Shaden M. Tageldin, Disarming Words: Empire and the Seductions of Translation in Egypt, University of California Press, Oakland 2011, pp. 368.

in La rivista di Arablit, a. VI, n. 11, giugno 2016, pp. 71-74.

«I surrender to the text when I translate» [p. 1]: con questa citazione da The Politics of Translation di Spivak si apre il volume Disarming Words: Empire and the Seductions of Translation in Egypt di Shaden M. Tageldin. Fin dal principio si ha l’impressione di trovarsi davanti a una lettura nuova, dai propositi ambiziosi, che lo studioso di lettere avvezzo agli studi sulla traduzione non tarderà a trovare più che soddisfacente. Il testo rappresenta infatti una meticolosa e puntuale ricerca su un tema su cui spesso si dibatte, in ambito accademico e non, circa il valore delle traduzioni, il variabile stato di “fedeltà” al testo, e la successiva pregnanza da un punto di vista non esclusivamente letterario-culturale. Perché Tageldin non solo affronta la discussa controversia, ma la contestualizza a una nazione – l’Egitto – e un periodo storico – a partire dalla spedizione napoleonica del 1798 – che le consentono di rileggere storia, pensiero politico ed economico di questo paese. La scelta voluta dall’autrice rientra infatti in una sfida che a vario titolo si sono posti gli studiosi di lettere che hanno riconosciuto nel fenomeno delle traduzioni/adattamenti/trasposizioni operati nel periodo storico preso in considerazione un sintomo di trasformazione totale che ha coinvolto diverse sfere e che permette di analizzare il rapporto Oriente/Occidente sotto una veste nuova, chiamando in causa il fattore colonizzazione. Vale la pena innanzitutto soffermarsi sul titolo, da cui si evince fin da subito il progetto della studiosa. Le «disarming words» cui infatti fa riferimento, rivelano l’ambizione a una messa in discussione delle abituali teorie sui processi legati alle traduzioni che, nel continuo dibattito tra belles infidèles, volte ad ammaliare il lettore, e approcci più “seri” e “scientifici”, parrebbero configurarsi come punto di svolta per interpretare i rapporti di potere tra dominanti e dominati che indubbiamente caratterizzano l’arco temporale oggetto dello studio.
Su questa scia Tageldin propone una rappresentazione dell’Impero attraverso il potere di seduzione che capolavori della letteratura del dominante hanno avuto in Egitto. Sin da qui si gioca il primo punto di snodo della ricerca proposta, con il riferimento a una forza attrattiva – quella che l’autrice chiama «The Irresistible Lure of Recognition» – verso una cultura sentita distante eppure capace di proporre suggestioni legate ai meccanismi di potere che si instaurano in ogni atto di colonizzazione. La scelta terminologica voluta dalla scrittrice non è affatto casuale: al lettore attento non sfugge il rimando al filosofo francese Jacques Derrida cui si deve l’accezione di «seduction» – secondo la costruzione latina del sé-ducere, cioè condurre a sé – nel senso di quiescenza e ammirazione per l’opera messa in atto dall’Altro dominante verso cui si avvertiva un desiderio di farla propria, mediante, per l’appunto, un’operazione di traduzione.
Il punto di partenza di Tageldin è Edward Said: negli studi dell’intellettuale palestinese si evince la presa di coscienza di un imperialismo culturale derivato dall’invasione politica, economica e militare che in Tangeldin si tramuta nell’individuazione di un involontario atteggiamento di sottomissione alla cultura europea. Sulle prime c’era stata infatti una immediata resistenza all’Altro dominante, attraverso un processo di opposizione per quella che era sentita come «aggressione culturale» (al-ġazw al-ṯaqāfī) dell’Occidente verso gli Stati arabi. L’impatto con l’alterità e la modernità aveva portato a un atteggiamento di chiusura e insperato revival delle proprie origini per la preconcetta impossibilità di adattarsi a cambiamenti ritenuti troppo distanti dal proprio assetto culturale. Superata questa fase, Tageldin ha invece individuato e sviluppato un concetto di «translational seduction» così spiegato: «The case of Egypt, I contend, suggests that cultural imperialism might be better understood as a politics that lures the colonized to seek power through empire rather than against it, to translate their cultures into an empowered “equivalence” with those of their dominators and thereby repress the inequalities between those dominators and themselves. This politics I call translational seduction» [p. 11].
Tageldin parte dunque da quelle premesse di scuola “saidiana” per addentrarsi nella lettura dei testi sugli studi coloniali filtrati attraverso lo spettro delle traduzioni.
La studiosa arriva a pensare che, contrariamente a usitati atteggiamenti di chiusura, le élite intellettuali egiziane siano state incoraggiate proprio dal contatto con la modernità europea a riflettere sulle proprie origini e a proporsi sulla scena culturale mondiale con un atteggiamento di maggiore competitività. Questa competitività potrebbe, secondo Tageldin, essere supportata da una nuova forma di affinità, o parentela, che si sarebbe generata tra colonizzato e colonizzatore e che, come avvenuto per l’esperienza dell’Impero britannico in India, si manifesterebbe citando Trautmann e la sua idea di «equivalence», come segue: «What Trautmann limns is an affective economy that empowers the colonized to declare themselves ‘equal to’ or ‘greater than’ the European – through the prism of an Orientalist thesis itself attractive because it issues from the gaze of the colonizer» [p. 9].
