Racconto d’Egitto. Trascrizione e traduzione del manoscritto di ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (con brevi note di commento), a cura di Ahmed F. Kzzo; Nikola D. Bellucci, Archaeopress Publishing LTD, Oxford 2020.

in La rivista di Arablit, a. XII, n. 23, giugno 2022, pp. 113-117.

Ahmed F. Kzzo e Nikola D. Bellucci sono due giovani studiosi impegnati nella ricerca archeologica ai quali va attribuito il merito di aver proposto la prima traduzione italiana di un testo ben noto agli specialisti della letteratura scientifica e, per alcuni versi, dell’adab dell’epoca classica, il Kitāb al-ifādah wa ’l-i‘tibār fī ’l-umur al-mušāhadah wa ’l-ḥawādiṯ al-mu‘āyanah bi-arḍ Miṣr (Libro della relazione e del resoconto delle cose di cui sono stato testimone e degli eventi visti in terra d’Egitto), del celebre viaggiatore iracheno, uomo versato in tante discipline, ma soprattutto medico, filosofo, grammatico e fine studioso di archeologia ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (Mosul, 1162-1231). Questo sapiente musulmano è stato un instancabile viaggiatore e acuto osservatore, peculiarità che, forse, meglio di tutte le sue altre che lo contraddistinguono, descrivono la personalità di questo uomo e ricercatore, e così la sua opera tutta e, nello specifico, il testo qui preso in esame. L’ampia bibliografia critica dà prova del fatto che questo lavoro sia tra i più conosciuti e analizzati, celebre per la sua profonda preparazione e vasta erudizione, che egli ha trasfuso nelle pagine del manoscritto, nel quale si è occupato di diverse branche dello scibile umano. Tratto, quest’ultimo, che lo accomuna a molti altri scrittori arabi di prosa dal periodo classico sino agli inizi del Novecento.

Il lavoro edito da Ahmed F. Kzzo e Nikola D. Bellucci è, come lo scrittore dichiara, la sintesi di un’opera molto più ampia, andata perduta, da lui strutturata in tredici capitoli, ed è anzitutto una riḥlah, un esempio di letteratura odeporica, ma anche un trattato di archeologia ‒ con osservazioni all’avanguardia sulla conservazione di quelli che ora sono detti beni culturali e sulla cecità delle persone al potere o da coloro delegati alla cura del patrimonio antico ‒ e di scultura, con riflessioni sull’anatomia e le tecniche autoptiche. Questi sono elementi che ben riflettono gli studi di medicina dell’autore, nonché la sua conoscenza delle scienze naturali, di cui ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī dà mostra nel descrivere la flora e la fauna proprie dell’Egitto, i cibi caratteristici, il processo delle inondazioni del Nilo, il nilometro, e nell’operare opportune e dotte comparazioni tra alcuni fenomeni e realtà egiziani e quelli del natìo Iraq, e in generale del Levante arabo. In questo libro, inoltre, vi sono chiari riferimenti alla sua preparazione e curiosità linguistica – si guardi alla spiegazione da lui fornita della voce verbale šarraqat, che è riferita alle terre non inondate sufficientemente dal Nilo perché si possa ricavare un raccolto atto a soddisfare le esigenze della popolazione [p. 121], all’uso ricorrente della nomenclatura copta dei mesi [passim], a quel sentimento di rassegnazione e meraviglia insieme dello studioso ostacolato nella sua ricerca della conoscenza dinanzi al mistero dei geroglifici: «Le pietre sono coperte di scrittura in quegli antichi caratteri di cui il significato è ora sconosciuto. Non ho incontrato nessuno in Egitto che li comprendesse, o avesse mai sentito parlare di una persona da cui erano stati decifrati. Tanto numerose sono queste iscrizioni che volendo copiare solo quelle che si trovano sulla superficie di queste due piramidi1, si riempirebbero circa diecimila pagine» [p. 79] –, e speculazioni di natura storica, sociologica, antropologica. ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī offre, in tal modo, una mirabile dimostrazione dell’ampiezza delle sue conoscenze: oltre che delle summenzionate discipline, dei vari settori della civiltà degli Antichi Egizi, dell’astronomia e dell’astrologia, dell’idraulica e della fisica, della meteorologia, delle religioni e dell’antropologia culturale e religiosa, nonché delle forme del sacro. Come scrive Isabella Camera d’Afflitto nel presentare il volume, Ahmed F. Kzzo e Nikola D. Bellucci hanno «offerto al lettore italiano un’opera che, per contenuti e stile, ricorda in parte la produzione letteraria dei celebri viaggiatori e geografi arabi, da Ibn Faḍlān (X sec.) a Ibn Baṭṭūṭah (XIV sec.), solo per citarne alcuni, ma dall’altra, per l’approccio rigoroso e scientifico, il Kitāb al-’ifādah wa al-’i‘tibār2 si può accostare alla dotta saggistica di Averroè e Avicenna» [p. III]. In effetti, questo autore affronta una molteplicità di tematiche e argomenti con una dovizia di particolari tanto rigorosa e meticolosa da rasentare, a volte, l’acribia. Egli, tuttavia, non intende oltrepassare questo limite per non tediare il lettore, e perché alcuni specifici dettagli sulle cose viste e i luoghi visitati sono stati già trattati da lui altrove o potrebbero, in taluni casi, provocare un orrore eccessivo.

‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī redasse quest’opera agli inizi del XIII secolo, nel 1204, e vi fa esplicito riferimento a eventi verificatisi in Egitto tra gli anni 1200-1202, con particolare attenzione alla terribile carestia e al conseguente orrore di estesi fenomeni di cannibalismo, nonché al tremendo terremoto che sconvolse la regione. Il dotto scienziato viveva sin dal 1193 in Egitto, anno in cui aveva inizio il regno dell’ayyubide al-Malik al-ʿAzīz, ʿImād al-Dīn (r. 1193-1198), famoso anche per aver commissionato la distruzione delle piramidi, e riferimenti a ciò vi sono nel Racconto d’Egitto, il cui padre Ṣalāḥ al-Dīn, Saladino (1137-1193), il dotto musulmano aveva incontrato nel 1192 ricevendone importanti incarichi. ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī aveva visitato il Paese una prima volta qualche anno addietro, allorché vi si era recato per fare la conoscenza di importanti sapienti e filosofi. Lì era venuto in stretto contatto con il pensiero di Aristotele, in un periodo in cui già era iniziata quella “rivoluzione copernicana” negli studi sullo Stagirita grazie all’attività di Averroè. Ha scritto, ad esempio, Cecilia Martini Bonadeo: «In the East, he assumed the same position which had been held a generation before him by Averroes in al-Andalus: the rejection of Avicenna’s philosophy and a return to the ‘primitive’ Aristotle»3. Ad ogni modo, è evidente, sin dal titolo del Kitāb al-ifādah wa ’l-i‘tibār e poi ripetutamente dalle pagine del manoscritto qui tradotto, la fedeltà dell’erudito di Mosul nei confronti di uno dei principi base della filosofia aristotelica, ossia quello posto a incipit del primo libro della Metafisica, che recita: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere [toû eidénai]. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose»4. Da tale presupposto deriva la necessità, per ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī, di offrire il resoconto di ciò di cui è stato testimone oculare nel Paese delle piramidi e il suo voler sottolineare più volte quanto egli conferisca importanza all’esperienza diretta, e non al sentito dire; e perfino nel riportare una testimonianza altrui, il dotto rimarca l’affidabilità della persona che gli ha riferito o trasmesso quella data notizia, facendo ricorso a proposizioni dichiarative e quindi ai verba dicendi. Ad esempio, egli scrive: «Alcuni che hanno inseguito e catturato gli ippopotami e hanno aperto ed esaminato il loro esterno e interno mi hanno detto che […]» [p. 69]; «Un pescatore che lo ha preso mi ha assicurato che […]» [p. 71]. Oppure, più di una volta si trova la frase verbale «Ḫabbaranī al-ṯiqqah anna […]» resa in vario modo: «Una persona di credito mi ha informato che […]» [p. 101], «Mi è stato detto da persone degne di fede che […]» [p. 102]. Ciò non solo dimostra l’interesse e la necessità, avvertiti dall’autore in veste di uomo di scienza e di uomo di fede, di voler dimostrare di essere un trasmettitore veritiero e degno della fiducia del lettore e dell’ascoltatore a lui coevi, oltre che della fiducia di quelli che verranno nel futuro prossimo e lontano, ma la “flessibilità” della resa italiana del Kitāb al-ifādah wa ’l-i‘tibār. Spesso la prosa specialistica scientifica si presenta in traduzione tramite una forte aderenza a quello che è il testo fonte, il che può in qualche modo inficiare la scorrevolezza della lettura; d’altronde, una traduzione priva dell’aderenza necessaria arriverebbe addirittura a fuorviare il lettore. Nel contempo, chi si occupa di tali testi non può nemmeno rinunciare del tutto a offrire un prodotto piacevole alla fruizione del pubblico, adottando strategie traduttive tra le quali si può annoverare la variatio, laddove in arabo si trova l’iteratio, così come nel caso summenzionato fornito dall’espressione «Ḫabbaranī al-ṯiqqah anna […]», dato che la ripetizione è tra le figure retoriche più amate nei testi scientifici, di divulgazione e d’intento pedagogico, tutte caratteristiche rinvenibili nel Kitāb al-ifādah wa ’l-i‘tibār. Normalmente la ripetizione viene riproposta nella resa italiana di questa tipologia testuale. Tuttavia, la viariatio operata dai due curatori di questo volume è una scelta che definisce quella che sembra essere l’impostazione data alla traduzione da Ahmed F. Kzzo e Nikola D. Bellucci, ossia quella di una traduzione dotta e attenta al particolare, proprio come lo è il testo fonte, ma al contempo sensibile alle esigenze di un pubblico non soltanto di specialisti. Pertanto, lo stile è scorrevole, pure nei passaggi più delicati, tanto quelli in cui vengono fornite precise spiegazioni di fenomeni scientifici quanto quelli in cui sono descritte scene o fatti raccapriccianti. Vi sono alcuni refusi, ma non tali da compromettere la bontà del lavoro nel suo complesso.

