Dalya Abudi, Mothers and Daughters in Arab Women’s Literature. The Family Frontier, Brill, Leiden-Boston 2011, pp. 335.

Le dinamiche inter-relazionali all’interno della famiglia araba e, in particolare, il rapporto madre-figlia nella letteratura araba femminile nell’ultimo mezzo secolo sono le tematiche centrali dell’interessante studio di Dalya Abudi, Mothers and Daughters in Arab Women’s Literature.

Il saggio in questione presenta molteplici spunti di riflessione e svariati motivi

di interesse. In primis, la scelta del tema. Partendo dall’assunto che la famiglia araba rappresenta una sorta di microcosmo della società, l’analisi interdisciplinare delle dinamiche inter-familiari condotta dalla studiosa rigorosamente dall’interno, ha come immediata conseguenza la demistificazione degli stereotipi tradizionali legati alla rappresentazione dicotomica del rapporto madre-figlia e, sineddoticamente, la decostruzione della visione monolitica sottesa al rapporto tra famiglia e società arabe.

Uno dei cliché in questione è costituito dall’immobilità cui il rapporto madre-figlia sembra incontrovertibilmente improntato. Lungi dalla fissità cristallizzante con cui viene sovente rappresentato soprattutto in ambito occidentale, tale rapporto è invece caratterizzato – all’interno del contesto arabo – da una natura dinamica, che risente delle variazioni legate al trascorrere del tempo e alle diverse fasi che scandiscono la vita di una donna, dall’infanzia all’adolescenza, all’età adulta, alla maturità, e che si modifica costantemente, subendo continue ridefinizioni in virtù delle suddette variazioni e in base ai diversi contesti storico-culturali.

Il saggio di Dalya Abudi analizza, dunque, le caratteristiche e le peculiarità di diverse famiglie arabe, mettendo in luce i recenti cambiamenti del modello tradizionale e le inter-relazioni tra i diversi membri appartenenti al nucleo familiare (relazioni coniugali, genitoriali e parentali): soltanto analizzando il contesto familiare, l’organizzazione, le gerarchie e i limiti delle famiglie arabe è infatti possibile comprendere i comportamenti e le dinamiche che connotano il complesso rapporto madre-figlia.

Il secondo motivo d’interesse dell’opera è la scelta delle fonti. Lo studio in oggetto, infatti, prende in esame un’ampia varietà di testi che spaziano dalla psicologia alla sociologia, all’etnografia, alla teoria femminista, alla storia, alla religione, al folklore, alla letteratura. Per quanto attiene alla letteratura, diversi sono i generi esplorati: autobiografie, memorie, biografie, romanzi, racconti brevi, saggi e poemi, tutti analizzati a fondo per svelare le modalità di rappresentazione del rapporto madre-figlia e il modo in cui questo rapporto viene vissuto dalle donne e influenza la vita familiare. I criteri di selezione delle opere letterarie tengono conto di diversi fattori: al fine di raccontare e descrivere l’esperienza femminile da un punto di vista femminile, si privilegiano opere scritte da donne e sulle donne, tentando di dar voce tanto alle madri quanto alle figlie; donne, dunque, di generazioni diverse e di diversa provenienza, sebbene l’Egitto  sia il paese più ampiamente rappresentato.

I testi letterari sono considerati dall’autrice come veri e propri documenti sociali, prodotti culturali in grado di offrire uno spaccato della realtà sociale, politica e culturale descritta, e uno strumento d’investigazione inter-culturale privilegiato in un contesto, come quello arabo, altrimenti difficilmente accessibile.

Dopo una prima parte introduttiva, il secondo capitolo, significativamente intitolato The Family: Arab Society in Miniature, analizza la centralità, la struttura e i valori cardine della famiglia nelle società arabe, prendendo in esame l’influenza dell’Islam e della cultura patriarcale sulla posizione e sullo stile di vita delle donne. Descrivendo i modelli tradizionali della vita familiare rappresentata nella letteratura femminile araba degli ultimi cinquant’anni, l’autrice esamina le nuove tendenze all’interno della struttura e dell’organizzazione familiari, legate ai recenti cambiamenti e al delicato processo di ricomposizione sociale in atto in tutto il mondo arabo.

Contributo importante allo studio di fonti letterarie arabe tradizionalmente considerate “minori” è il terzo capitolo, dedicato all’autobiografia. Dopo una breve introduzione sulla nascita e l’evoluzione del genere autobiografico nella letteratura araba moderna, l’autrice si sofferma sulle peculiarità del racconto autobiografico femminile, prendendo in esame le diverse esperienze della poetessa palestinese Fadwa Tuqan[1] e della sociologa marocchina Fatima Mernissi, raccontate rispettivamente in Riḥlah ǧabaliyyah rilah ṣa‘bah (Il viaggio più arduo, Acri 1985) e in Dreams of Trespass (originariamente pubblicato in inglese: New York 1994 e successivamente tradotto in arabo nel 1997)[2]. Sebbene le autrici in questione siano quasi contemporanee e provengano dallo stesso background familiare (famiglie appartenenti alla medio-alta borghesia urbana), le loro autobiografie rivelano profonde differenze, sia in relazione al rapporto con la madre, sia riguardo alle proprie vicende personali e al modo in cui queste hanno influenzato la loro esperienza narrativa. In merito al rapporto madre-figlia, l’autrice rileva che: «Throughout the narrative, Tuqan depicts her mother as a major agent of oppression in her childhood. Her grievances against her mother range from neglect to emotional cruelty to physical abuse» [p. 95], laddove invece: «Fatima received a great deal of nurturance from her mother. The text abounds with moments of tenderness and intimacy between mother and daughter» [p. 119]. Quanto al rapporto tra esperienze di vita e scrittura, va invece osservato che: «Both literally and figuratively, Tuqan narrates her life story as an escape from prison: the prison of the house, of the family, of customs and traditions. Poetry was the means of escape […]. While Tuqan’s political consciousness sprang from the suffering of the Palestinian people, her gender consciousness sprang from her personal suffering: the repression, discrimination, and deprivation that she endured during her childhood and adolescence» [pp. 106-110]. Fatima Mernissi, invece:             «[…] paints a vivid portrait of traditional Arab family life in Morocco during the transitional period from colonialism to independence. Despite the numerous frontiers, both visible and invisible, that confined the narrator, she had a happy childhood, developed a strong feminist consciousness, and went on to launch a brilliant academic career. The narrative reveals what empowered her and shaped her thinking and writing» [p. 130].

