Leonardo Capezzone, Elisabetta Benigni (a cura di), Paradossi delle Notti. Dieci studi su Le mille e una notte, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2015, pp. 203.

Il volume Paradossi delle Notti è, come recita il sottotitolo, una raccolta di saggi incentrati prevalentemente su alcuni aspetti dell’intricata e magmatica materia narrativa delle Mille e una notte. Dico “prevalentemente” perché vi è compreso un contributo, quello di  Michelina di Cesare, che verte, invece, sul rapporto di Pietro Alfonsi, «uno dei più importanti operatori culturali del medioevo», con gli Arabi [pp. 79-100] nel quale Le Notti non sono oggetto di riflessione. La raccolta di racconti orientali, dalla storia lunga e complessa, da oltre un decennio è al centro dell’attenzione di singoli studiosi o, più spesso, di gruppi di ricerca internazionali adeguatamente costituiti all’insegna dell’interdisciplinarietà per affrontare i molteplici aspetti dell’opera, dalla sua storia testuale alla forza generativa di singoli nuclei narrativi o di interi romanzi inglobati in seguito al suo interno. In un bel contributo dal titolo Sulla natura paradossale delle Mille e una notte. Un’introduzione [pp. 9-15], Leonardo Capezzone spiega come il progetto, nato per ragioni personali e amatoriali dei curatori (egli stesso ed Elisabetta Benigni) sia caratterizzato da «una sostanziale mancanza di filo conduttore» e presenta il volume sotto forma di una «vera, forse un po’ fuori moda, miscellanea di letture critiche sulle Notti» [p. 10].
In realtà, subito dopo, lo studioso prova a rintracciare nella nota natura paradossale delle Notti (si pensi, ad esempio, al suo carattere “instabile”, alla mancanza di un “autore” o alle talora sostanziali divergenze tra le diverse edizioni, al suo peculiare statuto “medio”) l’elemento di connessione dei differenti contributi.
L’articolo con il quale la raccolta si apre è quello di Marco Di Branco, Tra Bisanzio e la Persia. Nota su Yūnān e Rūm nelle Mille e una notte [pp. 17-25], nel quale lo studioso intende soffermarsi su aspetti dell’onomastica e della toponomastica presenti in alcune storie per rintracciarvi gli echi provenienti dall’area culturale greco-romana e per mostrare come essi, peraltro, chiamino in causa la tradizione medio-persiana. I nomi, ad esempio il Farīdūn della Storia del re ‘Umar al-Nu‘mān o il Yūnān, protagonista del racconto eponimo, farebbero riaffiorare, come è noto, i più antichi strati delle Notti. Di fatto, egli tratta, forse un po’ frettolosamente, l’onomastica di due racconti delle Mille e una notte, ossia la Storia del re Yūnān e del saggio Dūbān, parte del nucleo più antico dell’opera, e la Storia del re ‘Umar al-Nu‘mān. Affrontare le storie delle Notti da una prospettiva interdisciplinare comporta delle ovvie difficoltà che lo stesso Di Branco, in apertura, segnala. La riflessione metodologica da lui avviata su possibili semplificazioni nelle quali può incorrere chi tenta l’approccio interdisciplinare non è, però, a mio avviso, del tutto condivisibile, ancor più se quelle semplificazioni sono le stesse nelle quali lui incorre.
Egli, inoltre, nel corso del suo ragionamento, tende a minimizzare il fatto che la dimensione dell’immaginario, propria della letteratura, scardina ogni rappresentazione monolitica della realtà e delle identità. Lo confermano le indagini più valide sulle Notti condotte nell’ultimo decennio; queste ultime, infatti, sono quelle di studiosi italiani e stranieri che, consapevoli dei loro rispettivi limiti, hanno deciso, con umiltà e onestà intellettuale, di dialogare e confrontarsi continuamente fra loro, conseguendo in tal modo risultati significativi.
Lampeggiar di iranismi tra una notte e l’altra è il titolo del «divertissement», così lo definisce Capezzone nella sua Introduzione, di Gianroberto Scarcia [pp. 28-35]. L’autore, in effetti, non ci propone una lettura “critica” di un testo, ma si lascia andare a un affascinante racconto dei suoi primi passi «a buscar Levante». Solo brevemente, esprimendo impressioni, egli ragiona sull’«immediatezza» genuina delle Notti dettata dall’ideologia che le pervade: «La “ideologia” delle medesime – scrive l’autore –, dalla prima alla numero milleuno, segue soprattutto la battaglia quotidiana, all’ultimo sangue, e di disperato sperare, dei poveracci contro il Potere, registra lo sgretolamento oggettivo, ineluttabile, dei loro corpi dentro gli ingranaggi della Ruota, senza la minima traccia non dico di temerarie, capaniche e odisseiche forme di “laicismo”, ma addirittura di dignità negli umiliati e negli offesi; questi restano aggrappati alle sole loro risibili e vane furberie. È, quello, un Oriente che fa pena e paura»  [p. 31].
