Edward Ziter, Political Performance in Syria. From the Six-Day War to the Syrian Uprising, Palgrave MacMillan, New York 2015, pp. 259.

Dal 2011, e soprattutto con il tragico evolversi della guerra in Siria, l’attenzione di ricercatori e studiosi si è di nuovo focalizzata sulla produzione culturale del paese. Tratto comune di molte di queste esperienze è dimostrare come il dissenso in Siria non sia nato soltanto all’indomani di quella che, secondo l’opinione di Yassin al-Haj Saleh, prigioniero politico tra il 1980 e il 1996 e attualmente rifugiato in Turchia dove dirige un centro di ricerche, è nata come intifada per poi trasformarsi in conflitto siro-siriano e quindi arrivare a una dimensione regionale e internazionale. Già nel 2007 Miriam Cooke, nel suo Dissident Syria: Making Oppositional Arts Official1, metteva in evidenza come gli intellettuali siriani combattessero contro il regime purtroppo una silenziosa guerra quotidiana trascurata dal resto del mondo.
Il saggio Political Performance in Syria. From the Six-Day War to the Syrian Uprising si rivela come una importante ricerca nel teatro politico siriano dall’indomani delle Guerra dei 6 giorni fino alle esperienze più recenti, nate dopo il 2011. Il testo di Ziter fa parte della collana Studies in International Performance che, sul teatro arabo, ha già pubblicato i testi di Sonja Arsham Kuftinec, Theatre, Facilitation and Nation Formation in the Balkans and Middle East (2009), e di Khalid Amine e Marvin Carlson, The Theatres of Morocco, Algeria and Tunisia (2011). Già autore di The Orient on the Victorian Stage2, Ziter insegna Storia del Teatro e dirige il Department of Drama presso la Tisch School of the Arts, New York University.
Nella sua introduzione al testo, Ziter sottolinea l’importante ruolo svolto dalla drammaturgia e dal teatro in Siria nell’immaginare alternative politiche al regime siriano, nel cercare di risvegliare la coscienza di una società civile minacciata da decenni di oppressione, nel tenere aperto un dibattito sui concetti di potere, libertà, giustizia, democrazia e cittadinanza [p. 9]. Dominati dall’influenza statale e controllati direttamente dal Ministero della Cultura, dal Teatro Nazionale e dal Sindacato degli Artisti, gli operatori siriani del teatro sono sempre stati costretti, dagli anni ’70, a combattere la censura che vietava la messa in scena di qualsiasi lavoro anti-regime e a cercare spazi alternativi per esprimere la propria creatività. Dal 1967 in poi, secondo l’autore del saggio, il teatro siriano ha rappresentato una risposta «to a state of exception that was widely, if implicitly, recognized as permanent» [p. 11]. Il teatro a cui si riferisce Ziter è un teatro che esprime una ricerca sul legame tra potere statale e identità nazionale ed è, quindi, soprattutto un teatro anti-regime. Lo stesso autore dichiara che nel testo non appaiono i lavori di Riyad Ismat3, dal 2000 direttore dell’Istituto di Arti Drammatiche di Damasco e poi Ministro della Cultura (2010-2012), né quelli di Abdul Monem Aymari, molto attivo in questi ultimi anni; mentre vengono presentati solo due lavori di Farhan Bulbul e di ‘Ali ‘Aqla ‘Arsan, membro del Baath e direttore della Ittiḥād al-Kuttāb al-‘Arab e del Teatro Nazionale [p. 12].
La recente storia del teatro politico arabo è organizzata da Ziter in cinque sezioni: «Martyrdom», «War», «Palestinians», «History and Heritage», «Torture». Nella prima sezione l’autore mette al centro il termine che, a suo parere, «condenses different political and social experiences into a single image – a lifeless body, the marks of its trauma still plainly invisible» [p. 15]. Secondo Ziter il concetto di martirio, celebrato ufficialmente dal governo siriano ogni 6 maggio e legato a un discorso più politico che religioso, è stato spesso evocato dal regime e dall’ideologia del Baath per legittimare il proprio ruolo [p. 16]. L’ideologia del martirio viene smontata dai lavori di Muhammad al-Maghut il quale trasforma «the state’s repeated invocation of martyrs into comically transparent self-aggrandizing and a blatant effort to distract from the needs of the present» [pp. 17-18]. Da The Hunchback Sparrow (1967) – è un vero peccato che i titoli di tutti i lavori siano citati