Nel quarto capitolo è il romanzo di formazione o Bildungsroman a fare da sfondo al rapporto madre-figlia. Dopo la consueta introduzione sulla nascita e lo sviluppo del genere, oggi annoverato come la forma più popolare di narrativa femminista, si analizzano criticamente al-Bāb al-maftūḥ (La porta aperta, Il Cairo 1960), il primo romanzo della scrittrice egiziana Latifa al-Zayyat e Līnā, lawḥat fatāt dimašqiyyah (Lina: ritratto di una ragazza damascena,  Beirut 1982), della siriana Samar Attar. Da un’attenta lettura dei due testi, ciò che più colpisce è la profonda differenza fra Layla e Lina, le protagoniste dei due romanzi. Ancora una volta accomunate da un vissuto comune (relazioni conflittuali con le proprie madri, vincoli familiari problematici e lotta contro l’oppressione patriarcale), le due donne affronteranno la propria ribellione contro la famiglia e i valori patriarcali della società e la lotta per l’autoaffermazione in modi e forme assai diversi, che porteranno la prima a diventare un’attivista impegnata politicamente nella lotta per la liberazione nazionale e la seconda ad abbandonare la Siria e a recarsi in esilio in Occidente: «As for Layla, active involvement in the struggle for national liberation empowers her and enables her to become emancipated. Indeed, the Egyptian experience proved to be a positive one, as women were able to retain the gains they made in their status […]. As for Lina, it is not clear how she will fare as an Arab living in the West. The factors of ethnicity and nationality do not come into play as long as she lives in her own country. But once she emigrates to a foreign country, ethnicity and nationality become crucial components of her self-definition and self-development» [p. 176].

Il quinto capitolo è incentrato sull’analisi psicologica del rapporto madre-figlia e sul ruolo surrogatorio di altre relazioni umane, da quelle familiari più tradizionali (fratello-sorella, sorella-sorella, nonna-nipote) a quelle di altra natura (relazioni promiscue, lesbiche e bisessuali): «Patriarchal ideology, plays a critical role in defining and controlling the mothering practices of women in Arab societies […]. Ultimately, patriarchal culture creates a breach between mothers and daughters, destroying the potential for intimacy, love, and solidarity between them» [p. 181]. In particolare, l’analisi critica dell’autrice si concentra su due romanzi: Ḥabbāt al-naftalīn (Naftalina, Il Cairo 1986)[3] dell’irachena Alya Mamdouh e Misk al-ġazal (Donne nel deserto, Beirut 1988)[4] della scrittrice libanese Hanan al-Shaykh, che descrivono, entrambi, vari surrogati di relazioni madre-figlia, creati dalle donne «in order to satisfy their needs for intimacy and nurturance» [p. 217].

Il sesto capitolo analizza, invece, il problema dell’autoalienazione e dell’origine della follia nelle donne, in particolare madri e figlie. Attraverso una disamina critica della cosiddetta «malattia femminile» (the female malady), intesa come disposizione naturale a sviluppare malattie mentali, l’autrice indaga l’uso della follia come tema letterario, prendendo in esame i romanzi al-Ḫibā(La tenda, Il Cairo 1996)[5] dell’egiziana Miral al-Tahawy e From Sleep Unbound (originariamente pubblicato in francese: Le Sommeil délivré, Parigi 1952) della scrittrice libanese-egiziana Andrée Chedid. L’analisi mette in risalto i fattori culturali che contribuiscono a disintegrare le personalità di Fatima e Samya, le protagoniste dei due romanzi, condotte alla follia – nel primo caso suicida, nel secondo omicida – dalla privazione materna e dall’oppressione patriarcale. In entrambi i casi, però, «madness is not a condition either protagonist was born with, but rather a condition she was driven into by her oppressive social enviroment» [p. 261].

Il capitolo conclusivo, infine, tira le somme dell’indagine condotta su più livelli, riassumendo le principali caratteristiche dei rapporti madre-figlia analizzati nei diversi capitoli ed esaminandone le implicazioni per le donne, la famiglia e la società. In tale ambito, è interessante notare che la maggior parte dei testi letterari analizzati attribuisce al conflitto tra madri e figlie valore positivo, rivelando che tale conflitto è non solo inevitabile ma necessario «as a driving force of change» [p. 25].

Maria Grazia Sciortino


[1] I nomi sono citati così come appaiono nel testo.
[2] Si veda l’edizione italiana Fatima Mernissi, La terrazza proibita.Vita nell’harem, traduzione di R.R. D’Acquarica, Giunti Editore, Firenze 1999.
[3] Alia Mamduh, Naftalina, traduzione di M. Avino, Jouvence, Roma 1999.
[4] Hanan al-Shaykh, Donne nel deserto, traduzione di S. Pagani, Jouvence, Roma 1994.
[5] Miral al-Tahawi, La tenda, traduzione di R. Di Meglio, Tullio Pironti, Napoli 2002.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno III, Numero 6, dicembre 2013

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