La storia recente della Siria raccontata da una giovane attivista nel romanzo Elogio dell’odio (Madīḥ al-karāhiyah) di Ḫālid Ḫalīfah (Khaled Khalifa), nella traduzione di F. Prevedello, Bompiani, Milano 2011, pp. 529 (ed. araba: Dār al-Ādāb, Bayrūt 2008 ).

Aleppo, la “capitale” della Siria settentrionale, è un agglomerato urbano con il suo centro focale nell’antica cittadella fortificata ben conservata e dal fascino ancora intatto. A pochi metri di distanza, si può visitare il famoso mercato coperto dalle volte in pietra che, come ogni altro sūq, risuona di mille voci, risplende di colori sgargianti, si arricchisce di oggetti preziosi. Tra le tante delizie che vi si possono trovare, i tappeti provenienti da regioni anche remote che, tuttavia, per secoli e secoli sono state raggiunte dai più audaci mercanti, pronti a rivaleggiare tra di loro pur di ottenere il massimo guadagno, a premio tangibile dei loro immani sforzi e della loro bravura.

Ad una famiglia di celebri e decantati mercanti di tappeti appartiene la protagonista senza nome di Elogio dell’odio, il romanzo che il siriano Ḫālid Ḫalīfah (1964) ha pubblicato cinque anni fa e che è stato bandito in patria a causa degli argomenti scottanti toccati. L’opera racconta delle lotte intestine che dilaniarono la Siria tutta tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, quando le forze al potere e quelle all’opposizione diedero inizio ad una lunga e cruenta catena di morte e di desolazione che portò il paese quasi sull’orlo della distruzione. Elogio dell’odio sembra a tratti essere una cronistoria dei tragici eventi allora succedutisi, ma non è principalmente questo. È soprattutto la storia di una grande e importante famiglia che vede il proprio declino dipanarsi inesorabilmente dinnanzi ai suoi stessi occhi. Non sono soltanto i mutamenti cui va incontro la società nel suo implacabile cammino a determinare i cambiamenti, bensì alcune forze interne alla stessa famiglia. Non si tratta, però, dell’amore per le donne, il gioco o l’alcool, o le relazioni sfortunate, o l’infelicità di matrimoni combinati, o la solitudine, o la vecchiaia, o i pressoché naturali rivolgimenti sociali. Si tratta, piuttosto, della volontà espressa e perseguita concretamente da alcuni membri della dinastia di ergersi ad araldi di determinate convinzioni politiche e religiose. Eroina del romanzo è una ragazza che, insieme col fratello maggiore e uno zio materno, cui si aggiungerà uno zio acquisito, rischiano la vita in nome di convincimenti contrari a quelli del regime al potere nella Siria di quegli anni, e cioè credono negli ideali dell’integralismo islamico.

Nel corso del lavoro, Ḫālid Ḫalīfah dà un resoconto dettagliato – anche se spesso con una leggerezza disarmante e, naturalmente, voluta – delle dure condizioni di vita dei propri connazionali al tempo. In particolare, essendo un siriano del Nord che conosce Aleppo a fondo, riesce magistralmente ad intessere tra loro le trame dell’esistenza dei vari personaggi ed esse alla storia della città, che diventa l’altra grande protagonista dell’opera. Come nei romanzi precedenti di questo autore molto stimato dal pubblico e dalla critica, l’ambiente in cui si svolgono i fatti non funge mai soltanto da mero contenitore, bensì da comprimario. Aleppo è, quindi, una involontaria e rassegnata testimone delle lotte fratricide che oppongono gli uni agli altri i suoi abitanti, i quali si divideranno in due importanti schieramenti. Da una parte, il regime, supportato dagli Squadroni della morte, e dall’altra, i rivali, desiderosi di far cadere un governo corrotto, accusato di essersi accaparrato, con altre poche persone, le ricchezze del paese, di sfruttare la gioventù e l’avvenenza di ignare ragazze, di permettere imprigionamenti e torture inenarrabili, di avere svenduto l’anima più pura della Siria, da sempre ritenuta un luogo di pace e di tolleranza. I nemici del regime sono individui amareggiati e furiosi. Si potrebbe dire, usando un termine forse oggi abusato, che siano indignati per l’estrema dissolutezza dei costumi dimostrata dai detentori del potere. Pertanto, rifacendosi ad una lettura attenta del messaggio divino, vorrebbero instaurare un nuovo ordine, rispettoso della Legge sciaraitica. Purtroppo, nella Siria di quegli anni, ad avanzare con sempre maggiore veemenza è un odio cieco, spesso assurdo, che sfocia nell’omicidio di tante vittime innocenti.

