Barbara Spadaro, Una colonia italiana. Incontri, memorie e rappresentazioni tra Italia e Libia, Le Monnier, Firenze 2013, pp. 190.

Questo testo contribuisce ad arricchire il quadro di conoscenza delle relazioni coloniali tra Italia e Libia, trascendendo i confini di quello che è il campo di indagine dell’autrice, la ricerca storica. Il libro, infatti, si pone su un piano di interdisciplinarietà che relaziona la storia al multiculturalismo, alla geografia delle migrazioni, agli studi post-coloniali e di genere, e anche alla letteratura araba. Rispetto a quest’ultima, il libro conferma come la letteratura dei paesi arabi, «vero e proprio specchio della realtà sociale e politica»[1] del mondo arabo, si intersechi con la storia, in un connubio di sguardi e prospettive che si arricchiscono vicendevolmente. Attraverso l’analisi di alcuni diari familiari, tracce di memorie di italiani vissuti in Libia, insieme a una ricca raccolta di foto, alcune d’archivio, altre private, l’autrice presenta un interessante spaccato della “Libia italiana”, registrando la tipologia di rappresentazioni e relazioni umane non solo tra colonizzatori e colonizzati, ma anche e soprattutto tra gli stessi colonizzatori. La rappresentazione della Libia da parte italiana è un tema ampiamente trattato dalla letteratura coloniale e dalla florida memorialistica del periodo, così come l’immagine dell’Italia e degli italiani da parte libica è stata già oggetto di recenti studi di natura letteraria[2]. Invece, ancora poco si è scritto sulle relazioni interne alla società coloniale italiana che si ispiravano ad alcuni concetti cardine dell’epoca, come impero, fascismo, Europa, modernità, classe, virilità e whiteness.

L’autrice, dunque, va ben oltre la divisione dicotomica su base etnica tra colonizzatori e colonizzati, per mettere in luce fratture interne alla comunità coloniale italiana. Fratture che poggiavano innanzi tutto sul modello di whiteness, secondo cui la civiltà e la superiorità italiana non erano da intendersi solo nei confronti dei libici, ma anche verso quella parte di connazionali italiani di classe sociale inferiore, i cosiddetti petits blancs/poor whites, «dall’incerta appartenenza all’Europa che sfioravano i più bassi gradini della scala gerarchica del Mediterraneo» [p. 8]. Con un linguaggio stimolante e, nello stesso tempo, privo di quella analitica freddezza che, a volte, accompagna i testi di natura storica, l’autrice ricostruisce, seguendo un percorso cronologico nel tempo, il cammino intrapreso da una parte della comunità coloniale alla ricerca di una nuova identità di genere, classe e razza. Si andava, così, delineando una nuova élite coloniale, convinta di aderire a un moderno status sociale sempre più vicino al concetto di un’Europa bianca e civile.

La ricerca della bianchezza da parte dell’élite italiana è il tema del primo capitolo del libro, dal titolo Primi incontri: genere, sessualità e Mare Nostrum. Qui l’autrice ci presenta il diario di Emilia Rosmini di Mondovì, moglie di Gaetano De Sanctis, arrivata in Cirenaica con una missione archeologica nel luglio del 1910. L’autrice sottolinea come l’archeologia rientrasse nelle manovre di «penetrazione informale» [p. 17], la cosiddetta “infiltrazione pacificazione” che, come è noto, consisteva nella graduale penetrazione di elementi italiani in campo culturale ed economico con una doppia finalità: da una parte, occupare militarmente il paese in un futuro prossimo, senza subire le resistenze delle altre potenze europee; dall’altra, cominciare a “italianizzare” il popolo libico. L’archeologo, dunque, riassumeva «i tratti di un ideale maschile di bianchezza: infaticabile, inarrestabile e mosso dalla passione per il più affascinante dei misteri, quello delle radici della civiltà» [p. 17] e l’archeologia ben esprimeva «l’idea di una comune superiorità morale e civile dell’Europa» [p. 17] rispetto tanto ai libici quanto ai petits blancs italiani. Si pensi alla descrizione del suq di Bengasi nel diario della Rosmini, in cui la rappresentazione dei libici ricalca lo stereotipo tipico della letteratura coloniale, ovvero individui rozzi e selvaggi. La donna si muove per il mercato seminascosta tra i compagni «perché non si sa mai che cosa possa frullare pel capo di questi barbari a vedere una signora europea» [p. 23]. Le ansie che colgono la Rosmini per le possibili contaminazioni a contatto con i libici, sono le stesse che ella prova dinanzi ad alcuni suoi connazionali, come i coniugi Maffei, proprietari dell’unico albergo di Bengasi: «due creature buffonesche originarie di Livorno, ma parlanti un linguaggio imbastardito da turco, arabo, francese e greco, cui si mescolano epiteti coloriti ed espressioni dialettali scambiate urlando da mattina a sera» [p. 21]. Ecco, dunque, emergere in maniera nitida la rappresentazione dell’altro italiano, da parte dell’élite coloniale colta, che viene posto sullo stesso piano dei libici e come costoro necessita di essere civilizzato e italianizzato. Nella seconda parte del primo capitolo, poi, si tracciano le linee di un tema molto delicato e ancora poco documentato, quello della sessualità e della prostituzione nella “Libia italiana”. Argomento, questo, che a sua volta rappresenta un importante tassello nella costruzione della bianchezza e che richiama a sé tematiche altrettanto rilevanti, come quella del meticciato.

