Richard Jacquemond, Felix Lang (eds.), Culture and Crisis in the Arab World: Art, Practices and Production in Spaces of Conflict, I.B. Tauris, London/New York 2019, pp. 264.

in La rivista di Arablit, a. X, n. 19, giugno 2020, pp. 99-104.

Il volume edito da Richard Jacquemond e Felix Lang, dal titolo Culture and Crisis in the Arab World: Art, Practices and Production in Spaces of Conflict, è il risultato di un workshop che si è tenuto presso la Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme nelle giornate del 7 e dell’8 novembre del 2016. Tale workshop, organizzato dall’Institut de Recherches et d’Etudes sur les Mondes Arabes et Musulmans (IREMAM) dell’Università di Aix-Marseille e dal gruppo di ricerca del Center for Near and Middle Eastern Studies (CNMS) della Philipps-Universität di Marburg, “Figures of Thought | Turning Points. Cultural Practices and Social Change in the Arab World”, ha riunito vari studiosi che, sebbene da prospettive diverse, hanno presentato tutti dei lavori chiaramente improntati sulle teorie e sull’approccio epistemologico elaborati dal sociologo francese Pierre Bourdieu1.
Partendo dalle esperienze di conflitto che si sono manifestate di recente in diversi paesi arabi, la nozione di “crisi” è stata esplorata dai due curatori del volume attraverso delle analisi di tipo culturale che mirano a far luce su contesti che non presentano solo un alto livello di conflittualità, ma anche l’opportunità, per molti degli attori sociali che operano al loro interno, di rinegoziare il loro rapporto con il campo del potere. La crisi, qui, è stata intesa nella sua dimensione di rivolta2, come nel caso degli eventi rivoluzionari che hanno sconvolto l’Egitto e la Tunisia fra il 2011 e il 2013, nella sua dimensione di guerra civile, del Libano, nel suo essere rivolta e guerra civile allo stesso tempo, dell’Algeria o in quelli della Siria e dello Yemen del post-2011, ma anche alla luce dei conflitti prodotti dall’invasione e dall’occupazione di forze straniere, come nel caso della Palestina.
Nel primo articolo contenuto all’interno del volume, Structuring the Arab Field(s) of Cultural production [pp. 13-38], Felix Lang riflette sul ruolo che hanno avuto le diverse crisi politiche medio-orientali nello strutturare un campo regionale arabo e transnazionale, tentando di superare in tal modo una visione quasi esclusivamente negativa e di rottura del concetto di crisi. Prendendo in esame sia i beni simbolici prodotti all’interno dei diversi campi culturali arabi, sia le posizioni assunte da alcuni attori di questi stessi campi, Lang sostiene che gli effetti delle crisi politiche possono condurre a delle trasformazioni radicali nelle relazioni di forza che li strutturano, in quanto essi agiscono su due livelli diversi, quello delle produzioni simboliche in sé e quello delle relazioni sociali e delle istituzioni. Dal punto di vista delle produzioni simboliche, gli effetti delle crisi politiche agirebbero sulla forma e il contenuto di questi beni, sui loro meccanismi di ricezione e sulle narrazioni storiche del campo. Dal secondo punto di vista, invece, questi agirebbero sull’infrastruttura materiale che permette la loro produzione, sui meccanismi di controllo e sulle posizioni dei diversi produttori culturali e delle loro istituzioni.
Nel secondo capitolo, redatto da Annabelle Boissier e Mariem Guellouz, Rumour in Two Tunisian Artistic Fields: A Form of Legitimate Speech [pp. 39-52], le due autrici si concentrano sull’elemento delle dicerie e dei pettegolezzi presenti nel campo artistico tunisino, portando il lettore, rispetto al saggio precedente, in un contesto ben più ristretto, quello della Tunisia pre- e post-rivoluzionaria. Del resto, gli eventi del 2011 hanno comportato delle trasformazioni importanti anche in riferimento al discorso legittimo che struttura il campo e tale aspetto è analizzato attraverso il contributo di due discipline differenti, ossia l’antropologia sociale e la sociolinguistica. Confrontando i due sotto-campi delle arti visive e della coreografia, le due autrici affermano che persino i pettegolezzi hanno contribuito a costruire delle narrazioni e a produrre degli effetti concreti sul campo. Se, prima delle rivolte, i pettegolezzi erano funzionali ad attaccare soprattutto il regime e il suo sistema di censura oppure erano utilizzati dal regime stesso per produrre una pressione su determinati artisti, dopo le rivolte il ruolo di queste dicerie è stato piuttosto quello di denunciare coloro che hanno collaborato con il regime precedente e di (ri)stabilire un confine tra “l’esterno” e “l’interno” del campo.
