poemi, ad esempio la gran parte di quelli attribuiti a Umayyah b. Abī ’l-Ṣalt. L’avidità di versi portatori di un’aura di antichità, da inserire nelle loro storie al fine di abbellirle o per compiacere le smanie di nobilitazione genealogica di qualche potente, ha indotto anche i narratori di qiṣaṣ a fabbricazioni poetiche posteriori.
La terza e ultima parte dell’opera contiene una disamina intesa a dimostrare il carattere spurio della quasi totalità dei versi attribuiti ad alcuni poeti della Ǧāhiliyyah: dai più celebri come Imruʾ al-Qays (nella cui figura leggendaria si individua in controluce la reale biografia di un altro eroe di stirpe kindita, ʿAbd al-Raḥmān b. Muḥammad b. Ašʿaṯ, inviso agli Omayyadi), ʿAmr b. Kulṯūm e Ṭarafah, ad altri meno spesso citati come ʿAmr b. Qamī‘ah e Muhalhil.
Tra i meriti del corposo saggio di Viviani (Ṭāhā Ḥusayn e la poesia preislamica: una vexata quæstio [pp. 1-54]) che introduce la traduzione dell’opera, vi è quello di analizzare e ricostruire con cura la vicenda giudiziaria che coinvolse Ṭāhā Ḥusayn a partire dalle fonti primarie, dalle carte processuali in sostanza, riuscendo così a fornire un resoconto di interesse storico e letterario allo stesso tempo. Dagli atti si evince che le accuse rivolte all’intellettuale sono circostanziate e non provengono solamente dai conservatori ambienti azhariti, ma anche da colleghi di Ṭāhā Ḥusayn, critici e letterati, e da membri del Parlamento; riguardano nello specifico quattro affermazioni sostenute dall’autore nel corso dell’esposizione delle sue tesi e tacciate di vilipendio alla religione: la presunta infondatezza della tradizione secondo cui Ismaele, figlio di Abramo, si sarebbe stabilito a La Mecca (l’accusa considerata più grave poiché, oltre a minare il legame storico e religioso esistente tra arabi musulmani ed ebrei e tra i rispettivi libri sacri, di questi libri metteva in discussione il valore storico); lo scetticismo intorno all’ispirazione divina all’origine delle sette diverse letture canoniche del Corano; il dubbio avanzato sull’ascendenza dei Qurayš, dunque sulla stirpe del Profeta Muḥammad; la mendacità dei versi “premonitori” di età preislamica inerenti all’avvento della profezia di Muḥammad.
Dall’attenta disamina degli atti condotta dalla studiosa, tra tutti il Taqrīr al-niyābah, il rapporto della pubblica accusa, emerge un dato in particolare, vale a dire l’approccio eminentemente scientifico, positivo e persino “filologico” del magistrato incaricato, Muḥammad Nūr, che porta a conclusioni «eque e imparziali, se non “illuminate”, e mosse da un inconfondibile e radicato senso critico» [p. 5]. Nel Taqrīr, infatti, il procuratore muove a Ṭāhā Ḥusayn delle critiche sul piano testuale (annota, ad esempio, l’infondatezza del disconoscimento della koiné linguistica nella poesia preislamica, critica mossa del resto dalla maggioranza degli studiosi; la mancanza di analisi e comparazione linguistica delle poesie considerate non autentiche; o ancora, la debole contestualizzazione storica dei brani proposti, o addirittura si corregge una citazione di Abū ʿAmr b. ʿAlāʾ, centrale nella dimostrazione delle tesi di Ṭāhā Ḥusayn), mentre “assolve” l’autore sul piano morale e delle intenzioni: Nūr pare sostanzialmente essere scientificamente più accurato dell’imputato. La vicenda giudiziaria non portò, del resto, ad alcuna condanna, né la carriera universitaria di Ṭāhā Ḥusayn subì delle serie conseguenze, benché egli si sentì in qualche modo costretto a dar prova di un certo ravvedimento pubblicando l’anno successivo una versione lievemente rimaneggiata dell’opera col titolo Fī ’l-adab al-ǧāhilī (La letteratura preislamica).
È certo nota e diffusa la caratterizzazione della figura intellettuale di Ṭāhā Ḥusayn quale libero pensatore, che intende applicare anche alla critica letteraria un metodo scientifico, cartesiano, per la ricerca della verità delle cose, ma forse proprio la vasta risonanza che Fī ’l-šiʿr al-ǧāhilī ha avuto, a causa della vicenda giudiziaria, ha in qualche modo oscurato il valore intrinseco dell’opera, al di là della correttezza o meno delle tesi di fondo, vale a dire l’intenzione “ideologica”, quasi iconoclasta, di volere e poter dubitare di qualsiasi cosa, liberandosi da ogni conoscenza o giudizio pregressi. Da apprezzare è dunque il metodo della ricerca, più che la validità dei contenuti, soprattutto in contrapposizione all’atteggiamento di fideistica aderenza alla tradizione che caratterizzava la grande maggioranza degli ambienti accademici nell’Egitto dell’epoca. La pubblicazione del saggio nel 1926, come già ricordato, fu esplosiva e diffuse la sua eco ben al di fuori del mondo arabo; potrebbe apparire quanto meno singolare come un testo di tale portata, con il quale si è dovuto confrontare (per avallarne o, molto più spesso, per respingerne le tesi) chiunque si sia interessato di letteratura araba, poiché di quella storia letteraria e linguistica problematizza le radici, non fosse mai stato tradotto integralmente in una lingua occidentale.
Meritevole d’attenzione è anche lo sforzo, nient’affatto esiguo, profuso dalla traduttrice per la resa dei numerosi brani di antica (se non preislamica) poesia che Ṭāhā Ḥusayn riporta e analizza per corroborare le proprie tesi: se alcuni stralci erano già stati egregiamente tradotti da Francesco Gabrieli e da Daniela Amaldi, la leggibilità e l’accuratezza delle versioni italiane di Viviani potranno essere uno strumento prezioso, anche nell’ambito della didattica della letteratura, per chi voglia interessarsi ai primordi della poesia degli arabi. Sotto quest’aspetto, a facilitare ulteriori approfondimenti potranno contribuire inoltre i precisi rimandi bibliografici che accompagnano i versi tradotti e le notizie a margine della moltitudine dei personaggi letterari e storici citati nel testo; molto utili alla consultazione risultano infine i due indici dei nomi e dei toponimi.

Isabella Passerini

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