Mervat F. Hatem, Literature, Gender, and Nation-Building in Nineeteenth-Century Egypt. The Life and Works of ‘A’isha Taymur, Literatures and Cultures of the Islamic World, Palgrave Macmillan, New York 2011, pp. 234.

Il volume di Mervat Hatem, che insegna Scienze Politiche alla Howard University, esamina la vita e la produzione letteraria dell’intellettuale ‘A’isha Taymur1 (1840-1902) rivalutandone l’apporto teorico alla costruzione della nuova società egiziana tra fine ’800 e inizio ’900. Lo scopo dichiarato dell’autrice è di dimostrare come la letteratura e l’evoluzione dei ruoli di genere abbiano contribuito a trasformare l’Egitto da provincia ottomana a comunità nazionale di lingua araba. Vita e opere di ‘A’isha Taymur sono oggetto di una attenta decostruzione, tesa a superare la narrazione tradizionale in favore di un minuzioso inquadramento nel contesto socio-politico dell’epoca.
La densa prefazione del libro esplicita fin dal titolo «Why Study ‘A’isha Taymur?» i motivi per cui Hatem ha scelto di dedicarsi a questa poliedrica intellettuale. Il punto di partenza è la volontà di scardinare la concezione tradizionale secondo cui intellettuali come Rifa‘ al Tahtawi e Qasim Amin siano stati i fondatori delle rivendicazioni dei diritti femminili in Egitto2. In quest’ottica, ‘A’isha Taymur è stata a lungo considerata come poco innovativa per lingua, stile e temi. Ne è un esempio la sua biografia, scritta dall’intellettuale siro-libanese Mayy Ziyada nel 1925: Ziyada, definita da Hatem «modernista», liquida l’opera di ‘A’isha Taymur come tradizionale, mentre paradossalmente presenta la stessa Taymur come una pioniera per la sua presenza nella scena letteraria. Secondo Hatem, la concezione modernista privilegia lo studio del contributo femminile alla questione di genere senza porre attenzione alle istanze politiche e sociali più ampie. Così le idee di ‘A’isha Taymur sul governo islamico e il suo linguaggio complesso e stratificato sono stati considerati retrogradi, quando invece, contestualizzati nei cambiamenti in atto in Egitto, rivelano la lungimiranza dell’autrice e un modello esemplare del ruolo della letteratura nella costruzione di un nuovo modello nazionale.
Il primo capitolo, «The Changing Islamic-Ottoman World of the Taymur Family», è dedicato a una lettura interpretativa della vita di ‘A’isha Taymur, con il fine dichiarato di scoprire elementi di continuità e cambiamento. La nobile famiglia turco-circassa Taymur, legata alla dinastia al potere in Egitto, rappresenta la società ufficiale e l’educazione formale cui la giovane ‘A’isha ha accesso; la madre, schiava e concubina, contraria all’educazione letteraria della figlia, dimostrerebbe uno snodo problematico nella formazione della personalità dell’autrice, ascrivibile al contesto della schiavitù dell’epoca e alla segregazione di genere. Hatem riconosce come le sue deduzioni possano mancare del supporto di dati oggettivi, assenti nelle biografie a sua disposizione, ma sostiene che tale impasse sia risolvibile con un nuovo modello interpretativo, basato su teorie femministe che esaminano la psicodinamica della maternità nei contesti patriarcali. Questo approccio è applicato anche nell’analisi del legame tra ‘A’isha Taymur e l’amata figlia Tawhida, morta a vent’anni e descritta dalla madre come ancora più colta di lei. In questo modo Hatem supera la costruzione canonica della biografia di ‘A’isha Taymur, offerta soprattutto da Zaynab Fawwaz3, ponendola in un’ottica di transizione dei ruoli tradizionali nella costruzione di un nuovo modello sociale.
Il secondo capitolo, «Literature and Nation-Building in Nineteenth-Century Egypt», offre un dettagliato quadro storico-politico e letterario. Si sottolineano i ruoli del capitalismo mercantile, della riforma dell’educazione, del ruolo della stampa, dell’apporto delle traduzioni (in particolare il Télémaque di Fénelon in turco e poi in arabo) nella transizione culturale dell’epoca. Il genere delle maqāmāt e del romanzo sono indicati come poli del binomio tradizione/modernità, entro i quali ‘A’isha Taymur si muove con la sua produzione variegata, analizzata in dettaglio nei capitoli successivi, sempre in attenta relazione con il contesto.
Il terzo capitolo, «The Crisis and Reform of Islamic Dynastic Government and Society», è dedicato difatti al testo Natā’iǧ al-aḥwāl fī ’l-aqwāl wa ’l-af‘āl (Conseguenze del cambiamento in parole e fatti, 1887-8), unico lavoro di narrativa di ‘A’isha Taymur. Hatem non si concentra sul suo ruolo nello sviluppo del romanzo arabo, ma sulla sua continuità strutturale e tematica con le Mille e Una Notte, in un’analisi più politologica che letteraria. Le due opere sono accomunate dall’interesse per la costruzione della comunità nazionale e dalla preoccupazione per l’evoluzione del governo dinastico islamico, in una rappresentazione letteraria di crisi e riforma analoga a quella in corso nell’Egitto di fine ’800. ‘A’isha Taymur riflette sul “buon governo islamico”, e sul ruolo che vi possono avere uomini e donne, in un contesto di fratellanza che porti verso la costruzione di istanze nazionali condivise.
