Surrealismo e allegoria politica nel romanzo libico al-Waram (Il tumore) di Ibrāhīm al-Kawnī (al-Koni), al-Mu’assasah al-‘arabiyyah li ’l-dirāsāt wa ’l-našr, Bayrūt 2008, pp. 190.

Gli agghiaccianti moti della psiche umana, innescati dalla dilaniante ossessione per il potere, emergono nelle tinte più fosche e oniriche in al-Waram, uno degli ultimi romanzi di Ibrāhīm al-Kawnī, tra gli scrittori libici maggiormente noti e apprezzati in Occidente.

Tuareg di nascita, al-Kawnī (Ghadames, 1948) ha coniugato l’intensa attività giornalistica a una profonda passione per la letteratura, diventando – dopo l’esordio nel 1974 con la raccolta al-Ṣalāh ḫāriğa niṭāq al-awqāt al-ḫamsah (La preghiera fuori dai cinque tempi) – una delle penne più prolifiche del panorama letterario internazionale. Lo scrittore libico vanta traduzioni delle sue opere in oltre trenta lingue e ha ottenuto nel corso della sua brillante carriera moltissimi premi e riconoscimenti letterari.

Il romanzo al-Waram – pubblicato nel 2008 e ancora inedito in Italia – conduce il lettore nel delirante e surreale vortice di tormento e ossessione di Asanaya, wālī di una piccola oasi, imprigionato nella stritolante gabbia dorata del potere.

La trama si apre in media res: Asanaya si sveglia dal suo usuale riposo pomeridiano accorgendosi, però, di avere ancora indosso la ḫil‘ah, la preziosa giubba simbolo della sua autorità. Nonostante il solerte aiuto di un servo, risultano vani i tentativi di rimuovere l’indumento e viene, così, convocato uno stregone, affinché chiarisca la misteriosa natura del prodigio. Il verdetto è sconvolgente: la ḫil‘ah non può essere rimossa perché si è attaccata alla pelle, divenendo con essa un tutt’uno.

La notizia determina un vero e proprio crollo psicologico del protagonista, il quale sprofonda in un’angosciante paranoia che lo porterà a intraprendere una catena di efferati delitti per proteggere il suo segreto. La sequenzialità logica degli eventi viene, però, bruscamente spezzata dall’inserimento di lunghe parentesi analettiche, affidate ai convulsi e contorti ricordi di Asanaya, che svelano un passato tribolato e peccaminoso, susseguendosi in una degradante escalation dai tempi d’oro del commercio fino alla rovina.

Precipitato, ormai, nei neri abissi della disperazione, ecco che un araldo si materializza spettralmente davanti ai suoi occhi e gli affida, mediante l’investitura della il‘ah, l’incarico più ambito nel deserto: essere il vicario del grande za‘īm, punto di riferimento fisico e metafisico supremo per gli abitanti dell’oasi. Accettando la leggendaria giubba, però, Asanaya innesca un processo di corrosione fisica e spirituale che lo condurrà a una lenta e ineluttabile marcia verso l’autodistruzione.

Omicidi, intrighi e menzogne, dettati dal terrore di perdere il controllo dell’oasi, intrappolano il protagonista in un intricato dedalo psichico di inquietudine e tormento, lasciandolo solo e confuso in mezzo a personaggi grotteschi al limite del reale, ciascuno dei quali dà vita ad una storia nella storia e dà voce a una particolare teoria su alcuni indecifrabili misteri: chi è lo za‘īm? Esiste davvero? Qual è la vera natura della famelica il‘ah?

Nonostante riesca a sottrarsi con astuzia alla violenta rimozione dell’indumento e a mantenere le redini del potere, la paranoia di Asanaya cresce esponenzialmente finché, consumato dalla giubba antropofaga e desideroso di guadagnarsi l’immortalità e la gloria eterna, decide di entrare in occultamento proprio come lo za‘īm. La narrazione si avvia, così, al tragico epilogo: condotto con l’inganno nel cuore della terra, Asanaya apprende la terribile verità sulla il‘ah pochi istanti prima di spirare.

In al-Waram lo scrittore libico coniuga lo stile realistico con un linguaggio profondamente e intrinsecamente simbolico, che attinge al misticismo maghrebino, alla saggezza tuareg, al panteismo, alle tradizioni tribali, ai riti pagani nonché a molti elementi della religione islamica e cristiana.