nel saggio esclusivamente nella loro traduzione in inglese! – a The Jester (1973), scritto in risposta alla guerra di giugno 1967, a October Village (1974) e Cheers Homeland (1978) fino a Out of the Flock (1999), al-Maghut rievoca l’idea gloriosa del sacrificio supremo per poi smontare l’idea che morire per la propria nazione sia un atto glorioso. Ziter prolunga la sua analisi inserendo quelle manifestazioni di protesta organizzate dopo il 2011, le cui azioni anti-regime hanno spesso proposto una rinnovata idea di martirio denunciando le morti causate dal regime, e i lavori del fratelli Ahmed e Mohammad Malas, nipoti del noto cineasta autore, nel 1983, di Aḥlām al-madīnah, e oggi costretti all’esilio in Francia.
Nelle sezioni dedicate alla guerra e alla questione palestinese, Ziter propone una riflessione sull’identità siriana e sulla propaganda di regime. In questi capitoli Ziter analizza i lavori di Saadallah Wannus, Mumdoh (sic!) ‘Adwan, ‘Ali ‘Uqlah ‘Arsan, Muhammad al-Maghut, Mustafa al-Hallaj e Farhan Bulbul, e sottolinea come, in Siria, la perdita delle alture del Golan nel 1967 abbia rappresentato un trauma collettivo seguito da una mobilitazione pro-palestinese, anche questa utilizzata poi dal regime per i propri interessi propagandistici. A questa ideologia di regime si oppongono i lavori Soirée for the Fifth of June (1967) di Saadallah Wannus e The Trial of the Man Who Didn’t Fight (1970) di Mumdoh ‘Adwan che, invece, mettono in scena la profonda lacerazione tra propaganda e vissuto dei cittadini i quali, inevitabilmente, sprofondano in una condizione di isolamento e alienazione rispetto allo Stato in cui vivono [p. 61]. Il discorso sulla questione palestinese si conclude con un’analisi del lavoro di Saadallah Wannus The Rape (1989), scritto all’indomani della prima intifada e primo lavoro arabo a presentare la resistenza palestinese dal suo interno e, soprattutto, a fornire un’immagine non stereotipata ma complessa della realtà israeliana.
La sezione su «History and Heritage» è essenzialmente dedicata ai lavori di Saadallah Wannus che, nella sua lunga carriera, ha spesso utilizzato figure, storie, personaggi del patrimonio teatrale arabo funzionali al suo teatro di politicizzazione. L’ultimo capitolo sulla tortura si concentra su due personaggi in particolare, ovvero i protagonisti dei lavori October Village di al-Maghut e The Darwishes Search for Truth di Mustafa al-Hallaj (1970), esempi della resistenza dell’uomo comune alla violenza del potere. Il saggio di Ziter si conclude con uno sguardo alla recente produzione siriana e, in particolare, con la presentazione del lavoro di Mohammed al-Attar Could You Please Look into the Camera (2012), messo in scena da Omar Abu Saada, entrambi protagonisti di molti lavori del teatro siriano post-2011. Il testo si concentra sui rischi che un individuo è disposto a correre pur di perseguire i propri ideali di libertà.
Ben documentato, il saggio di Ziter è interessante anche per il coinvolgimento dell’autore nel presentare le diverse esperienze del teatro politico dal 1967. Peccato, come spesso accade per i testi scritti e rivolti a un ambito esclusivamente anglofono, che nella bibliografia manchino del tutto lavori in altre lingue europee eccetto l’inglese e, come spesso accade per gli studi sul teatro arabo scritti da non arabisti, che siano assenti riferimenti bibliografici a testi – pubblicati anche in inglese – di specialisti europei di teatro arabo, e siriano in particolare, come ad esempio i lavori di Fredericke Pannewick su Wannūs e sul ruolo del patrimonio nel teatro arabo, la cui esistenza viene appena citata nella nota 2 del capitolo su «History and Heritage».

Monica Ruocco


M. Cooke, Dissident Syria: Making Oppositional Arts Official, Duke University, Durham 2007. Recentemente l’autrice ha pubblicato Dancing in Damascus: Creativity, Resilience, and the Syrian Revolution, Routledge, London 2017.
E. Ziter, The Orient on the Victorian Stage, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
3 I nomi degli autori sono riportati così come vengono citati nel testo.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VII, numero 13, giugno 2017

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Monica Ruocco |