Il quarto capitolo, «From Fiction to Social Criticism», indaga invece il saggio Mir’āt al-ta’ammul fī ’l-umūr (Lo specchio della riflessione, 1892), in cui l’autrice commenta i cambiamenti sociali in atto. Le sue osservazioni sfociano in una reinterpretazione dei diritti delle donne in una prospettiva islamica, narrata attraverso un dialogo immaginario con uno šayḫ. Secondo Hatem, Taymur sostiene che l’abdicazione ai valori tradizionali islamici abbia portato alla limitazione dei diritti e di conseguenza a una condizione sociale ingiusta verso le donne. Nondimeno descrive la propria epoca come illuminata, dandone il merito indiretto alla dinastia al governo, perché artefice di cambiamenti che potrebbero ripristinare lo status corretto di un governo islamico. Questa posizione, come nota Hatem, è stata attaccata dai contemporanei, dando il via al primo dibattito pubblico sulle istanze di genere poi concretizzato da al-Tahtawi e Amin.
Nel quinto capitolo, «Hilyat al-Tiraz. Hybridity, the Intersection of the Old and the New, and Private and Public Struggles», l’analisi si sposta sull’unico dīwān in arabo di ‘A’isha Taymur, la quale compose versi anche in persiano e in turco, ritenuti però poco rilevanti nella propria costruzione identitaria. Il dīwān delle poesie in turco e persiano fu pubblicato a Istanbul in data ignota. Sappiamo inoltre dalle parole della stessa ‘A’isha Taymur che, in seguito alla morte della figlia, bruciò in segno di cordoglio la maggior parte delle sue opere poetiche e tutti i lavori in persiano [pp. 38-39]. Il titolo Ḥilyat al-ṭirāz (1892), di solito tradotto letteralmente come Ornamenti ricamati, è secondo Hatem un gioco di parole che andrebbe meglio reso come Il meglio della propria categoria; l’autrice non avrebbe scelto un richiamo all’arte femminile del ricamo da cui aveva preso con decisione le distanze in passato, ma una stratificazione semantica per parlare sia al pubblico maschile che a quello femminile. Nella visione di ‘A’isha Taymur la poesia è la dimensione in cui umano e divino si incontrano, e in cui la ricca lingua letteraria magnifica il linguaggio coranico. L’arte dei versi è per l’élite culturale non una forma ricreativa ma piuttosto un obbligo verso la comunità. è con questo spirito che la poetessa usa l’arabo come propria lingua, identificandosi quindi nella arabicità nonostante le radici turco-circasse, e ricostruisce una genealogia poetica femminile per sancire una continuità del suo ruolo pubblico. Al contempo, i temi del dīwān indicano ancora il cambiamento della comunità, dalla definizione del ruolo femminile secondo l’Islam alle riflessioni personali contrapposte alla poesia religiosa, dalla critica della modernità al recupero della cultura popolare. In sintesi, la poesia in arabo per ‘A’isha Taymur è un impegno politico attivo per legare l’entità geografica dell’Egitto (quṭr) alla sua popolazione (nās e qawm). Non manca nell’analisi di Hatem un accenno al recupero del genere elegiaco, rinnovato nella sua accezione tradizionalmente femminile attraverso il pianto per una congiunta invece che per un consanguineo, sempre nell’ottica che riunisce continuità e cambiamento.
Hatem conclude il volume con il capitolo «The Finest of Her Class», riflettendo su come nell’opera di ‘A’isha Taymur si sviluppino considerazioni a supporto dello sviluppo di una vera e propria agenda politica, con l’obiettivo di mettere la modernità al servizio della società islamica, in una ideale terza via tra approccio conservatore e riformista.
La minuziosa analisi di Hatem a volte diventa troppo speculativa, attribuendo intenzioni e significati non sempre supportati dall’evidenza testuale. Ciò nonostante lo studio mantiene una prospettiva rigorosa, la cui originalità è nell’uso della lente politologica per l’analisi di una produzione di alto livello letterario, negli ultimi vent’anni accostata agli studi di genere. Non a caso il riferimento teorico più citato è Benedict Anderson con le sue Comunità immaginarie; l’intento è uscire dall’impostazione finora predominante che circoscrive le opere delle intellettuali al pensiero delle donne sulle donne, calandole invece nel percorso intellettuale dell’epoca. L’auspicio è che ci siano in futuro altri studi di questo tipo sulle autrici di fine ’800 e inizio ’900 come ad esempio Wardah al-Yāziǧī e Bāḥiṯat al-Bādiyah, in un’ottica di riscoperta e narrazione alternativa di ampio respiro.

Mariangela Masullo


1 I nomi sono citati così come appaiono nel testo.
In realtà questo argomento è stato già oggetto di attenti studi da parte di Beth Baron (The Women’s Awakening in Egypt: Culture, Society and the Press, Yale University Press, New Haven-London 1994) e Marilyn Booth (May her Likes be Multiplied: Biography and Gender Politics in Egypt, University of California Press, Berkeley 2001), come la stessa Hatem riconosce, pur circoscrivendone i campi di indagine a una «narrativa contromodernista» focalizzata sui giornali femminili tra il 1892 e gli anni ’20 del ’900. A questi studi si possono aggiungere quelli di Margot Badran (Feminists, Islam, and Nation. Gender and the Making of Modern Egypt, Princeton University Press, Princeton 1995) e Leila Ahmed (Oltre il velo, trad. di G. Graziosi e M. Baccianini, La Nuova Italia, Scandicci 1995).
Autrice del dizionario biografico femminile Kitāb al-durr al-manṯūr (Libro delle perle sparse, 1894-1895), in cui dedica una voce ad ‘A’isha Taymur.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VI, Numero 12, dicembre 2016

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