Le memorie di una donna divorziata, Yawmiyyāt muṭallaqah (Diario di una ripudiata) di Hayfā’ Bīṭār, al-Dār al-ʻarabiyyah li ʼl-ʻulūm nāširūn – Arab Scientific Publishers, Inc., Bayrūt 2006, pp. 93 (I ed. Yawmiyyāt muṭallaqah, al-ʼAhālī li ’l-ṭibāʻa wa ’l-našr wa ’l-tawzīʻ, Dimašq 1994).

Qualcuno potrebbe pensare, a prima vista, che Yawmiyyāt muṭallaqah di Hayfā’ Bīṭār[1] sia l’ennesimo racconto di una donna sottomessa e maltrattata, come se ne trovano in abbondanza nei media, soprattutto in relazione alla condizione femminile nel mondo arabo. E invece no. Sebbene l’autrice non risparmi dure critiche alla società conservatrice in cui vive, la sofferenza legata al divorzio da lei raccontata è la stessa che proverebbe qualsiasi donna che si trova ad affrontare una simile esperienza.

La storia inizia con l’immagine della “scatola degli anni”, in cui la protagonista ha rinchiuso tutti i suoi anni passati sotto forma di fogli di carta, riuscendo finalmente a distanziarsi dalla donna che è stata, a guardarla con più freddezza. Adesso si diverte a giocare con i suoi ricordi: pesca un foglio dalla scatola, si sdraia sul divano, appoggia il foglio sulla fronte, chiude gli occhi e rivede gli episodi del suo passato come in un film. I vari episodi rivissuti attraverso la scatola degli anni costituiscono, quindi, i capitoli del romanzo.

La protagonista rivede se stessa, una donna sulla trentina che vive in casa dei genitori con la figlia piccola e passa le sue giornate tra il lavoro all’ambulatorio, le esigenze della bambina e l’insonnia che non le dà pace. Guardando suo padre e sua madre, coppia armoniosa ed equilibrata, si sente sola e frustrata perché la sua situazione non le permette di fare progetti per il suo futuro e quello della bambina. Così si presenta la sua vita dopo la separazione dal marito, avvenuta poco dopo la nascita della piccola. Le liti fra i due erano così frequenti da costringere suo zio ad intervenire nel ruolo di “mediatore”, proponendo una separazione temporanea per calmare le acque. Tuttavia nessuno dei due aveva, poi, fatto un passo per riavvicinarsi all’altro e le settimane di separazione sono diventate mesi e poi anni. La protagonista rivive i primi tempi, quando continuamente sperava che il marito la riprendesse con sé, ed era in preda all’angoscia le due volte alla settimana in cui  doveva portargli la figlia, come aveva stabilito il tribunale. Quando inizia ad abituarsi all’idea della separazione, anche se il divorzio non è ancora definitivo, diventa l’amante di un uomo sposato, ma ben presto si rende conto che si tratta soltanto di un estremo bisogno di affetto e non di effettivo interesse verso questa persona. La relazione provoca però la rabbia del padre, che smette di rivolgerle la parola. La donna inizia allora a porsi delle domande: i principi liberali secondo i quali è stata educata erano dunque solo parole? Dopo anni di sofferenza e di depressione, la piaga lentamente si rimargina, grazie all’affetto puro e innocente della figlia, Lamā, finché un mattino la protagonista si scopre guarita: affida la figlia ai nonni e parte per l’Egitto, in quello che chiamerà “il viaggio della libertà”. Lì riesce ad incontrare il suo grande maestro, lo scrittore egiziano Nağīb Maḥfūẓ, che la incoraggia a coltivare il suo dono per la scrittura, che sarà, assieme all’amore filiale, la sua seconda grande medicina. Tornata a casa scopre, dopo quattro anni di separazione, che il marito è disposto a riprenderla con sé. Ora che farà? Tornerà a vivere con un uomo che non ama per il bene della bambina, che ha bisogno di una madre e di un padre? Oppure chiederà il divorzio definitivo? La questione è lasciata in sospeso.