Anche il capitolo successivo, scritto da Alexa Firat, The Symbolic Power of Syrian Collective Memory since 2011 [pp. 53-72], ruota tutto attorno a un contesto post-rivoluzionario, ma questa volta il tema centrale è quello della memoria collettiva o, per meglio dire, culturale della Siria contemporanea3. Le rivolte recenti hanno portato a una vera e propria esplosione di creatività all’interno del contesto siriano, creatività che non è stata priva di conseguenze nella lotta per l’acquisizione del capitale simbolico. Così, i dati riportati da Firat dimostrano che questa imponente e variegata produzione non ha consentito soltanto a un cospicuo numero di “non-attori” del campo culturale di accedervi a pieno titolo, ma anche di costruire una narrazione e una memoria delle rivolte siriane che sono intimamente connesse con la problematica dell’identità culturale4. La natura simbolica della memoria, d’altronde, si è rivelata estremamente utile per rafforzare i legami sociali esistenti tra le diverse comunità della Siria che hanno vissuto e continuano a vivere, pure al giorno d’oggi, il trauma della guerra.
Nel quarto capitolo, Committed Knowledge: Autonomy and Politicization of Research Institutions and Practices in Wartime Lebanon (1975-1990) [pp. 73-102], la studiosa Candice Raymond prende ad oggetto invece l’istituzione e lo sviluppo di una lunga serie di enti di ricerca operanti in Libano durante la guerra civile (1975-1990) il cui funzionamento non sempre è stato basato su logiche accademiche o di natura scientifica. Più in particolare, Raymond fornisce una descrizione accurata delle dinamiche interne ed esterne a uno di questi centri di ricerca, Arab Development Institute, sorretto dai fondi dell’allora governo libico. Analizzando alcuni dei momenti di crisi di tale istituto, Raymond afferma che se, da un lato, centri come quello appena citato hanno fatto sì che la carriera dei singoli ricercatori dipendesse dalle loro relazioni politiche con alcune delle parti del conflitto, dall’altro, essi hanno anche favorito una maggiore autonomia di questi ultimi. E ciò perché, in un contesto di penuria generale di fondi, questi istituti limitavano l’operato dei ricercatori, non tanto dettando un’agenda precisa, quanto implementando, alla base, un semplice processo di selezione delle proposte di ricerca presentate.
All’interno del capitolo di Elena Chiti, The Crisis as an Institutional Tool: Challenging Anti-Institutional Challenges in the Egyptian Cultural Field [pp. 103-128], poi, emerge la tematica dell’utilizzo simbolico di determinati prodotti culturali da parte delle istituzioni nell’Egitto post-rivoluzionario. Il dissenso generato dalle rivolte non è stato l’unico elemento a (ri)dare forma al campo egiziano in questa fase. Lo Stato, secondo Chiti, è intervenuto altrettanto duramente anche dopo le rivolte e le strategie utilizzate da quest’ultimo non hanno riguardato solo dei milieu istituzionali come quelli dei teatri, dei musei o delle associazioni culturali poste sotto il suo diretto controllo, ma hanno anche comportato il richiamo costante a una religiosità razionale e a una certa razionalizzazione delle sue manifestazioni collettive. Tutto questo, però, non ha di certo impedito alle diverse autorità statali, successivamente, di immischiarsi in faccende come quelle legate alla pubblicazione di uno dei capitoli del noto romanzo di Aḥmad Nāǧī, Istiḫdām al-ḥayāh (Vita: istruzioni per l’uso, 2016), o all’apparizione nelle sale cinematografiche egiziane del film Ištibāk (Scontro), e di assumere su di sé esattamente le stesse funzioni che un tempo rientravano tra le prerogative del campo della religione.
