Elvira Diana, La letteratura della Libia. Dall’epoca coloniale ai nostri giorni, Carocci, Roma 2008, pp. 190.

L’imponente movimento di rivolta popolare libico, distintosi  rispetto agli altri fenomeni di protesta della “primavera araba” per essersi trasformato in una guerra civile che ha condotto al radicale rovesciamento dell’establishment governativo, ha posto il paese al centro di un crescente interesse internazionale. Ciò ha implicato il moltiplicarsi della quantità di informazioni reperibili attraverso i mass media, che hanno monitorato per mesi l’andamento della rivoluzione cercando di prevederne gli sviluppi. Davanti a tale fragore mediatico, dovremmo forse chiederci perché così a lungo la questione libica sia rimasta ai margini dell’attenzione e perché i problemi relativi al complesso equilibrio – e squilibrio – delle sue dinamiche, elementi profondamente legati anche alla storia del nostro paese, siano stati confinati all’interno di barriere di silenzio, incrinate solo da sporadici rumori suscitati dalle discutibili gesta dell’ex leader nazionale Mu‘ammar al-Qaḏḏāfī (Gheddafi 1942-2011).

I lettori più avveduti, tuttavia, forse più istintivamente inclini alla diffidenza, avranno piena coscienza del fatto che l’informazione che si dispiega oggi nelle pagine dei giornali ˗ attraverso cui è possibile acquisire un’idea generale della situazione durante gli anni della dittatura, così come delle diverse coalizioni, interne ed esterne, che hanno posto in essere la rivoluzione libica ˗ è tanto apparentemente limpida, scorrevole e attinente ai dati di fatto, quanto in verità facilmente soggetta a deteriorarsi, intorbidire e modularsi. Una consapevole distinzione fra l’acquisizione di dati informativi e una conoscenza fondata su un tentativo attivo di comprensione, in questo senso, pare fondamentale, ora più che mai, davanti ai cambiamenti che toccano non solo l’area libica, ma il mondo arabo in generale. Ora, se desideriamo approfondire questo tipo di comprensione, che valica il piano evenemenziale e si inoltra nel territorio più sfumato e contraddittorio della rielaborazione del dato storico in dato culturale, dobbiamo riscontrare che ben pochi studi esistono nelle lingue occidentali a proposito della Libia. Questa carenza risuona in maniera ancora più eclatante se si guarda  al panorama italiano, laddove ci si aspetterebbe un interesse primario che si lega alla storia della presenza italiana nel territorio, una presenza che, oltre al fattore politico, ha lasciato il proprio segno anche nell’ambito dell’istruzione, della stampa e della letteratura. Anche in questo caso, per dirla con altre parole, assai raramente si è prestata la dovuta attenzione al fatto che letteratura e storia riconoscono una sostanziale similarità, al punto tale che il materiale letterario può, e deve, entrare di diritto nel dominio delle fonti storiche, come frutto di un sistema di scambio e osmosi fra memoria, rielaborazione e costruzione di un immaginario.

Il saggio di Elvira Diana La letteratura della Libia. Dall’epoca coloniale ai giorni nostri rappresenta una delle rare eccezioni in questa direzione, essendo l’unico lavoro nel panorama italiano dedicato specificamente all’aspetto letterario della storia libica. Esso si rivolge a quanti desiderino approfondire una conoscenza consapevole della cultura del territorio proprio a partire dalla sua produzione narrativa e giornalistica. Attraverso un percorso diacronico che abbraccia i secoli XIX e XX, l’opera si focalizza sulla modernizzazione del paese, con uno sguardo particolare volto a rimarcare l’importanza di una liminalità geografica spesso trascurata. Osserva infatti Elvira Diana in apertura del suo libro: «I nostri dirimpettai del Mediterraneo, a noi molto più vicini rispetto a tanti altri popoli, continuano a essere per gli italiani degli estranei, mentre è proprio sui paesi arabi del Mare Nostrum che dovremmo riversare i nostri interessi sociali, economici, politici e culturali» [p. 9].

Il lavoro si apre con un’introduzione storica che prende le mosse dal XVI secolo, durante il quale la conquista ottomana estese il proprio dominio sul territorio, riunendo tre regioni storicamente divise (Tripolitania, Fezzan e Cirenaica) nell’unità amministrativa del pascialik di Tripoli. Ma è soprattutto il periodo coloniale, che per la Libia inizia alla fine del XIX secolo, nonché il successivo processo di indipendenza e costruzione di un’unità nazionale, a occupare l’interesse dell’autrice. Uno dei meriti dello studio, infatti, è proprio quello di dedicare uno spazio appropriato al tema dell’influenza della politica coloniale italiana che, con le sue poche luci e le sue molte ombre, rappresenta un momento chiave per comprendere il successivo percorso storico del paese.

