‘Izzat al-Qamḥāwī, Madīnat al-laḏḏah (La città del piacere), Hay’at quṣūr al-ṯaqāfah, al-Qāhirah 1997; seconda edizione Dār al-‘ayn, al-Qāhirah 2009, pp. 102.

«Questo libro appartiene ad una scrittura nuova e ad una visione ancora più innovativa, dove originalità si mescola a modernità, cultura celata dei sentimenti a lingua moderna e traboccante; questo romanzo rappresenta una voce forte e ben distinta, che si accompagna ad altre voci nel panorama letterario contemporaneo, fondato su una scrittura nuova e su prospettive capaci di contenere le ansie dell’uomo e del reale, espresse in modi differenti».

Questo il giudizio di Ğamāl al-Ġīṭānī, tra le voci più autorevoli della letteratura araba contemporanea, quando il romanzo è apparso la prima volta nel 1997, pubblicato dalla casa editrice cairota Hay’at Quṣūr al-Ṯaqāfah. Il testo è giunto ad una seconda ristampa nel 2009 ed è considerato oggi una delle espressioni più particolari della produzione letteraria egiziana.

L’autore, ‘Izzat al-Qamḥāwī, è un noto scrittore e giornalista: nella sua vasta produzione letteraria Madīnat al-laḏḏah (La città del piacere) spicca per originalità tanto nello stile che nelle tematiche affrontate, per ricercatezza linguistica ed espressività letteraria. Il lettore ne rimane ammaliato e avvinto, vittima di quello che, con una forse non troppo casuale assonanza dei temi, il critico letterario francese Roland Barthes aveva teorizzato come “il piacere del testo”.

Protagonista di questo romanzo è una città fuori dal tempo e dallo spazio, moderna realizzazione di una sorta di utopia, plasmata in fretta e furia da un abile architetto. Consacrata alla Dea del Piacere che qui aveva costruito la sua roccaforte, questa località può, con le sue sembianze e il suo candore, ingannare i visitatori che si apprestano a lasciarsi condurre nei suoi sentieri. Non vi sono personaggi particolari che restano impressi nella mente del lettore: gli abitanti sono delle ombre, catturate nella loro intima essenza. Vi è una felicità mista a malinconia che alberga nei cuori di questi uomini, dediti alla pratica del piacere, imprigionati in corpi leggeri fatti di luce abbagliante.

L’autore indulge in descrizioni che sfiorano la poesia per rendere percepibili le sfumature della vita di questo luogo, dove non vi è tempo per la tristezza, poiché gli occhi non potranno piangere, accecati dai colori dell’arcobaleno che si riflettono nei cristalli delle vetrine.

Ecco dunque al-Qamḥāwī disposto a ricostruire la storia di questa città, tessuta attraverso rimandi ai racconti di anziani, all’intrecciarsi di miti, leggende e versi d’ispirazione coranica, che rendono il testo quanto mai suggestivo. Gli anziani assicurano che la città del piacere fu costruita dai ginn, la cui essenza si manifesta nella razionalità delle costruzioni. Nei libri di storia si attesta che la città rimase vuota per settantamila anni, fino a quando la Dea del Piacere non vi scese per infondere la sua bellezza, preannunciando una sua nuova apparizione dopo un identico arco temporale, quando il desiderio sarebbe stato sul punto di dissolversi tra gli abitanti. Sicché questi ultimi, ammaliati dalla bellezza della dea, ne divennero schiavi.

al-Qamḥāwī prova poi a ricercare le cause della graduale rovina di questa remota località piena di simboli: in essa l’autore recupera la dimensione mitologica del labirinto, sulla cui costruzione si fondono storie diverse. Secondo la tradizione, un indovino predisse al sovrano l’imminente crollo del suo regno dovuto ad un uomo e una donna, dediti ai piaceri dell’amore. Fu allora che il re, intimorito, ordinò la realizzazione di un dedalo in cui rinchiudere i due amanti. Ma le leggende riportate dall’autore sono a tal proposito contrastanti. Alcuni ricordano che fu un ministro, impietosito dalla vicenda dei due amanti, a far erigere il labirinto, di modo che, lì rinchiusi, i due potessero vivere senza problemi; per altri ancora furono proprio i due amanti a realizzare il labirinto, per serbare la loro anima; per altri, infine, fu la Dea del Piacere ad edificarlo, quando si accorse che la propria bellezza scatenava l’invidia altrui. Questo intricato dedalo di strade sembrerebbe avere le stesse caratteristiche della città: lì gli amanti continuerebbero a vagare ancora oggi nel regno del piacere che in esso alberga. Intorno a questa immagine al-Qamḥāwī intreccia la sua storia, dimenticando la mitologica presenza del labirinto per buona parte della narrazione fino a quando, sul finire del libro, la voce narrante incontra un anziano uomo ormai impazzito a causa delle istituzioni di questo luogo: sarà proprio l’uomo a svelare l’ultimo lato nascosto di questa remota località. E così la città, un tempo impenetrabile, è pronta ad essere contaminata dal fascino di due folli invenzioni: le patatine fritte e la pepsi-cola.

Il romanzo di al-Qamḥāwī si pone dunque come una sorta di sperimentazione nella narrativa araba contemporanea: la dimensione sociale del testo è apparentemente celata eppure, con una narrazione che a tratti ha quasi il sapore di una fiaba, l’autore affronta questioni piuttosto scottanti, lasciando divenire questa città un luogo in cui si condensano i difetti e gli errori dell’uomo moderno.

Ada Barbaro

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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