Nella dimensione sincretistica della sua prosa – che molto si avvicina alla corrente del “realismo magico”, sviluppatasi in America Latina nella seconda metà del XX secolo – al-Kawnī apre un varco alla magia e al sovrannaturale, permettendo ai demoni, ai fantasmi, ai ǧinn e alle figure leggendarie della millenaria cultura nomade di penetrare la realtà del suo mondo narrativo.

Attraverso le visioni e le allucinazioni di Asanaya, lo scrittore assottiglia la distinzione tra il piano della realtà e quello dell’immaginazione fino a farli confondere in un tutt’uno, rispecchiando gli insondabili meccanismi del subconscio. Paure, ansie, colpe emergono con tutto il loro spaventoso potere in un’atmosfera di agghiacciante surrealismo che rievoca gli sconfinati paesaggi prospettici delle tele di Salvador Dalì, il quale fa dello sterminato orizzonte desertico il palcoscenico ideale per la rappresentazione della traboccante potenza dell’io interiore, delle angosce represse, dei desideri perversi, delle più profonde e spaventose abiezioni. al-Kawnī, ricollegandosi ai codici figurativi surrealisti immediati e suggestivi, usa la potenza espressiva del linguaggio come pennello: disegna uno spazio privo di contorni che aleggia in un eterno presente, diventando teatro interiore e spirituale del tormentato Asanaya che, al contrario del sant’Antonio di Salvador Dalì, si lascia completamente sopraffare dalle visioni allucinatorie delle sue paure.

L’autore scende nelle profondità psichiche del protagonista per registrarne i moti più insondabili dell’animo: la brama accecante, il senso di colpa, la paranoia, la sete di vendetta, elementi di cui si serve per edificare l’impianto allegorico del romanzo, che interpreta la condizione esistenziale dell’uomo libico e dell’essere umano in generale.

Il concetto-cardine della riflessione antropologica di al-Kawnī riguarda, infatti, l’inclinazione umana alla distruzione e all’autodistruzione, resa icasticamente mediante l’allegoria della caccia: l’uomo non fa altro che trasformare tutto ciò che gli sta davanti ˗ sia esso un oggetto, una persona, una professione e perfino un sentimento ˗ in una preda (al-ṭarīdah) e solo attraverso una spietata e sregolata caccia riesce ad appagare la sua frustrazione e la sua insoddisfazione, o meglio, a curare la sua profonda depressione.

All’interno della sua indagine socio-antropologica, viene trasferito su un piano allegorico anche il tema della tirannia: la narrazione solleva una riflessione filosofica sulla insaziabile sete di potere (una delle “prede” più agognate dall’uomo) configurandosi, nel contempo, come metafora della dittatura libica. Il complesso profilo psicologico di Asanaya e le malvagie macchinazioni per mantenere a tutti i costi il vacillante potere sembrano, infatti, ispirarsi alla personalità del dispotico ra’īs Gheddafi, mentre il tragico epilogo di al-Waram sembra vaticinare i catastrofici risvolti politici di cui la Libia è stata protagonista negli ultimi mesi.

La figura di Asanaya, inconsapevolmente travolto in un doloroso processo di autoannichilimento, pare rifarsi, inoltre, al giovane Raskòlnikov di Delitto e castigo, capolavoro di Dostoevskij, «simbolo della tragedia della libertà umana costantemente in bilico fra gli incerti confini del male e del bene, del giusto e dell’ingiusto».

La il‘ah, associata erroneamente al trionfo della libertà e dell’autodeterminazione, si trasforma in una radice velenosa inestirpabile, un tumore, appunto, impossibile da combattere: desiderio/conquista/distruzione rappresentano l’ineluttabile trinomio a cui sono destinati tutti coloro che vengono attratti dal leggendario indumento, risucchiati in un girotondo ossessivo e delirante di comportamenti sempre uguali, che da millenni ripiegano su se stessi a ritmi scanditi.

Quella della il‘ah è un “eterno ritorno”, un ripetersi infinito dello stesso circolo vizioso, di cui al-Kawnī cattura nelle pagine di al-Waram un singolo “giro”.

E, ricalcando il circuito dell’errore e del peccato umano in un’atmosfera onirica e fantasmatica, inizio e fine del romanzo si chiudono in un cerchio perfetto, proprio come la forma delle venerate tombe degli antenati da cui gli uomini del deserto traggono profezie e visioni mistiche, e il cui segno distintivo è proprio la circolarità.

Vincenzina Cicatelli


[3] Chiara Cantelli, Introduzione a Delitto e castigo, traduzione di V. Carafa de Gavardo, Newton Compton, Roma 2006, p. 7.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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Vincenzina Cicatelli |