Roberta Denaro, in un contributo dal titolo La lezione dell’adulterio: su due versioni del racconto cornice delle Mille e una notte [pp. 37-50], mette a confronto il plot dell’adulterio nel racconto cornice dell’edizione Būlāq, nel quale rileva una tendenza a comprimere le storie, e in quello dell’edizione Mahdī, in cui si registra, per converso, oltre a una maggiore vivacità nella narrazione, anche un processo di amplificazione. La studiosa si sofferma, inoltre, sia sull’implicita valenza politica sottesa alla scelta dello schiavo nero come amante, sia sulla rappresentazione della regalità in rapporto all’adulterio. Per effetto di quest’ultimo, infatti, entra in crisi il mulk: la scoperta del tradimento, come è noto, inficia la capacità del Principe di regnare e lo induce all’abdicazione.
Biancamaria Scarcia Amoretti presenta, nel suo L’Islam nelle Mille e una notte: un sondaggio [pp. 51-77], un’analisi di alcuni significativi elementi dell’opera. La studiosa esamina, infatti, le rappresentazioni dell’altro e dell’altrove nelle Notti, nonché ulteriori aspetti connessi alle modalità attraverso le quali si manifestano, nelle storie, gli elementi più strettamente religiosi e giuridici. La questione di fondo è, trasferita all’oggi, per dirlo con le parole dell’autrice: «quanto un islam impoverito e storicamente scorretto è stato percepito, interiorizzato dal lettore occidentale moderno, e quanto è atteggiamento ‘orientalistico’ inteso alla Said» [p. 76]. Scarcia Amoretti rileva nel testo una certa “povertà culturale” che, ipotizza, potrebbe essere la ragione fondamentale per la quale dotti e filologi arabi del X secolo, fra i quali Ibn al-Nadīm, non hanno individuato nella raccolta di storie, opera anti-canonica per eccellenza, quelle potenzialità narrative che, invece, le sono state attribuite in Occidente. La parte conclusiva riprende uno scritto sulle Notti di Orhan Pamuk che sembra fornire una prova e dare legittimità agli interessanti quesiti posti dalla studiosa.
A Francesca Bellino si deve un contributo dal titolo I sette viaggi di Sindbād il marinaio [pp. 101-129] nel quale la studiosa ripercorre, avvalendosi di una ricca e aggiornata bibliografia, la storia testuale del detto nucleo narrativo che si configura come uno dei più interessanti e avvincenti romanzi della letteratura araba, poi inglobati nella raccolta orientale, e i suoi rapporti con la letteratura geografica e le ‘aǧā’ib. Bellino riprende l’ipotesi avanzata da De Goeje, in seguito abbracciata da Casanova, secondo la quale il Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, ossia Il libro delle strade e dei regni, del geografo Khurradādhbih potesse essere parte della più antica redazione dei Viaggi. La studiosa esamina, lasciando aperte ovviamente le questioni, le redazioni manoscritte “A” e “B” e si sofferma, altresì, sull’ultima fase della loro storia testuale, quella che si inscrive nell’altrettanto complesso ambito della storia occidentale delle traduzioni delle Mille e una notte. Il paragrafo conclusivo del suo saggio si intitola, non a caso, Tradurre i Viaggi di Sindbād: prediligere la migliore versione o dare origine ad una nuova redazione?