Tale influenza si esplicita soprattutto nella ricorrenza del modello dialogico in gran parte dei romanzi e racconti della modernità libica. Tale tensione si enuclea, in verità, in un doppio confronto: oltre che verso una presenza coloniale occupante violenta e oppressiva, infatti, il conflitto si svolge anche all’interno, fra l’istanza modernista e un’identità libica percepita come atavica. Nei racconti del saggista e critico bengasino Ṣādiq al-Nayhūm (1937-1994), ad esempio, attraverso il ricorso a una narrativa fiabesca e folklorica, si condannano le abitudini obsolete della religiosità contadina in favore di una visione modernizzata dell’Islam, che si lega ai diritti delle classi lavoratrici [p. 69 e ss.]. Per ciò che concerne il rapporto con i coloni, invece, gli esempi sono abbondantissimi, come nel racconto Rābiḥah (1938) di Wahbī al-Būrī, storia d’amore ambientata in un lager libico. Il racconto, osserva l’autrice, benché scritto alla fine degli anni Trenta, è stato pubblicato solo agli inizi di questo secolo «facendoci scoprire stralci di vita libica non presenti sui nostri volumi di storia, dal momento che il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche da parte delle autorità italiane è molto scarso» [p. 62]. In particolare la feroce repressione attuata dal generale Rodolfo Graziani (1882-1955) nei confronti dei ribelli guidati dalla confraternita della Senussia, è rimasta nell’immaginario della narrativa. La figura di Graziani compare spesso in relazione oppositiva con l’eroe popolare ‘Umar al-Muḫtār, braccio armato di Muḥammad Idrīs al-Sanūsī (1889-1983), «fiero e tenace resistente assurto a simbolo della lotta anti-italiana» [p. 17], che nel 1931 Graziani condannò all’impiccagione. Anche al di fuori del tema bellico, infine, è particolarmente interessante osservare come la presenza italiana permanga nel panorama letterario attraverso l’uso di un vario simbolismo. La donna italiana, ad esempio, è protagonista del racconto di Kāmil Ḥasan al-Maqhūr (1935-2002) Caterina, storia di «un’italiana che arriva in un quartiere arabo di Tripoli, destando stupore e curiosità in tutti gli abitanti del rione» [p. 80], figura seduttiva e allo stesso tempo condannata all’infelicità in una terra straniera.

Se il tema del rapporto con l’altro è un concetto chiave della modernità, è pur vero che, ripercorrendo le fila del saggio, Elvira Diana suggerisce anche altre modalità di interpretazione della nahḍah libica. Il secondo capitolo è particolarmente interessante nella misura in cui affronta in maniera piuttosto dettagliata l’importanza della creazione di centri educativi per la “rinascita” culturale del paese. L’autrice sottolinea la peculiarità della modernizzazione libica: le biblioteche e le scuole nate in tutto il paese attorno alle zawāyā sanūsiyyah (centri di studio della confraternita della Senusia), infatti, rappresentano un fattore fondamentale di discrimine rispetto alla maniera in cui la modernizzazione, nonché l’impulso alla lotta per l’indipendenza, si è assestato in altri paesi arabi. Tali istituzioni, oltre a diffondere una produzione poetica a sfondo politico, assunsero una particolare rilevanza «nelle regioni desertiche, laddove, grazie alla loro presenza, fu possibile diffondere l’istruzione e la coscienza nazionale e, soprattutto, attraverso la divulgazione del corretto messaggio coranico, stroncare costumi e tradizioni atavici» [p. 34]. Parimenti, in tale capitolo si propone una panoramica sulla creazione e diffusione della stampa che, soprattutto dagli anni Venti, ha dato voce alle opere di letterati emergenti e ha contribuito all’unificazione linguistica del paese [p. 45]. I due capitoli successivi al secondo sono, invece, dedicati agli stili letterari del racconto e del romanzo. Lo sviluppo del racconto, genere ibrido la cui formazione composita risulta soggetta alle diverse influenze della tradizione occidentale, egiziana nonché autoctona, erede di modelli più antichi, viene seguito dettagliatamente secondo un percorso che si sviluppa in una progressione temporale. L’autrice, infatti, facendo proprio un modello condiviso dalla critica araba, segue il genere nelle sue fasi di esordio (marḥalat al-naš’ah), di sviluppo (marḥalat al-namiy) e della fioritura (marḥalat al-izdihār) [p. 58]. I diversi esempi proposti offrono una panoramica completa sulla vastità dei temi affrontati e su come il racconto libico si sia evoluto da un contenuto precipuamente didascalico sino a divenire strumento di dissenso, critica sociale e riflessione sulla società. Nel capitolo dedicato al romanzo, invece, l’autrice discute alcuni dei lavori più noti, che si muovono fra la riflessione sulla realtà, il confronto con il modello occidentale, l’autocritica e il ripiegamento autobiografico. Particolarmente interessanti appaiono, a tale proposito, i lavori di Aḥmad Ibrāhīm al-Faqīh (1942) e di Ibrāhīm al-Kawnī (1948). Del primo l’autrice sottolinea in particolare due motivi, evocati nella sua trilogia Ḥadā’iq al-layl (1991), apparentemente differenti ma in verità intimamente legati, quello della ġurbah (l’esilio reale e simbolico) e quello dell’amore. Ibrāhīm al-Kawnī, forse il meglio conosciuto fra gli autori libici nel panorama editoriale italiano, viene invece discusso soprattutto in relazione al tema della vita nel deserto, uno spazio reso dolce e vitale da un’aura di misticismo e magia, interpretato come una dimensione sacralizzata dove è ancora possibile costruire un rapporto “fraterno” con la natura [p. 124].