Per quanto attiene all’originale arabo, l’attenzione rivolta al particolare investe più aspetti, dalla descrizione minuziosa dell’oggetto o del fenomeno preso in esame all’interesse, pure in questo caso, per il pubblico al quale l’autore si rivolge. Egli dichiara, nell’introdurre questo compendio, di aver estratto dall’opera in tredici capitoli «gli eventi contemporanei, e le rovine presenti e vedute, dato che sono più vicini alla verità, e perché quella parte ispira e stimola più confidenza e ammirazione. Infatti, ogni cosa a parte ciò che ho personalmente veduto è già stato trovato o la maggior parte d’esso, ed in alcuni casi tutto, negli scritti dei miei predecessori. Ho dedicato due capitoli di tale opera alle cose viste e le ho estrapolate per formare questo libro. Ho fatto alcuni tagli e aggiunte rispetto al primo lavoro per renderlo più semplice da terminare nonché più influente quando lo offrirò al Principe […]» [p. 26], Abū ’l-‘Abbās Aḥmad, noto come al-Nāṣir li-Dīn Allāh (r. 1180-1225). Si può ipotizzare che ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī si rivolga al califfo abbaside operando un’oculata e accorta scelta di tematiche e argomenti al fine di guadagnarsi il favore suo e della Corte, da un lato, e, dall’altro, per tentare di raggiungere quello che potrebbe essere stato il suo più segreto intento, ossia affermare la bontà del metodo razionalistico aristotelico, così come attestato nell’Occidente arabo-islamico da Averroè e, in Egitto e in Oriente, da ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī medesimo, il quale, ancora nell’introduzione-dedica, scrive: «Il servitore di Dio deve approssimarsi a Dio divenendo maturo […]. Dio […] vuole che i veri Fedeli riuniscano le tre norme che formano la perfetta fede: la fede del cuore, la parola della bocca e l’azione dei sensi» [p. 27].

In conclusione, un rinnovato ringraziamento va all’attività di Ahmed F. Kzzo e Nikola D. Bellucci che, con questa loro fatica, hanno permesso al lettore italiano di avvicinarsi a uno dei più noti precursori di Dominique Vivant Denon (1747-Parigi 1825), il quale, com’è risaputo, fu uno degli uomini al seguito di Napoleone nella sua campagna d’Egitto e colui che ha lasciato un resoconto di viaggio che ci restituisce uno sguardo lucido, disincantato, ma anche ammirato, sognante e amoroso sull’Egitto faraonico e non. Lo stesso tipo di sguardo che ritroviamo in ‘Abd al-Laṭīf al-Baġdādī diversi secoli prima.

Paola Viviani


1L’autore si dilunga sulla descrizione delle piramidi di Giza.

2Qui si utilizza la traslitterazione adoperata nel volume.

3C.M. Bonadeo, ʿAbd al-Laṭīf al-Baġdādī’s Philosophical Journey. From Aristotle’s Metaphysics to the ‘Metaphysical Science’, Brill, Leiden-Boston 2013, p. 108.

4Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano 19942, p. 3.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno XII, numero 23, giugno 2022

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L’Autore

Paola Viviani | Assistant Professor in Arabic Language and Literature at Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet”.