Sono numerosi i personaggi dipinti con maestria da Ḫālid Ḫalīfah che, ancora una volta, dimostra di essere un acuto osservatore della realtà che lo circonda. I colori e gli odori della vita per lui sono di fondamentale importanza. Interessante è notare, ad esempio, che ai quadri, alle fotografie e anche ai tappeti sono riservate delle pagine di grande effetto e rilevanza nell’economia dei suoi lavori. Questi prodotti dell’estro umano vengono descritti nei loro tratti più veri, là dove l’artista riesce ad esprimere il meglio di sé.

Altrettanto interessante è la presenza, nelle opere di Ḫālid Ḫalīfah, di personaggi ciechi che non sono figure della tradizione o del folklore, come ad una lettura superficiale potrebbe sembrare. Nel contesto di Elogio dell’odio, sono raffigurati tanti uomini non vedenti e, in particolare, il domestico e profumiere Radwān che, per lungo tempo, rappresenta l’insostituibile uomo di casa, colui che, per la sua menomazione, può muoversi liberamente nell’antico palazzo e instaurare un rapporto quasi amichevole e di sincero affetto con  le sue padrone. Radwān, con la sua gioia di vivere e la sua profonda intelligenza, dà colore e odore all’esistenza dell’intera famiglia ed è come se riuscisse a infonderli pure all’ambiente circostante quando esce nel mondo ristretto del secolare mercato fino alla moschea omayyade, dove si unisce ai suoi amici ciechi.

Improvvisamente, però, l’intera città e i suoi abitanti non sentono altro che l’odore dell’odio e della morte aleggiare nell’aria: la bellezza dell’arte di Radwān, così come la leggiadria dei preziosi tappeti e la nobiltà dei palazzi delle dinastie aleppine sono distrutte dalla ruvidezza e dalla tragicità del presente e di individui che cercano in ogni modo di seppellire sempre più in profondità la propria umanità, anche se, in qualche caso, la dignità e la volontà di riscatto riescono a vincere sull’odio.

Molte sono le pagine toccanti in Elogio dell’odio, ma forse le più belle sono quelle dedicate all’esperienza di prigionia vissuta dalla protagonista insieme con sue compagne di lotta e non. Con estrema tenerezza l’autore ci parla di donne di ogni età rinchiuse in una squallida e tetra stanza che a stento riesce a contenerle tutte. Eppure proprio lì viene celebrata la vita nel modo più sorprendente: nasce un bambino che per anni sarà per tante di quelle donne, che si considerano sue madri, l’unica ancora di salvezza, soprattutto contro l’odio corrosivo che continua a consumarle e che, prima del lieto evento, dava loro gran parte della forza di cui necessitavano per sopravvivere. Purtroppo, nonostante questa esperienza, l’odio persisterà. Tuttavia, sarà accompagnato da domande sul suo significato e sul significato di una lotta fratricida che non può realmente conoscere né vinci né vincitori, giacché ad uscirne minata è un’intera società e le persone che la compongono.

Elogio dell’odio è un romanzo che merita di essere letto – e per fortuna il pubblico italiano ora può farlo grazie alla bella traduzione di Francesca Prevedello – come opera letteraria e cronaca di un periodo storico di fondamentale importanza anche per capire quello che da mesi ormai sta accadendo in tante città siriane. Non vi si parla, in realtà, solo delle vicende siriane, ma di altre zone del mondo arabo e del mondo islamico e può rivelarsi uno strumento utile per comprendere l’essenza di determinate situazioni. Il lavoro è scritto in maniera che si potrebbe definire tradizionale, venendo incontro a delle esigenze fortemente sentite dagli autori appartenenti a quella che è stata da alcuni studiosi ritenuta, in mancanza di altre soluzioni, essere la nuova corrente del post-post-modernismo. Inoltre, il testo fa riandare con la mente a forme classiche della tradizione letteraria araba quali i manuali di adab, così pieni di aneddoti che, sotto il velo dell’intrattenimento, veicolavano messaggi aventi uno scopo didattico. Nel contempo, il narratore sembra svolgere l’antica funzione del cantastorie, così popolare nelle strade e nei caffè arabi e, in questo caso, in quelli siriani, i quali proponevano ad un pubblico estasiato storie di amore e di morte, di viltà e di valore, di tradimento e di riscatto.

L’opera di Ḫālid Ḫalīfah è molto altro ancora, così come ricchissimi di stimoli sono i suoi romanzi precedenti che meritano di essere analizzati a fondo, perché sono come gli scrigni e le teche presenti nei suoi lavori e che racchiudono un tesoro che non può andare sprecato o dimenticato.

Paola Viviani

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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L’Autore

Paola Viviani | Assistant Professor in Arabic Language and Literature at Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet”.