Bahā’ Ṭāhir, Wāḥat al-ġurūb (L’oasi del tramonto), Dār al-Šurūq, al-Qāhirah 2007, pp. 345.

Già premiato per più lavori creati nel corso di una ricca carriera letteraria, nel 2008, Bahā’ Ṭāhir (n. 1935) viene anche insignito del premio IPAF (Arabic Booker) per il suo sesto romanzo, Wāḥat al-ġurūb (L’oasi del tramonto), in cui si occupa di diverse tematiche nell’ambito di un intreccio complesso che si snoda in un’ambientazione decisamente suggestiva.
Il racconto carico di simbolismi è incentrato sulla crisi esistenziale di Maḥmūd, un alto ufficiale della polizia che lascia il Cairo per recarsi a Siwa insieme alla moglie Catherine, consapevole dei pericoli che lo attendono nel viaggio attraverso il deserto e poi nello svolgimento del proprio lavoro in quanto capo distrettuale, incaricato anzitutto di provvedere alla riscossione delle tasse che gli abitanti dell’oasi sono restii a pagare, sentendosi da tempo schiacciati dal governo centrale dell’Egitto, guidato dai khedivé conniventi delle potenze coloniali europee. In effetti, attraverso l’esperienza del protagonista egiziano oppresso dalla presenza straniera nel suo Paese ma sposato con una donna irlandese, Bahā’ Ṭāhir tratta anche il tema del rapporto Oriente-Occidente, già affrontato dallo stesso scrittore in alcune opere precedenti, nonché da numerosi altri autori arabi sin dall’Ottocento. Wāḥat al-ġurūb va, quindi, a confluire in un vasto filone letterario che, col mutare delle circostanze storiche, ha man mano inglobato diversi modi di vedere e di raffigurare sia il mondo occidentale che quello orientale. In questo romanzo, Bahā’ Ṭāhir descrive il clima politico dell’Egitto, dopo che la Gran Bretagna aveva invaso il Paese, col pretesto di proteggere la posizione del khedivé durante la rivolta nazionalista del 1882. All’epoca di tali eventi Maḥmūd era un giovane sottufficiale in servizio ad Alessandria e sarà sospettato di avere aiutato i rivoltosi. Il protagonista respinge questa accusa, ma nel 1895 viene appunto trasferito a Siwa – situata vicino alla frontiera con la Libia – dove i due precedenti capi della polizia erano stati uccisi da membri della popolazione locale rimasti ignoti. Frustrato da questa subdola punizione – sorta di condanna al confino e a morte insieme – escogitata nei suoi confronti dalle autorità britanniche, Maḥmūd si abbandona a una crisi esistenziale covata da anni, mentre Catherine, ormai stanca dei tradimenti del marito, si concentrerà sulle proprie ricerche archeologiche nell’oasi, dove spera di trovare indizi utili a scoprire il sepolcro di Alessandro Magno. In origine molto uniti sia dall’amore reciproco sia dall’astio verso Londra che equipara il nazionalismo egiziano e quello nord-irlandese, i coniugi si sentiranno sempre più distanti durante il soggiorno a Siwa, dove entrambi subiscono l’ostilità degli abitanti dell’oasi, tradizionalmente divisi in due gruppi rivali e dominati dai capi famiglia anziani che sfruttano i giovani contadini, privati della possibilità di sposarsi e costretti a vivere fuori dei villaggi. Vecchie tensioni interne si intrecciano così a quelle provocate dalla recente presenza di forestieri, considerati usurpatori. Catherine è sospettata di volere rubare un leggendario tesoro nascosto sotto le rovine antiche e, poi, in quanto unica donna non velata a muoversi nell’oasi, suscita scompiglio tra la gente del luogo la cui vita è condizionata appunto da una rigorosa segregazione sessuale, nonché da superstizioni e profezie nefaste. Ma, per questa comunità tradizionalista, altrettanto inquietante è la figura di Malīkah, una giovane dell’Ovest di Siwa, bellissima e assetata di sapere, ribelle e forse folle, che appena quindicenne era stata data in sposa all’anziano Mu‘rib, un capo famiglia dell’Est. Il matrimonio era, in effetti, stato combinato per mettere fine alla lunga storia di conflitti tra gli abitanti occidentali e orientali dell’oasi. Gli antichi rancori, tuttavia, non sono del tutto scomparsi e riemergeranno proprio con la morte di Mu‘rib. Malīkah, inoltre, infrangerà la norma consuetudinaria che impone a una vedova di vivere in condizioni disumane totalmente isolata in casa per oltre quattro mesi dalla scomparsa del marito. La ragazza fugge dalla prigionia per andare a trovare Catherine, ma subito dopo questo incontro dai risvolti inattesi, viene scoperta da alcuni bambini che diffondono la notizia della sua trasgressione. Da lì a poco Malīkah morirà. Per Maḥmūd questo episodio comporterà ancor più odio da parte della popolazione e il completo raffreddamento del rapporto con la moglie. Altro evento importante sarà poi l’arrivo a Siwa della sorella di Catherine, Fiona, donna bella e dall’animo gentile che conquista facilmente il cuore della gente. Consapevole di non potere avere né un nuovo desiderio d’amore né alcun successo sul lavoro, Maḥmūd decide di togliersi la vita con un gesto volto anche a demolire il ricordo del passato glorioso della sua nazione.