La Commedia decaduta delle Mille e una notte: il viaggio nella Città di rame di Alessandro Spina [pp. 131-162] è il titolo del contributo di Elisabetta Benigni che ci conduce in un ambito degli studi culturali poco praticato nelle indagini sulle Notti, quello della storia delle traduzioni che ne sono state fatte in Italia. La studiosa si concentra, in modo particolare, sulla traduzione della storia della Città di Rame effettuata dal romanziere e saggista di origini siriane Alessandro Spina che, operando in Libia, «ha voluto e saputo fare del mondo arabo l’epicentro e il contraltare del suo pensiero narrativo e l’oggetto principale delle sue opere». L’autrice si sofferma, preliminarmente, sull’amicizia e la corrispondenza epistolare tra Alessandro Spina e Cristina Campo (già evidenziata da Maria Concetta Sala nel saggio Cristina Campo, la fiaba, le Notti del 2006 contenuto nel volume da me curato Sulle orme di Shahrazad: le Mille e una notte fra Oriente e Occidente, pp. 277-296) che, attratta dal genere della fiaba e dai relativi temi, gli aveva commissionato la traduzione di questa particolare storia che, in sede scientifica è stata variamente interpretata (Hamori 1975; Jenequand 1992; Dakhlia 1998, Weber 1989, ecc.). Seguono una sinossi della storia e un’analisi di alcune scelte traduttive della Città di Rame, messe a confronto con quelle effettuate da Costantino Pansera per la classica edizione Einaudi coordinata da Francesco Gabrieli. Le differenze di stile, conclude l’autrice, furono dovute non solo alle due diverse edizioni sulle quali le traduzioni furono condotte, ma anche alle sfere di provenienza dei traduttori e all’orizzonte d’attesa al quale essi rivolgevano l’attenzione, nonché, per quanto riguarda Spina, a quello sforzo di comprensione e di “ospitalità culturale” che lo scrittore mutuò da Louis Massignon.
A Richard Van Leeuwen si deve un saggio dal titolo Stories without end: Italo Calvino and the Thousand and one Nights [pp. 163-178]. Al centro dell’attenzione dello studioso vi è il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore che, come è noto, intrattiene rapporti strutturali e contenutistici con le Notti orientali. Basti pensare al racconto cornice, alle storie che generano, a loro volta, altre storie, al procedimento narrativo dell’interruzione. Lo studioso conduce, come è solito fare nelle sue ricerche, un’analisi raffinata a vari livelli nella quale, però, sembra stranamente ignorare la bibliografia preesistente in materia. In un suo libro dal titolo L’ombra di Sheherazade. Suggestioni dalle Mille e una notte nel Novecento italiano, Marina Paino dedica un intero capitolo, intitolato Calvino alle porte di Baghdad [pp. 77-112], ai complessi rapporti, spesso mediati da altri scrittori, fra i quali Borges o Poe, solo per citarne due, fra l’autore italiano e le storie orientali. Anche Mohammed Mokhtari ha dedicato alla tecnica dell’interruzione in Se una notte d’inverno un viaggiatore un contributo, L’interruzione in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di I. Calvino e nelle «Mille e una notte». Lezioni di ricezione e di vita, pubblicato nel già citato volume Sulle orme di Shahrazad: le Mille e una notte fra Oriente e Occidente, pp. 205-219).
Il volume si conclude con un ricco saggio di Marco Lauri dal titolo La soglia e il sapiente. Appunti sulle Notti e la Science Fiction [pp. 179-203]. Lo studioso prende le mosse dall’affermazione di Irwin: «gli ingredienti base della moderna fantascienza, sono tutti presenti nei racconti delle Mille e una Notte» per avviare una riflessione sulle relazioni fra le Mille e una notte e alcuni elementi della moderna fantascienza di lingua inglese. Lo studioso coglie, ad esempio, facendo appello alla prudenza e specificando il problematico “science” del nome del genere letterario in questione, delle analogie fra la storia del Cavallo d’ebano e il Nautilus, o con la Macchina del tempo che consente sconfinamenti nello spazio e nel tempo per l’appunto o, ancora fra Sindbād che vuole viaggiare e conoscere il mondo e la serie di Star Trek. Il tema delle civiltà perdute, ad esempio, che lasciano dietro di sé superstiti e rovine, è presente nella fantascienza archeologica (History Lesson di Arthur C. Clarke o, dello stesso autore, The Star, o anche la novella Omnilingual di H. Beam Piper) e nelle Notti. La terza e ultima parte del saggio si intitola Genealogia ed è dedicata a tappeti volanti (la saga di Hyperion di Dan Simmons, il romanzo Wyrm di Orson Scott Card) e a racconti di fantascienza che imitano consapevolmente alcune novelle delle Notti (The Merchant and the Alchemist’s Gate di Ted Chiang). Sono molteplici, e qui non facilmente riassumibili, le suggestioni offerte da Marco Lauri che meriterebbero di essere accolte e approfondite in un vero e proprio lavoro monografico.

Mirella Cassarino

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VII, numero 13, giugno 2017

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Mirella Cassarino |