Nel sesto capitolo, The Algerian Literary Field in the ‘Black Decade’: A Reinforced Polarization [pp. 129-144], Tristan Leperlier rimette al centro del discorso un altro contesto magrebino, quello dell’Algeria degli anni Novanta. Sulla base di un database contenente circa 2000 titoli pubblicati dagli scrittori algerini tra il 1984 e il 2004, Leperlier approfondisce le cause dell’estrema polarizzazione venutasi a creare all’interno del suo campo letterario tra una produzione di tipo francofono e una produzione in arabo. L’autore riesce a provare che il calo relativo alla prima tipologia di queste due produzioni può essere difficilmente riconducibile a dei meri fattori politici poiché è connesso anche alle enormi difficoltà di pubblicazione in Francia. Viceversa, sempre dal punto di vista di Leperlier, la fine della crisi che ha colpito il campo letterario algerino sarebbe dovuta innanzitutto a dei fattori esterni al campo, come dimostrerebbero anche gli interessi comuni nella questione dello Stato algerino e di quello francese.
Il settimo capitolo di Laurent Damesin, Successive Shifts in the Yemeni Cultural Field 2011-16 [pp. 145-168], ci permette di ritornare ad est, in Yemen, ed è tutto incentrato, anch’esso, sugli effetti delle rivolte del 2011 in un determinato ambiente culturale. A tale proposito, Damesin osserva che l’ampia produzione di artisti, scrittori e musicisti che ha accompagnato questi eventi, ha lasciato sicuramente una traccia importante nello spazio yemenita, permettendo a nuove o marginali forme di beni simbolici di acquisire un certo status. Tuttavia, l’elemento appena ricordato non è l’unico a dover attirare l’interesse del lettore. Damesin, infatti, insiste anche sul fatto che, a seguito delle rivolte, il sindacato degli scrittori yemeniti e il sistema organico di pubblicazione statale si siano disintegrati, comportando una crescente dipendenza del campo culturale yemenita dal contesto arabo regionale più in generale, e dalle case editrici egiziane o libanesi più nello specifico.
Con il suo capitolo, dal titolo A Field in Exile: The Syrian Theatre Scene in Movement [pp. 169-192], Simon Dubois tratta nuovamente della Siria, ma lo fa soprattutto dal punto di vista delle sue produzioni teatrali. Egli utilizza i tre casi presi in esame, quelli degli artisti Wā’il Qaddūr, ‘Abdallāh al-Kafrī e Muḍar al-Ḥaǧǧī, per ridiscutere il ruolo di alcune istituzioni e ONG straniere nello strutturare il contesto siriano. Ebbene, se tali organismi hanno garantito una certa autonomia agli attori del campo, come per altri casi illustrati qui, essi hanno anche imposto loro tutto un set di regole, al fine di assicurarsi il finanziamento. In particolar modo dopo i recenti eventi rivoluzionari, tutto ciò ha portato allo sviluppo di uno spazio culturale transnazionale, dato che le principali opportunità offerte da questi ultimi ai singoli artisti sono state sfruttate soprattutto all’esterno dei confini politici della Siria e non hanno fatto altro che promuovere una rinnovata dimensione d’esilio di questa produzione.
Problematiche simili sono affrontate anche da Ilka Eickhof all’interno del nono capitolo, Class and Creative Economies: The Cultural Field in Cairo [pp. 193-212]. L’autrice, qui, riprende il tema del ruolo di alcuni istituti ed enti di finanziamento nord-europei nella scena culturale araba e, più nello specifico, in quella cairota. Mettendo in luce la natura diseguale dei rapporti che si vengono a creare tra i donatori e i ricettori di determinate sovvenzioni e decostruendo le narrazioni che le accompagnano, Eickhof osserva che questi enti impongono agli attori del campo culturale egiziano di sottostare a delle agende politiche e ideologiche esterne, pur permettendo loro di aggirare i limiti imposti dal proprio Stato. Allo stesso tempo, la studiosa, sulla base dei dati raccolti, rileva anche che l’investimento di tempo e di lavoro necessario per accedere a tali forme di finanziamento spesso contribuisce a restringere in maniera significativa la platea dei possibili ricettori dei fondi, favorendo i membri delle classi sociali più elevate.
