Sa‘ūd al-San‘ūsī, Sāq al-bāmbū (Gambo di bambù), al-Dār al-‘Arabiyyah li ’l-‘Ulūm Nāširūn, Bayrūt 2012, pp. 398.

Vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction (IPAF) 2013, Sāq al-bāmbū è il secondo romanzo del giovane scrittore kuwaitiano Sa‘ūd al-San‘ūsī.
Con questo premio il Kuwait si è imposto con forza sulla scena del romanzo arabo contemporaneo, scena di cui fino ad adesso è stato ai margini, nonostante nel Paese non manchino romanzieri di spicco, come Ismā‘īl Fahd Ismā‘īl, Laylà al-‘Uṯmān o Ṭālib al-Rifā‘ī, solo per citarne alcuni.
Prima di Sāq al-bāmbū, al-San‘ūsī aveva scritto articoli e racconti per varie riviste kuwaitiane e nel 2010 aveva pubblicato il suo primo romanzo, Saǧīn al-marāyā (Il prigioniero degli specchi) che si era già meritato lo stesso anno il premio Laylà al-‘Uṯmān li-ibdā‘ al-šabāb fī ’l-qiṣṣah wa ’l-riwāyah.
Il tema di fondo di entrambi i romanzi si sviluppa seguendo il fil rouge dell’idea della ricerca della propria identità, un’identità i cui contorni sono spesso poco definiti, e che non di rado si costruisce per contrasto. al-San‘ūsī segue – in una maniera del tutto personale – un filone assai caro alla letteratura kuwaitiana, già percorso da quello che è considerato uno dei decani della letteratura contemporanea del Kuwait, lo scrittore Ismā‘īl Fahd Ismā‘īl, per esempio, nel suo romanzo Ba‘īdan… ilà hunā (Lontano… fin qui, 2001) che ha affrontato la problematicità della costruzione dell’io a partire dalla visione dell’altro. E non a caso come epigrafe del romanzo c’è proprio una citazione di Ismā‘īl Fahd Ismā‘īl: «Il tuo rapporto con le cose dipende dalla misura in cui le comprendi» [p. 5].
La stratificazione, il gioco di sovrapposizioni, che caratterizzano il personaggio principale e che percorrono tutto il romanzo, cominciano già dalle prime pagine. L’autore finge che Sāq al-bāmbū sia nient’altro che la traduzione in arabo di un testo originario in filippino. Correda quindi il romanzo di una scheda biografica sul traduttore e di un’introduzione del traduttore stesso (che si scoprirà essere anche uno dei personaggi del racconto).
L’intera narrazione, dunque, si pone a livello intradiegetico: José Mendoza racconta la sua storia che si dipana tra le Filippine e il Kuwait, tra il Paese della madre e il Paese del padre. Inizia così: «Mi chiamo José, così è scritto. Nelle Filippine lo pronunciamo, come in inglese, ‘Hosé’. E in arabo diventa, come in spagnolo, ‘Khosé’. In portoghese è scritto con le stesse lettere, ma si pronuncia ‘Giosé’. Invece qui, in Kuwait, tutti quei nomi non hanno niente a che vedere con il mio nome, che è ‘Īsà. […] Quando ero lì [nelle Filippine] mia madre non voleva chiamarmi con il nome che mio padre ha scelto per me quando sono nato qui [in Kuwait], nonostante sia il nome del Signore in cui lei crede. Perché ‘Īsà è un nome arabo che qui è pronunciato ‘Isa’, che significa “uno” nelle Filippine. E sarebbe ridicolo se la gente mi chiamasse con un numero, anziché con un nome!» [p. 17]
Queste prime frasi danno già un’idea dello stile della narrazione, che procede fluida, con un linguaggio piano e scorrevole, e che a tratti si rivela molto divertente, fino a sfociare a volte nell’aperta comicità. Emerge anche il profilo del protagonista scisso tra due identità. Come racconta egli stesso nella prima parte del romanzo, “‘Īsà prima della nascita”, nasce in Kuwait dall’unione, sancita da un matrimonio segreto, tra un giovane kuwaitiano di una ricca famiglia del Paese, Rāšid al-Ṭārūf, e Josephine Mendoza, la timida domestica filippina a servizio della famiglia.
