Il romanzo che preannuncia la rivoluzione siriana: Kursī (Una sedia) di Dīmah Wannūs, Dār al-ādāb, Bayrūt 2009, pp. 166.

Nella Damasco dei nostri giorni un impiegato di mezza età si prepara per una cena importante. Gli restano ventiquattro ore per progettare nei minimi dettagli un piano che lo porti a conquistare il posto a tavola accanto al ministro. Dalla mattina alla sera ogni suo gesto e ogni suo pensiero sono finalizzati alla pianificazione della serata che potrebbe dare una svolta alla sua vita: da mediocre servo del potere a pezzo grosso della burocrazia.

Durġām, protagonista di questo romanzo, rappresenta l’individuo modellato dal potere e ne incarna tutte le modalità: l’arrivismo, l’ipocrisia, la codardia e l’incapacità di dare voce ai veri sentimenti. Tuttavia, grazie all’uso dell’ironia, la scrittrice impedisce al lettore di disprezzare completamente il personaggio, mettendone in risalto anche l’umana fragilità, la dolorosa solitudine e la sensibilità privata della parola.

È così che Dīmah Wannūs, nata a Damasco nel 1982 e figlia di quello che è stato uno dei più importanti esponenti del teatro arabo contemporaneo, Saʻadallāh Wannūs, ci offre il ritratto di una società atrofizzata e iperburocratizzata, fornendo al lettore le premesse per comprendere la situazione attuale in Siria. Oltre ad essere scrittrice, Dīmah Wannūs lavora come giornalista per diverse riviste arabe dedicandosi a soggetti di carattere politico e culturale. È attiva anche nel campo della traduzione e, nonostante la giovane età, nel 2007 ha pubblicato una raccolta di racconti dal titolo Tafāṣīl (Particolari) che è stata accolta molto favorevolmente dalla critica. Uno di questi racconti è infatti uscito in traduzione inglese sulla rivista di letteratura araba contemporanea “Banipal” in un numero dedicato alle nuove tendenze della letteratura siriana. La scrittrice è stata inoltre selezionata per partecipare al festival letterario Beirut 39, dedicato alle nuove voci della letteratura araba contemporanea, che si è svolto a Beirut nel mese di aprile 2010.

Nel caso di Kursī, l’autrice costruisce un avvincente romanzo di critica sociale attorno alla figura del protagonista. Fin dalla prima pagina il lettore è calato nella quotidianità del personaggio che al risveglio si rende conto che la sua giornata lo condurrà a qualcosa di determinante. Ogni gesto, registrato con profonda ironia, è per Durġām pregno di significato, funzionale al raggiungimento di un preciso scopo. Le sue azioni, ripetitive e ponderate, vengono riportate perfino nei loro aspetti più animaleschi: il corpo occupa infatti un ruolo centrale e risulta scomposto in una serie di funzioni fisiologiche quali minzione, defecazione e alimentazione, che contribuiscono ad annientarne l’umanità.

La narrazione della sua giornata particolare è intervallata dal ricordo, spesso suscitato da una canzone di sottofondo, che si instaura tra una pagina e l’altra, riportandoci alla vita passata del protagonista. La sua infanzia è segnata dalla tragedia: orfano di madre, morta durante il parto, ancora bambino Durġām perde il padre, accidentalmente ucciso dal fratello che lo travolge con una trebbiatrice. Così il ragazzo cresce presso la famiglia dello zio paterno, in un piccolo paese di contadini, e, una volta raggiunta la maggiore età, viene mandato a Damasco per compiere gli studi universitari. Qui condivide una stanza con Niḍāl, studente che intrattiene un’attività di lotta clandestina contro il governo siriano. Quando Durġām scopre di vivere con un dissidente, decide di denunciarlo alle autorità, con lo scopo di ottenerne dei vantaggi personali. Infatti, di lì a poco viene convocato nel fumoso studio di un burocrate che gli affida un incarico come censore di radio e giornali. Durante i primi anni di lavoro nell’ambito dell’informazione, Durġām incontra una giornalista francese. Tra i due nasce una relazione d’amore alla quale il protagonista pone fine denunciando anche la sua compagna, sospettata di essere una spia contro il regime. Gli incontri tra i due amanti sono narrati con stile esplicito e coinvolgente.

All’interno del romanzo il gesto si sostituisce spesso alla parola, utilizzato per creare un universo di vuoti reiterati, in cui l’esistenza del protagonista viene scomposta. L’assenza di leggi che regolamentino il potere pone l’individuo in uno stato di estrema vulnerabilità, in quanto non è posto alcun limite alle vessazioni e alle ingerenze di cui può essere vittima. Il potere è capriccioso, dà e toglie senza apparente ragione, decostruendo la volontà del singolo e privilegiando mediocrità e debolezza. Ne risulta un soggetto disgregato, incapace di dialogare con se stesso, quasi inconsapevole della propria sofferenza, che tuttavia viene rappresentato dalla penna di Dīmah Wannūs con una profonda leggerezza. L’abilità della scrittrice si rivela inoltre nella capacità di trasmettere l’atmosfera di una società corrotta e paralizzata dalla burocrazia attraverso la narrazione di un’esperienza particolare. “La sedia” del titolo è la metafora di questa società, all’interno della quale l’individuo per avere una voce è costretto a cedere alle pressioni del potere, cercando di sedere accanto a qualcuno che sieda più in alto di lui: «La sedia sopporta tutte le natiche che ci piombano sopra. Natiche grasse e flosce, che emanano odori disgustosi, natiche morbide e lisce come quelle di alcune donne. Natiche tiepide e fredde, pesanti e leggere. Questo indipendentemente dal suo valore, tranne per il fatto che può essere costruita in legno, metallo o pelle. Ma resta solo una sedia. È la natica a renderla importante».

Martina Censi

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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Martina Censi |