Sebbene la copertina del testo porti la dicitura “romanzo”, gli spunti autobiografici dell’opera sono evidenti. L’autrice, però, evita accuratamente i nomi propri: l’unico citato è quello della figlia, Lamā, che comunque compare solo verso la fine. Per il resto i personaggi sono conosciuti solamente attraverso il loro rapporto con la protagonista, anch’essa anonima: la madre, il padre, lo zio, il marito, ecc. Tutti i personaggi sono caratterizzati da un’estrema umanità: nessuno di loro è totalmente positivo o totalmente negativo, ognuno ha i suoi pregi e i suoi difetti, cosa che li rende profondamente veri. Anche la città in cui è ambientato il racconto rimane anonima, e tuttavia è facile comprendere che si tratta di una città della Siria, probabilmente proprio la stessa Latakia da cui l’autrice proviene.

La società araba viene criticata in molti suoi aspetti, soprattutto per il suo attaccamento alle tradizioni. Una delle accuse maggiori riguarda la pressione esercitata sulle ragazze per spingerle al matrimonio: la protagonista, ad un certo punto, si chiede perché abbia sposato un uomo che non amava, visto che la sua famiglia non l’aveva costretta e si rende conto di averlo fatto semplicemente per paura di rimanere zitella. La pressione della società è quindi, spesso, più forte di quella della famiglia. Questa visione del matrimonio, unita all’importanza attribuita alla verginità della sposa, fa sì, inoltre, che la donna divorziata venga da un lato duramente criticata e, dall’altro, considerata una preda facile dagli uomini, per i quali sarebbe impossibile avvicinare una ragazza vergine. In un altro passaggio l’autrice lamenta, invece, la mancanza di libertà di espressione, soprattutto per le donne:

Perché quando parlo di lui la mia mano trema, come se stessi commettendo un peccato? Io sono convinta che ogni essere umano abbia le sue esperienze, ma che una donna si metta a raccontare le sue continua a sembrarmi una vergogna [pp.70-71].

Altrove, l’autrice si propone anche di rompere, coraggiosamente, tutti i tabù:

Io mi alzerò in piedi con coraggio e fiducia, e solleverò il velo per dire tutto quello che non dovrei dire, e questo è il momento in cui sento di più che sto rispettando me stessa profondamente. Che io possa saziare l’avidità degli occhi indiscreti che non si stancano di osservare attraverso i buchi e le fessure! Osserverò i curiosi con freddezza e fiducia in me stessa mentre si leccheranno le labbra dal piacere per ciò che racconterò, credendo che il mio obiettivo sia lo scandalo. Alla fine vedremo chi sarà ad abbassare la testa e a guardare in terra per sfuggire al confronto con l’altro, io o loro. Io li vedo già, e sento i loro sguardi sconfitti, perché non ho fatto altro che portare uno specchio magico che riflette la verità su loro stessi [p. 10].

Nel narrare la sua esperienza, l’autrice mette in pratica questa scelta coraggiosa, anche se il racconto predilige l’utilizzo di immagini e allusioni. Benché, forse, sia proprio questa scelta di stile a contribuire all’efficacia della narrazione.

I vari episodi del romanzo non sono narrati in ordine cronologico: da una parte, c’è un continuo alternarsi tra passato e presente, tra la donna che gioca con la scatola degli anni e quella protagonista dei ricordi rievocati; dall’altra, poiché ella pesca a caso tra i fogli, i ricordi stessi vengono rivissuti in ordine sparso. La cosa però non disturba la comprensione del lettore, in quanto l’accento è posto non tanto sugli avvenimenti in sé, che spesso sono solamente accennati, quanto sulle emozioni. La protagonista ripercorre il suo passato e cerca di analizzare, col senno e la serenità del poi, le sensazioni e i sentimenti che ha provato, tentando di scomporli per comprenderne le cause e gli effetti. Questa operazione viene compiuta con l’aiuto di immagini e metafore, molto evocative, che sembrano condurre il lettore verso il mondo dell’inconscio, individuale e collettivo.

Questo breve romanzo può forse risultare eccessivamente malinconico in certe sue parti, ma ha il merito di poter essere universalmente apprezzato, perché, come ha affermato lo scrittore egiziano Ǧamāl al-Ġīṭānī, si tratta di «una scrittura nuova, molto fine, che esprime la sofferenza della donna araba con una sincerità rara e un bello stile, ma allo stesso tempo in essa le questioni travalicano il loro contesto limitato per diventare espressione dell’essere umano, uomo o donna che sia, in ogni tempo e in ogni luogo».

Mara Rossi

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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Mara Rossi |