In un Kuwait rigidamente diviso in classi sociali, dove la differenza di rango e il prestigio familiare hanno un ruolo estremamente invasivo nelle dinamiche personali, l’unione tra Rāšid e Josephine viene fortemente osteggiata da Ġanīmah, la madre di Rāšid, rimasta vedova, potente e ostinata preservatrice del decoro e dello status familiari. I due giovani provano a opporsi alla sua volontà, finché Rāšid, incapace di sopportare l’ostracismo della famiglia, non deciderà di far partire sua moglie e il piccolo ‘Īsà per le Filippine. Qui José – come, invece, lo chiamano tutti – vive con la famiglia della madre, con l’idea che un giorno andrà in Kuwait, in quella che, secondo i racconti di Josephine, è la terra dei sogni, il “paradiso” in terra. «Mi immaginavo come Alice: seguivo le promesse di mia madre, anziché il coniglio, per cadere in una buca che mi avrebbe condotto in Kuwait, il Paese delle meraviglie. Mia madre mi aveva convinto che noi vivevamo nell’inferno e che il Kuwait era il paradiso che meritavo» [p. 71].
O ancora più avanti: «Perché il fatto che mi sieda sotto l’albero dà fastidio a mia madre? Teme forse che mi possano crescere radici che attecchiscano nella profondità della terra e rendano impossibile il mio ritorno al Paese di mio padre? Forse. Ma persino le radici a volte non significano nulla» [p. 94].
E così José/‘Īsà a diciotto anni parte per cercare notizie di suo padre e per provare a riallacciare i contatti con l’altra metà della sua famiglia. Il confronto con il Kuwait non sarà roseo come aveva immaginato: dovrà affrontare la notizia della morte del padre e l’ostilità della nonna Ġanīmah e delle zie, preoccupate che la sua presenza possa intaccare la reputazione e l’onore della famiglia, e danneggiare in modo irreparabile la loro immagine sociale.
Progressivamente isolato dai Ṭārūf, José svolgerà lavori umili per mantenersi, entrando in contatto con la corposa comunità di lavoratori filippini che vivono in Kuwait.
Nell’esplorazione delle condizioni di vita degli immigrati del sud-est asiatico, l’autore tocca un altro tema affrontato sin dagli anni ’80 del secolo scorso dagli autori dei Paesi del Golfo Persico. La prospettiva di José, tuttavia, è al contempo esterna e interna: egli, dal passaporto kuwaitiano, ma dalle fattezze inequivocabilmente filippine, dovrà scontrarsi con i pregiudizi e l’ostilità, che talora rasentano il razzismo, della società di quello che è il suo stesso Paese. La società emerge come estremamente classista e sclerotizzata, dove il concetto di “classe” e quello di “razza” appaiono strettamente intrecciati tra loro, con la classe medio-alta dei kuwaitiani distante e separata dalla classe più bassa e più povera dei lavoratori immigrati. Attraverso il personaggio di Ġassān, un amico di gioventù di Rāšid che aiuterà José con i documenti per il Kuwait e lo sosterrà nel primo periodo nel Paese, al-San‘ūsī accenna anche al grave problema dei bidūn, dei “senza Stato”, di quelle persone che pur potendo vantare antenati kuwaitiani, non godono della piena cittadinanza e di tutti i diritti e i benefici derivanti da essa.
Tutto il romanzo può essere visto come il viaggio di José alla scoperta di sé, alla ricerca di un’identità, della sua identità di «Kuwaitiano, ma made in the Philippines» [p. 159], come lo descrivono alcuni suoi amici. La sua identità ibrida, dalle caratteristiche fluide e poco definite, si articola in una serie di dicotomie che non è sempre facile per lui conciliare.
a) Innanzitutto la lingua, perché non conosce l’arabo e non è capace di comunicare con tutti i membri della famiglia di origine del padre, cosa che lo estranea ulteriormente da un ambiente che già non lo ha mai accettato («[Era] come guardare un film in una lingua che non conosco, senza sottotitoli» [p. 218]). Non riesce neppure a riappropriarsi completamente della memoria del padre, perché i libri della biblioteca paterna e lo stesso romanzo che Rāšid stava scrivendo e che ha lasciato in sospeso sono in arabo.