Wāḥat al-ġurūb è, quindi, un romanzo pieno di colpi di scena, nel quale si confondono realtà e fantasia, storia e leggende. In un’intervista rilasciata nel 2008, Bahā’ Ṭāhir spiega di avere scritto questo testo alla luce della guerra iniziata in Iraq, nel 2003, e di avere voluto ricordare il periodo dell’occupazione britannica del suo Paese, spinto proprio dalla recente presenza militare occidentale nel mondo arabo. L’autore rammenta, inoltre, di avere già affrontato problemi storico-politici nel suo primo romanzo lungo, al-Ḥubb fī ’l-manfà (Amore in esilio), del 1995, in cui evoca, in particolare, le stragi avvenute a Beirut, nel 1982, nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Wāḥat al-ġurūb è, di fatto, nato dall’esigenza di Bahā’ Ṭāhir di offrire una seconda testimonianza dei drammi che hanno segnato la storia moderna e contemporanea del mondo arabo. È anche significativa la scelta dell’autore di ambientare il racconto a Siwa dove, nel 1897, un capo distrettuale egiziano faceva esplodere i resti di un tempio faraonico, forse per recuperarne le pietre come materiale di costruzione; mentre, nel 1989, l’archeologa greca Liana Souvaltzi avviava una serie di scavi nella stessa oasi, convinta di riuscire a trovare la tomba di Alessandro Magno. Questi due eventi precisi sono chiaramente stati fonte d’ispirazione per la creazione dei personaggi di Maḥmūd e di Catherine.
Il romanzo richiama, inoltre, altri fatti famosi: Alessandro Magno si recò a Siwa per visitare il tempio oracolare di Amon, dopo aver conquistato l’Egitto nel 332 a.C., sancendo così la fine dell’era faraonica, seguita da una lunga serie di dominazioni straniere, l’ultima delle quali fu quella britannica che, come già accennato, iniziava nel 1882, con la repressione della rivolta nazionalista esplosa proprio ad Alessandria.
L’interconnessione di questi luoghi ed eventi storici rafforza il messaggio anti-imperialista che Bahā’ Ṭāhir vuole veicolare in Wāḥat al-ġurūb che, pertanto, appare collegabile alle opere arabe caratterizzate appunto dall’anti-occidentalismo indotto dal colonialismo europeo. Ma ciò non significa che siamo dinanzi a un puro e semplice ritorno all’atteggiamento esclusivamente auto-difensivo e anti-occidentale dell’epoca coloniale né tanto meno a quello di fierezza di fronte all’Occidente della prima fase post-coloniale. Il testo, infatti, esprime anche la dura denuncia di vari tratti della società egiziana, tipica dei lavori di Bahā’ Ṭāhir e di altri scrittori, stimolati soprattutto dalla sconfitta araba nella guerra del 1967. Sotto certi aspetti Wāḥat al-ġurūb ricorda proprio Aṣwāt (Voci), pubblicato da Sulaymān Fayyāḍ (1929) nel 1972, e che Rasheed El-Enany indica come uno spartiacque nell’ambito della narrativa araba dedicata all’incontro tra Oriente e Occidente ovvero come il romanzo che inaugura la stagione dell’autocritica orientale, che è inoltre andata ad abbinarsi alla tendenza letteraria introspettiva affermatasi dall’inizio degli anni 1960. Le analogie tra i due testi riguardano perlopiù i personaggi e l’ambientazione: la situazione di Maḥmūd e Catherine a Siwa rammenta quella dell’uomo d’affari, Hāmid, e la moglie francese, Simone, nel villaggio del Delta in cui si svolge questo racconto che narra una vicenda realmente accaduta nel 1948. In entrambi i casi, abbiamo un egiziano sposato con un’europea colta, affascinante ed emancipata che viene osteggiata nel Paese del proprio marito: la donna straniera simboleggia gli aspetti positivi della cultura occidentale; e la comunità tradizionalista locale – ritratta in ciascun romanzo – rappresenta quelli negativi della cultura orientale.