Nel secondo capitolo, intitolato Classe e modelli di bianchezza tra anni Venti e Trenta, si evince come in questo lasso di tempo si rafforza il modello di bianchezza nell’élite coloniale italiana che, emulando quella europea, si convince sempre più della propria missione civilizzatrice nei confronti sia dei popoli extraeuropei che dei connazionali, quelli che Paola Hoffmann definisce, nel suo diario, «popolo minuto (composto per lo più da siciliani e da italiani di Tunisi)» [p. 69]. Figlia di un medico arrivato a Bengasi per aprire il primo gabinetto di igiene e profilassi, e di una giovane insegnante, Paola Hoffmann è una figura insolita e singolare in quegli anni e il suo diario rappresenta un raro esempio di autobiografia al femminile scritto da un’esponente dell’élite coloniale. Poco incline a seguire quello che era il segno distintivo della comunità italiana dell’epoca rispetto all’ambiente circostante, ovvero ossequiare la fede cattolica, la Hoffmann era soprattutto una convinta anglofila. Il modello britannico, infatti, all’epoca rappresentava «il massimo cui poter aspirare» [p. 71], al fine di dare prova della propria bianchezza e allontanarsi così dallo spettro del provincialismo. La sua persona incarna in pieno il modello della vecchia élite coloniale, fermamente contraria alla massificazione sociale propugnata dal fascismo e che sfociò, negli anni a seguire, nella colonizzazione demografica. L’arrivo dei Ventimila, infatti, evento storico tanto enfatizzato dalla politica fascista, viene descritto nel suo diario con parole dai connotati fortemente razzisti. Si legge così dell’arrivo di «un esercito di briganti, un’armata Brancaleone di allora, calata dalle coste italiche per regalarci un lungo assedio, da cui saremmo usciti più morti che vivi» [p. 74]. I contadini della colonizzazione demografica, che la Hoffmann paragona ai «selvaggi dell’Africa nera» [p. 75], erano italiani solo sulla carta, giacché erano «estranei ai primi coloni quasi quanto i libici e altrettanto bisognosi di essere civilizzati» [p. 75]. In questo capitolo, però, non mancano pagine da cui emergono spaccati umani di integrazione tra italiani e libici, soprattutto tra i bambini, come si evince dal diario dell’aretino Aldo Zelli. Figlio di un impiegato di banca, Aldo Zelli si trasferisce bambino in Libia con la famiglia, nei primi anni Venti: il suo diario, pubblicato dopo il suo rientro in Italia e soprattutto a distanza di molti anni dagli eventi narrati, è ricco di episodi esilaranti che vedono il piccolo Aldo integrarsi nel tessuto sociale libico, a dispetto delle raccomandazioni della madre, inorridita all’idea che il figlio si trasformi in un «arabetto» [p. 59]. Il bambino, infatti, ben presto inizia a parlare con i suoi nuovi compagni in «un idioma bizzarro, miscuglio di arabo, italiano, greco e dialetto dei pescatori di Pantelleria» [p. 59]. Uno degli episodi più eclatanti è quando la madre scopre che il figlio scambia le sue merende di pane e marmellata o pane e frittata con i cartocci di locuste abbrustolite dei suoi amichetti libici.