b) Lo status sociale: la famiglia della madre è poverissima, a tal punto che zia Aida, la sorella maggiore di Josephine, era stata costretta a prostituirsi quando era molto giovane per aiutare i genitori e i fratelli, e Josephine aveva dovuto poi lasciare gli studi ed emigrare per trovare un lavoro e sostenere i familiari. Dall’altro lato, invece, ci sono i Ṭārūf, una famiglia benestante e molto in vista in Kuwait, appartenente all’élite tradizionale, preoccupata di conservare il suo status preminente e che si tiene ben al riparo da qualsiasi novità che possa sfociare in una possibile critica sociale.
c) Infine, l’appartenenza religiosa. Musulmano di nascita, José è stato educato al cristianesimo nelle Filippine, ma, convinto che esista un unico Dio, pratica un personalissimo sincretismo religioso, trovando, di volta in volta, rifugio in chiesa, in moschea e persino in un tempio buddista. Festeggia il Natale con la comunità filippina del Kuwait e digiuna durante il Ramaḍān a casa della nonna, senza preoccuparsi di distinguere troppo tra le fedi.
Il titolo del romanzo, Sāq al-bāmbū, gambo di bambù, fa riferimento all’incredibile adattabilità del bambù che, come piacerebbe fare anche a José, riesce a mettere radici dovunque venga piantato.
Se solo fossi come una pianta di bambù che non appartiene a nulla! Tagliamo un pezzo del gambo, lo piantiamo senza radici in qualunque terra. Il gambo non ci mette molto a far crescere nuove radici… Cresce di nuovo, in una terra nuova. Senza passato, senza memoria. Non gli interessa che la gente lo chiami in modo diverso: kawayan nelle filippine, khayzurān in Kuwait o bambù in altri posti. [p. 94]
E tuttavia José – a differenza del bambù – non riuscirà a integrarsi in Kuwait, non riuscirà a scardinare i pregiudizi nei suoi confronti di sua nonna e delle sue zie: «All’improvviso ho sentito che questo posto non era il mio posto e che avevo sbagliato completamente quando ho pensato al gambo di bambù che mette radici dovunque» [p. 383].
José, sconfitto, deciderà di tornarsene nelle Filippine per raggiungere la madre, gli zii e l’amata cugina che sposerà. Da lei avrà un figlio cui darà il nome di Rāšid, come suo padre, nel quale auspicabilmente le molteplici identità troveranno finalmente una ricomposizione.
Il problema dell’identità investe non solo la vita di José, ma quella di altri personaggi secondari: di Ġassān, che nel limbo della sua condizione di bidūn non è riuscito a vivere come avrebbe voluto, non potendo neppure sposare la donna di cui era innamorato. Oppure di Mirla, la cugina di José, figlia della zia Aida e di uno dei suoi tanti amanti europei sconosciuti: anche l’identità di Mirla è ibrida, anche lei ha delle fattezze (in particolare gli occhi azzurri) che poco si coniugano con la sua nazionalità filippina. Mirla, al contrario di José, vivrà la dicotomia in maniera più problematica, arrivando a rifiutarla con atteggiamenti autodistruttivi.
Il romanzo, con le sue 400 pagine di mole, si presenta come una lunga saga che, avendo come fulcro José, ruota attorno alla storia delle due famiglie d’origine dei suoi genitori: i Mendoza e i Ṭārūf, arricchendosi delle vicende dettagliate dei diversi membri di ciascuna delle due famiglie. Offre inoltre una caratterizzazione ben approfondita delle Filippine, nella prima parte, e del Kuwait, nella seconda. Nel dipanarsi della storia, emergono vivide le descrizioni della vita quotidiana, dei riti religiosi, delle personalità culturali locali e delle tradizioni.
Di sicuro, la popolarità di Sāq al-bāmbū non mancherà di avere ripercussioni sulla scena del romanzo kuwaitiano stesso. Come ha commentato il romanziere ‘Abd al-Wahhāb al-Ḥamādī: «Come la storia del Kuwait è datata con i termini “prima dell’invasione” e “dopo dell’invasione” [da parte dell’Iraq], allo stesso modo il romanzo kuwaitiano sarà datato “prima del bambù” e “dopo del bambù”».

Caterina Pinto

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno III, numero 5, giugno 2013

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Caterina Pinto |