Nei due capitoli finali l’autrice si distanzia dall’ambito strettamente narrativo per dedicarsi al dibattito femminista e, infine, all’importanza del ruolo degli studiosi e dei traduttori nello scambio culturale con l’Europa. In relazione a ciò, il lettore italiano rimarrà colpito dalla cura e dalla dedizione con cui, nel corso del XX secolo, intellettuali e scrittori, come il noto Ḫalīfah al-Tillīsī (1930-2010), abbiano contribuito a far conoscere la cultura italiana attraverso studi e traduzioni che spaziano da Dante a Boccaccio, Manzoni e Pirandello.

Frutto di studio approfondito, accurato e che procede in parallelo sulle fonti sia arabe che italiane – come dimostra l’accurata e ampia bibliografia tematica – il saggio si struttura attraverso un taglio espositivo che illustra le diverse voci che compongono il panorama libico, ad alcune delle quali viene conferito una maggiore attenzione per il loro particolare rilievo nella formazione della storia della cultura nazionale. Questa scelta di impostazione, e la mole di informazioni che ne deriva,  può, inizialmente, disorientare il lettore. In questo senso, il lavoro di Elvira Diana risente, inevitabilmente, dell’aspirazione omnicomprensiva propria di un lavoro pionieristico. Inoltre, qualora non in grado di maneggiare le fonti arabe, il lettore non potrà usufruire di gran parte dei testi citati dall’autrice. Infatti, a differenza di altri paesi arabi di cui molto è stato tradotto, come nel caso dell’Egitto, la Libia è rimasta ai margini dei grandi flussi di traduzione in lingue europee.

Ciò che rende importante il lavoro, tuttavia, risiede proprio nella prospettiva di una possibilità di scambio e fusione fra i patrimoni culturali rivolta al futuro. Nel libro, infatti, si troverà un’immagine della Libia alla ricerca di un dialogo, piuttosto che di ostilità, nei confronti dell’Italia. Inoltre, difficilmente si resterà indifferenti davanti alla profonda fascinazione intellettuale di un mondo che ha trasferito nella sua letteratura la sua doppia identità di territorio desertico e mediterraneo, quest’ultima intimamente coesa con quella italiana. Ciò dovrebbe suggerire la possibilità di un’apertura da parte italiana a degli studi mediterranei che esulino dall’hortus conclusus dell’orientalistica per spingersi verso un discorso più ampio e articolato. La letteratura della Libia. Dall’epoca coloniale ai giorni nostri rappresenta, dunque, non solo è un punto di riferimento per iniziare un lavoro in questa direzione ma anche, ci auguriamo, l’occasione per aprire finalmente un ambito di studi che creino un varco stabile e condiviso nella costruzione di una prospettiva culturale comune con i nostri vicini del Mediterraneo.

Elisabetta Benigni

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 2, dicembre 2011

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Elisabetta Benigni |