Il terzo capitolo, dal titolo Nuove rappresentazioni e culture del tempo libero nell’impero mediterraneo del fascismo, esamina come negli anni Trenta il delinearsi di una nuova cultura coloniale e imperiale italiana in Libia si intrecciasse con la roboante retorica fascista che, in quel periodo, inaugurava una politica filo-islamica, assurgendo al ruolo di guida e tutela dei musulmani. Il fascismo, infatti, ambiva a presentarsi come forza universale capace di governare i destini mondiali, inclusi quelli dei popoli musulmani, e l’Islam, di conseguenza, diventava una civiltà con elementi degni di essere salvati. Sono questi gli anni della nascita dell’ETAL (l’Ente Turistico e Alberghiero della Libia), dei primi viaggi turistici in Libia e dei nuovi progetti di restauro e pianificazione della città di Tripoli, ampiamente sostenuti dal governatore Balbo. Tra gli esempi di viaggi dell’epoca si segnala quello compiuto dalla contessa Onorina Bargagli Petrucci[3]. Emblema di questa nuova politica italiana è la nascita della rivista “Libia”, di cui l’autrice analizza alcune pagine per tracciare quella che è la nuova industria turistica coloniale della Quarta Sponda. La rivista, fondata a Tripoli nel 1937 per volontà di Balbo, costituisce una fonte importante di notizie, grazie anche alle sue immagini fotografiche, da cui l’autrice coglie quella che è la nuova rappresentazione della donna libica da parte italiana. Le immagini di donna libica repressa dall’Islam o di donna sensuale ed erotica disponibile alle avventure con gli italiani, stereotipi ben noti dalla letteratura coloniale e dalla memorialistica, vengono spazzati via «da una cornice di intrattenimento ben riconoscibile e quindi rassicurante, ma soprattutto assolutamente moderna e italiana, cioè prodotta nel contesto di una colonia italiana da parte di industrie turistiche e di intrattenimento italiane» [p. 94]. Ecco la costruzione dell’immagine delle danzatrici arabe che animavano gli alberghi e i caffè di Tripoli creati dagli italiani per intrattenere il nuovo mercato turistico. Attraverso queste nuove rappresentazioni dei colonizzati, dunque, la cultura araba, e libica in particolare, «poteva essere reinventata ed integrata nei piani di costruzione di un nuovo modello di civiltà imperiale, fornendo nello stesso tempo la prova delle capacità di rinnovamento del fascismo» [p. 105].

Con l’ultimo capitolo, intitolato Album di famiglia. Cultura materiale, memorie e rappresentazioni della Libia coloniale, si ritorna al tema della rappresentazione tra madrepatria e colonia e tra storia e memoria, proprio attraverso una serie di fotografie appartenenti alla borghesia italiana in Libia.

Il libro non ha la presunzione di trarre conclusioni; anzi, come scrive l’autrice nell’Introduzione, lo studio si presenta come «un percorso tra cantieri di ricerca in parte ancora in corso» [p. 13]. Ed è proprio quest’ampiezza di sguardi e di prospettive, a cui si è accennato sin dall’inizio, capace di consentire un approccio di tipo multidisciplinare, a rappresentare la piena validità e originalità di questo lavoro.

Elvira Diana


[1] I. Camera d’Afflitto, La primavera della letteratura araba, in “La rivista di Arablit”, 1, I, 2011, p. 7.

[2] Si vedano G. Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo 2004 e E. Diana, L’immagine degli italiani dall’epoca coloniale alla caduta di Gheddafi, IPOCAN, Roma 2011.

[3] Sulle prime donne europee viaggiatrici in Libia, tra cui la contessa Petrucci, si veda E. Diana, Femminismi coloniali: la Libia e l’Africa di tre viaggiatrici europee, in  “La rivista di Arablit”, 1, I, 2011, pp. 127-136.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno III, Numero 6, dicembre 2013

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Elvira Diana |