In sintesi, Bahā’ Ṭāhir e Sulaymān Fayyāḍ cercano di sottolineare che i problemi principali della loro società sono l’arretratezza e le contraddizioni interne che indeboliscono l’Egitto anche rispetto all’Occidente. Va, poi, notato che Wāḥat al-ġurūb e Aṣwāt sono simili perfino sul piano tecnico, avendo probabilmente come modello comune L’urlo e il furore di Faulkner che ha ispirato molte altre opere arabe. Nei due romanzi egiziani, infatti, gli eventi sono narrati da alcuni dei personaggi, le cui voci si alternano da un capitolo all’altro, così l’intreccio si sviluppa attraverso più racconti autodiegetici.
Ma Wāḥat al-ġurūb ci induce a ricordare soprattutto tre testi che Bahā’ Ṭāhir ha pubblicato mentre viveva a Ginevra: Bi ’l-amsi ḥalamtu biki (Ieri ti ho sognato), del 1984; Anā al-mālik ği’tu (Io, il re, sono arrivato), scritto nel 1985 e apparso nel 1989; e il già citato al-ḥubb fī al-manfà, del 1995. Si tratta di due racconti e un romanzo che, al di là di alcune differenze anche importanti, sono accomunati principalmente dal fatto di essere incentrati sul legame tra un egiziano e un’europea, presentati non come prototipi culturali, bensì come individui uniti dalla comunanza di sentimenti umani. Rasheed El-Enany sottolinea che, in queste tre opere, Bahā’ Ṭāhir si basa sulla propria esperienza di ‘esule’ in Europa da cui deriva la visione speciale che offre del mondo occidentale, frutto di una volontà di superare vecchi e nuovi contrasti tra Occidente e Oriente per soffermarsi sulla condizione umana in genere.
In Wāḥat al-ġurūb, la concentrazione sull’individuo si percepisce particolarmente grazie alla già indicata modalità adottata dall’autore: i personaggi che si alternano nel narrare gli eventi sono perlopiù Maḥmūd e Catherine; in pochi casi sono due capi famiglia di Siwa – uno dell’Ovest dell’oasi e l’altro dell’Est; e, inoltre, abbiamo perfino un monologo interiore di Alessandro Magno che, avvolto dalle tenebre, rivede la propria vita tormentato dai rimorsi, poiché i ricordi delle conquiste sono puntualmente offuscati da quelli dei relativi bagni di sangue. Attento a ogni genere di conflittualità, Bahā’ Ṭāhir esplora i pensieri umani nella ricerca di scoprire istinti violenti e di prevaricazione senza, però, rinunciare alla speranza di trovare possibilità di pace e giustizia. Il capo famiglia orientale di Siwa è totalmente accecato dalla sete di vendetta e di potere, mentre quello occidentale predilige sempre la riconciliazione e la solidarietà con qualsiasi “altro”.
Tramite questi e altri simbolismi Bahā’ Ṭāhir attua una critica trasversale che investe, appunto, sia l’Occidente che l’Oriente, convinto che tutto dipenda precisamente dalla coscienza individuale. Del resto, nel romanzo, emergono le fragilità e contraddizioni dei vari personaggi, compresa Catherine, benché l’autore offra un’immagine complessivamente positiva della protagonista irlandese, così come delle donne di Siwa; mentre l’unica vera eroina sembra essere proprio Malīkah, vittima innocente di un conflitto secolare. L’anti-eroe per eccellenza è, invece, Maḥmūd. Dinanzi all’idea della morte che lo perseguita sin da quando riceve l’ordine di partire per Siwa, il protagonista fa i conti col proprio vissuto. È vittima delle circostanze storiche, degli occupanti inglesi e della sua stessa società, ma è logorato dai rimpianti per non avere né partecipato in pieno alla rivolta nazionalista, né portato fino in fondo un grande amore di gioventù, avendo scelto di rimanere subordinato sia alle autorità britanniche sia alle convenzioni sociali locali. Questi e altri pensieri frustranti lo assillano a Siwa, dove nell’incontro/scontro con la cultura peculiare dell’oasi cede ancor più allo stato di estraniamento o alienazione in cui era già precipitato in mezzo alla propria comunità del Cairo, così come subisce ulteriori sconfitte e, alla fine, si suicida, facendosi saltare in aria insieme alle rovine di un tempio antico. Nella già citata intervista, Bahā’ Ṭāhir suggerisce che questo epilogo vuole in definitiva essere un invito ad abbandonare la tendenza a rifugiarsi in un passato glorioso invece di affrontare le sfide del presente. Per il resto, in Wāḥat al-ġurūb, l’autore si sofferma soprattutto sul senso della vita, ponendo molte domande senza, tuttavia, dare delle risposte.

Patrizia Zanelli

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno III, numero 5, giugno 2013

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