Il Monte Libano tra fiction e realtà storica in un romanzo di Maḥmūd Šubāṭ, ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ (La vergine del palazzo dello šayḫ), Dār al-kifāḥ li ’l-našr wa ’l-tawzī‘, al-Dammām 2010.

Quanto un romanzo si ispira alla storia e quanto la storia si può esprimere attraverso un romanzo? È possibile indagare la realtà sociale e le origini identitarie e nazionali di un paese mantenendo fedeltà storica da un lato e fantasia letteraria da un altro? Questi sembrano essere gli interrogativi che percorrono il romanzo di Maḥmūd Šubāṭ ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ (La vergine del palazzo dello šayḫ). L’autore racconta la storia del Libano ai tempi della dominazione ottomana, in modo tutt’altro che didascalico, riuscendo a immergere il lettore in una realtà remota e distante, ma non abbastanza da poter essere dimenticata o cancellata. Nel romanzo la storia del Libano viene narrata attraverso le avventure e le vicende personali del protagonista, Naṣṣār, una persona alla continua ricerca delle proprie origini.

Obiettivo preminente dell’autore di ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ è quello di tracciare il vero quadro di quella che fu l’occupazione ottomana nel Monte Libano alla fine del XIX secolo. La maggior parte del romanzo si svolge in un villaggio del Monte Libano, in cui l’organizzazione politica è fondata sul divario sociale esistente tra la famiglia al-Ğūrī, a cui appartiene lo šayḫ – autorità politica e spirituale – e la famiglia al-Šmaysānī, composta da poveri contadini che lavorano per lui. Nel raccontare gli eventi, l’autore non esita a denunciare, oltre allo sfruttamento a cui i contadini erano sottoposti, la sudditanza dei governatori locali verso i Turchi all’epoca dell’occupazione e lo fa con particolare intensità visiva ed espressiva.

Il romanzo è incentrato sulla storia di un giovane – l’io narrante – che s’imbatte per caso nei diari di un suo antenato di nome Naṣṣār, di cui nessuno gli aveva mai parlato. Dalla lettura dei diari, il protagonista scopre qualcosa di cui era completamente all’oscuro: il suo avo aveva origini turche. Di tutta la famiglia, solo suo nonno As‘ad si mostra disposto a chiarirgli questo mistero e racconta al nipote l’antefatto della nascita di Naṣṣār, partendo dalla storia della madre di quest’ultimo, Maryam. Così, grazie a questi due espedienti letterari, i frammenti dei diari da un lato e i dialoghi con il nonno dall’altro, l’autore ci riporta al 1850, anno in cui Maryam, una bellissima ragazza libanese, sposata con Ğamīl al-Šmaysānī, viene brutalmente stuprata da due soldati turchi. Questo tragico evento cambierà definitivamente le sorti dei due giovani sposi, costretti a lasciare il loro villaggio, Tall al-Bāz, e ad emigrare – anzi a «sparire» – a causa dell’incapacità dello šayḫ al-Ğūrī, l’autorità politica e spirituale del villaggio, di far valere le ragioni dei contadini di fronte al colonnello turco a capo dell’esercito di stanza nella zona. Lo šayḫ si sottomette alla scelta del colonnello di lasciare il crimine impunito, pur di mantenere il potere politico e i privilegi di cui gode. Maryam e Ğamīl lasciano dunque la loro casa per trasferirsi a Trebisonda, in Turchia, dove nasce Naṣṣār, il quale, crescendo, dimostra una forte somiglianza con uno dei due soldati turchi che avevano violentato la madre. Quando il dubbio sulla paternità diventa certezza, Ğamīl abbandona la moglie e il figlio non suo. Maryam, per tutelare il piccolo Naṣṣār, decide di risposarsi con un mercante, un uomo malvagio che costringe il fanciullo a soli dieci anni a lasciare la madre e il luogo in cui era cresciuto. È da questo momento che Naṣṣār inizierà a scrivere i diari e a raccontare le sue innumerevoli avventure, prima in Turchia, poi in Libano, dove si recherà per ritrovare sua madre e suo padre o, almeno, parte della propria identità. Una volta tornato nel villaggio di Tall al-Bāz, Naṣṣār verrà assunto come segretario del palazzo dallo stesso šayḫ che diciassette anni prima aveva fatto espatriare i suoi genitori. È qui che diventerà testimone diretto delle dinamiche di potere che regolano la vita del villaggio e risalgono ad antichissime tradizioni difficili e forse impossibili da estirpare.

La violenza subita da Maryam ad opera di due stranieri sembra allora incarnare quella del Libano, un paese occupato nel corso degli anni da potenze straniere, lacerato dai conflitti interni e che fatica a trovare la propria identità.

In ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ il divario sociale esistente tra la famiglia al-Ğūrī, detentrice del potere politico e spirituale a cui appartiene lo šayḫ, e la famiglia al-Šmaysānī, costituita prevalentemente da contadini al suo servizio, è riscontrabile sin dalla prima pagina del romanzo. Qui la disuguaglianza sociale è evidente perfino nel viaggio che conduce le anime in paradiso, distinguendo al-maqbarah al-fawqā e al-maqbarah al-taḥtā, ovvero l’esistenza di un cimitero superiore e un cimitero inferiore [p. 11]. Ma Šubāṭ non si sofferma sulle problematiche confessionali che hanno caratterizzato la zona del Monte Libano alla fine del XIX secolo. Se parla di religione, lo fa solo ed esclusivamente per denunciare come gli šayḫ approfittassero del loro ruolo di detentori del potere spirituale per arricchirsi personalmente, appropriandosi dei beni dei contadini. Nel libro non mancano i passaggi che descrivono la meschinità e la bassezza degli uomini di religione che, invece di essere promotori di un Islam giusto e generoso, approfittavano del ruolo che ricoprivano, con l’intento di ottenere un vantaggio personale. Maḥmūd Šubāṭ descrive quindi il servilismo degli šayḫ nei confronti delle autorità ottomane, ma sottolinea anche la costante presenza straniera nel Monte Libano, con accenni alla dominazione mamelucca, precedente a quella ottomana.

In questo romanzo i riferimenti alla storia accompagnano costantemente la trama e costituiscono uno sfondo necessario per la denuncia sociale e la contestualizzazione delle avventure che investono il giovane Naṣṣār, protagonista dell’intreccio. L’autore fa allusione a figure storiche importanti nella memoria collettiva libanese, come quella di Bašīr Šihāb II, ma senza rievocare le sue azioni politiche o la sua personalità. Egli si concentra, infatti, sugli accordi con cui la famiglia Šihāb contraeva i matrimoni che garantivano la continuità del potere e il prestigio dei legami tribali [p. 86].

Altro riferimento storico importante, riportato più volte nel romanzo, è quello della riforma che sanciva la trasformazione del Monte Libano in un sangiaccato (mutaṣarrifiyyah) dell’Impero Ottomano, per cui i governatori locali dovevano riferire direttamente alle autorità turche ogni avvenimento o cambiamento politico nella zona. Maḥmūd Šubāṭ riesce a rendere perfettamente il clima di terrore instauratosi a seguito del protocollo del 1861: «[Il colonnello turco] era un uomo guardingo, spietato che ci teneva perfino a sapere quante formiche ogni giorno andavano in giro sulla terra di Tall al-Bāz, quante mosche volavano, quante vespe svolazzavano; voleva sapere chi divorziava, chi s’innamorava, chi si fidanzava, chi si sposava, chi moriva, chi si ammalava e perché si ammalava» [p. 14].

Tuttavia, i continui riferimenti alla storia non costituiscono un ostacolo al lettore non esperto di paesi arabi, poiché ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ è, allo stesso tempo, un romanzo di avventura, che può prescindere dai fatti storici in esso narrati.

L’obiettivo di Šubāṭ, ovvero la denuncia politica e sociale delle dinamiche interne ed esterne al villaggio, si inserisce perfettamente nel quadro della letteratura araba contemporanea. Sono molti gli autori che, a partire dal XX secolo, hanno inaugurato un filone letterario incentrato sugli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia del Vicino Oriente.

L’opera di Maḥmūd Šubāṭ può essere dunque definita un romanzo storico e di avventura, in cui i riferimenti alla storia si intrecciano in modo piacevole e spontaneo con le vicende romanzate che investono il protagonista, tormentato – come il suo paese – da diverse identità. Tuttavia, anche in quelle parti legate alla fiction, emerge un contatto con la realtà e, nello specifico, con le vicende personali della vita dell’autore. Šubāṭ, costretto a lasciare precocemente gli studi a causa della povertà della sua famiglia, abbandona il Libano a seguito dello scoppio della guerra civile. Egli vive dal 1979 – quindi da più di trent’anni – in Arabia Saudita. Non ci sorprende dunque se in ‘Aḏrā’ qaṣr al-šayḫ si inserisce anche uno dei temi centrali delle opere di questo autore, così come pure di quella parte della narrativa araba moderna e contemporanea legata all’emigrazione e alla ġurbah. Si tratta di sentimenti che provano non solo le persone che lasciano il paese natio e i familiari per recarsi altrove (è il caso di Maryam), ma anche chi nasce in un luogo che sa non essere il suo paese d’origine (come Naṣṣār). Šubāṭ descrive in modo toccante questo stato d’animo al punto che sembra esternare in alcuni passaggi le sensazioni che egli stesso prova tutte le volte che torna nel suo villaggio d’origine. È particolarmente toccante il momento in cui il giovane Naṣṣār rivede la casa in cui era cresciuto con i suoi genitori in Turchia:

Naṣṣār lo ringraziò e tornò nel cortile della casa di Abū ‘Abd al-Raḥmān per dissetarsi della nostalgia dei tempi passati. Tornò indietro stordito, con i passi vacillanti. Rimase inchiodato lì meditando e rievocando ricordi e immagini. I piedi si sentivano attratti dalla terra, quella terra che amava, sulla quale aveva prima strisciato, poi era andato a carponi, in seguito fatto i primi passi, e infine giocato e cantato. Si accese la brama verso il luogo natio. Quel luogo ha un’attrazione che diventa più forte man mano che ce ne allontaniamo [p. 34].

Il dramma dell’emigrazione, della ġurbah, ma anche della povertà sono temi presenti in molti gli scritti di Šubāṭ. Altre sue opere sono direttamente incentrate sulla guerra civile del 1975 e sul confessionalismo. Diverse sono dunque le tematiche che si intrecciano nella scrittura di questo autore che, con le sue opere, fa conoscere a una nuova generazione di arabi e di libanesi, la tormentata storia del Libano, a partire dall’epoca coloniale.

Giulia Galluccio

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 1, giugno 2011

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