Si rilancia in tal modo il ruolo della cultura, che Disarming Words: Empire and the Seductions of Translation in Egypt, individua come tassello per sancire una sorta di, potremmo azzardare, “successo” da parte dell’occupazione coloniale, senza ovviamente lasciare all’oblio la catastrofe che essa ha comportato. In Disarming Words: Empire and the Seductions of Translation in Egypt c’è il puntuale e accurato tributo a tutte le fonti primarie, in francese, arabo e inglese – che spaziano tra annotazioni storiche, lavori letterari, opere critiche e teoriche – le quali rappresentano i capisaldi degli studi tradizionalmente proposti nell’ambito di ricerca preso in esame. Il progetto di analisi è interessante, poiché copiosa è la produzione letteraria che anima il panorama intellettuale del periodo storico considerato, quella nahḍah che ha consegnato alla tradizione letteraria araba indubbi capolavori i quali, come Tageldin spiega, meritano di essere analizzati proprio per capire le dinamiche di potere innescate dal rapporto con l’Altro. Ecco dunque il riferimento alle cronache di al-Ǧabartī per la critica caustica che lo storiografo egiziano conduce contro i disastri causati dall’occupante francese; poi, ancora, la citazione del capolavoro di al-Ṭahṭāwī Taḫlīṣ al-ibrīz fī talḫīṣ Bārīz come testimonianza dello sguardo a tratti ingenuamente sorpreso dell’egiziano in terra francese; si spazia tra il progetto traduttivo dalla particolare struttura di Muḥammad al-Sibā‘ī dell’opera di Thomas Carlyle On Heroes e l’esempio di ‘Alī Mubārak e del suo ‘Ālam al-dīn, un romanzo che è traduzione e insieme opera sulla traduzione. Gli esempi qui riportati non sono che una campionatura delle opere scelte dalla studiosa per inseguire il suo ambizioso progetto. Si va dunque dalla citazione dell’attività letteraria di Muṣṭafà Luṭfī al-Manfalūṭī che, tra le più celebri vittime della “seduction”, optò talvolta per “arabizzazioni” dei romanzi d’amore europei, per proseguire con il riferimento alla risposta drastica di un intellettuale del calibro di ‘Abd Allāh al-Nadīm contro l’eccessiva “francesizzazione” (al-tafarnuğ, letteralmente il «fingere di essere europeo») della cultura egiziana, vista la dilagante ammirazione scaturita in seno all’élite intellettuale araba all’indomani del contatto con la cultura francese.
L’analisi delle opere citate si muove lungo la scia segnata da “monumenti” dei teorici del colonialismo, quali Homi Bhabha, Franz Fanon, Gayatri Spivak, passando attraverso la filosofia di Hegel, Derrida, Bakhtin, senza dimenticare il rimando tanto agli studi critici sui contesti della geopolitica – tra i quali spiccano i nomi di  Lidia Liu, Gauri Viswanathan, Naoki Sakai – quanto alla tradizione legata alla decostruzione del fenomeno della traduzione, che riconosce in Venuti, Goethe e Walter Benjamin alcune delle voci più autorevoli.
I sei capitoli di cui si compone lo studio, cui si aggiunge una interessante “postilla” finale nella quale vengono ricostruite le fila del discorso intrapreso partendo da Maḥfūẓ e le sue idee sul rapporto tra la letteratura egiziana moderna e l’Occidente, rappresentano un insieme di dotti rimandi e meticolose osservazioni su inedite dinamiche che si sono innescate nel contatto tra Oriente e Occidente, filtrate attraverso lo specchio del fenomeno delle traduzioni. Così analizzato, quel principio di «equivalence» rilevato e a cui all’inizio si è fatto riferimento, sembra apparire sotto una prospettiva nuova, proponendo, ad esempio, anche l’operazione di al-Ṭahṭāwī da un punto di vista inusuale. Infatti: «What first shakes al-Ṭahṭāwī’s belief in the incomparability of Arabic is his seduction by the apparent resemblance of the French to the Arab. Among other forces, the fluent literary Arabic of de Sacy leads al-Ṭahṭāwī to hypothesize the “equivalence” of French and Arabic – to imagine that it is possible for a person who knows any given tongue well (as de Sacy knew French) to automatically ‘know’ any other (as de Sacy knew Arabic). From here al-Ṭahṭāwī also intimates the exchangeability of Arabic for French» [p. 124].
In conclusione, Disarming Words: Empire and the Seductions of Translation in Egypt sembra apparire come una convincente risposta a quel fermento che ha animato l’Egitto a partire dall’epoca moderna, cui corrispose la volontà dell’intellettuale di aprire il proprio paese al progresso facendo sì che, al contempo, l’Europa entrasse in Egitto. Ecco perché ben accetta, per novità e cura scientifica, sembra essere la proposta di Tageldin quando asserisce: «If cultural imperialism works, as I have argued, through a translational seduction that lures the colonized into seeing not just their selves but their best selves in their colonizers, the upshot of that seduction is a love-of-self through-the-Other that appears to usurp seduction’s very powers» [p. 274].

Ada Barbaro

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VI, Numero 11, giugno 2016

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