Nel decimo capitolo, Contemporary Art in Extremis: Gaza between Imprisonment and Globalization [pp. 213-237], Marion Slitine scrive della situazione dell’arte contemporanea a Gaza e, persino in quest’ulteriore contesto, il confine tra processi di autonomia e processi di eteronomia sembra essere più sfumato. Stretti tra le condizioni imposte dalle autorità arabo-israeliane e l’operato di enti e istituzioni estere, molti attori del campo di Gaza si ritrovano a sottostare alle richieste di attori dominanti sul piano internazionale, sia dal punto di vista economico che da quello politico, i quali, però, continuano a vedere nell’arte palestinese un mero tentativo di etnicizzazione dei prodotti culturali. Secondo Slitine, ciò ha consentito all’arte prodotta in questo contesto di acquisire una maggiore visibilità, ma quest’ultima, in molti casi, è stata relegata alla sfera del virtuale, mentre la globalizzazione, con tutta la rilevanza che sembra possedere in epoca contemporanea, ha avuto degli effetti che hanno intaccato al massimo il piano simbolico, e non certo quello materiale, della vita dei diversi produttori culturali.
Per concludere, si deve rilevare che il volume presenta indiscutibilmente molti pregi. Il primo di essi ha a che fare con la grande quantità di dati, di campi e di sotto-campi analizzati. Un suo secondo pregio è legato alla tematica delle cosiddette primavere arabe: a partire dal 2011, l’arte prodotta in questa fase è stata oggetto di molti lavori accademici; eppure, la questione del ruolo degli attori che operano nei diversi campi culturali arabi e continuano ancora oggi ad esprimersi in condizioni sociali, oltre che politiche, molto particolari ha raramente attirato l’attenzione dei ricercatori che lavorano su queste tematiche. Dei pregi ulteriori del volume, infine, sono essenzialmente connessi alla metodologia di ricerca utilizzata. Come si è già accennato, tutti i saggi appena descritti si iscrivono, dal punto di vista teoretico, in una tradizione specifica di analisi sociologica della cultura, ossia quella promossa dal sociologo francese Pierre Bourdieu. A questo volume, dunque, va certamente il merito di aver riunito dei contributi pubblicati in modo sparso e individuale, attraverso monografie o singoli articoli, nel campo di studi che si occupa delle culture arabe contemporanee. In aggiunta a ciò, la prospettiva assunta dagli autori di questi dieci saggi pare superare persino il modello proposto da Bourdieu, e questo perché ognuno di essi non ha esitato a rivedere o ad approfondire dei concetti che sono stati scarsamente considerati dal sociologo stesso all’interno delle sue opere. A supporto di quanto appena detto, si può sottolineare il grande interesse dimostrato nei confronti della dimensione transnazionale del campo, oppure l’importanza attribuita a ciò che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un paradosso alla luce dell’epistemologia summenzionata, ovvero, il fatto che a un maggiore livello di politicizzazione possa corrispondere anche una certa autonomia degli attori sociali in gioco.

Antonio Pacifico


1 P. Bourdieu, Les Règles de l’art : genèse et structure du champ littéraire, Seuil, Paris 1992.
2 Sulla scelta di adottare il termine di rivolta, piuttosto che quello di rivoluzione, cfr. M. Campanini, Le rivolte arabe e l’Islam, il Mulino, Bologna 2013, p. 7.
3 Sul concetto di memoria culturale, si veda A. Erll, Cultural Memory Studies: An Introduction, in Cultural Memory Studies: An International and Interdisciplinary Handbook, Edited by A. Erll, A. Nünning, Berlin/New York 2008 (De Gruyter, 2010), pp. 1-18.
4 Il riferimento, qui, è chiaramente a A. Bayat, Life as Politics, Stanford University Press, California 2013 (second edition).

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno X, numero 19, giugno 2020

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Antonio Pacifico |