Angelo Arioli (a cura di), “Miscellanea Arabica” 2010-2011, La Sapienza Orientale Miscellanee 2011, Anno VII, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2011, pp. 217.

Storia e geografia, letteratura moderna e contemporanea, trovano spazio in questo recente numero della “Miscellanea Arabica” a cura di Angelo Arioli. È forse possibile individuare, se non nei contenuti, almeno negli intenti, un unico filo conduttore che lega in maniera omogenea i singoli contributi all’interno della collettanea: pur spaziando tra gli argomenti più svariati, infatti, si riscontra un notevole pregio scientifico, rilevabile nella metodologia utilizzata e stabilito dalla presenza, nella parte finale di qualche articolo, di appendici in lingua originale.

Il tema letterario, o più genericamente culturale, prevale nei due articoli iniziali, accomunati da una collocazione geografica di prossimità. Segue poi una sezione centrale prettamente storica, che spazia dalla Palestina all’Iraq, con due interventi che si collocano temporalmente nella prima decade del nuovo millennio. Alla letteratura, o piuttosto a quel filone di adab geografico, caratterizzato dai cosiddetti al-masālik wa ’l-mamālik (gli itinerari e i regni) che aveva avuto fortuna a partire dalla fine del X secolo, è dedicato l’ultimo studio della “Miscellanea”. Il volume si apre con il contributo di Angelo Arioli, dal titolo “La finestra di Mawāhib al-Kayyālī, vituperato racconto d’un indimenticato letterato pressoché sconosciuto” [pp. 9-20], a cui segue un’appendice [pp. 20-28] contenente la traduzione e l’originale arabo del racconto cui fa riferimento il titolo. Al centro del saggio campeggia la figura dello scrittore siriano Mawāhib al-Kayyālī (1918-1977), lungamente e ingiustamente dimenticato dalle storie letterarie del mondo arabo in lingua occidentale. Arioli ammette tuttavia una certa attenzione, da parte della saggistica araba, verso un autore che, «[…] lodato per le sue doti letterarie, […] nel pieno della propria attività di narratore, definito da alcuni il futuro ‘Gogol o Maupassant’ di Siria, all’età di circa quarant’anni, smette di scrivere ed emigra in Unione Sovietica ivi rimanendo sino alla fine dei suoi giorni» [p. 10]. Ecco dunque il desiderio di colmare, almeno in parte, un vuoto nella trattatistica occidentale, iniziando da un percorso bio-bibliografico di al-Kayyālī, di cui si narra l’affiliazione prima alla “Lega degli ironici” (‘Uṣbat al-sāḫirīn), di cui era presidente ‘Abd al-Salām al-‘Uǧaylī, e, in seguito, alla “Lega egli scrittori siriani” (Rābiṭat al-kuttāb al-sūriyyīn). Dai brevi cenni biografici si sa che lo scrittore trascorrerà un ventennio in una sorta di forzato esilio in Russia. Nel 1953 al-Kayyālī pubblica la sua raccolta più famosa, al-Manādīl al-bīḍ (I fazzoletti bianchi): in quello stesso anno abbandona l’attività di narratore.

Fulcro dell’articolo diventa pertanto la dichiarata intenzione di indagare le cause che hanno condotto ad una precoce, e apparentemente immotivata, interruzione di una scrittura dall’innegabile bellezza. Arioli pare trovarle in un’intervista in cui viene riportata una postilla di Ḥusayn Muruwwah su una novella contenuta nella raccolta appena citata, al-Nāfiḏah (La finestra), che diventa  il “vituperato racconto” ricordato nel titolo del contributo. Dopo aver elogiato l’energico coinvolgimento di al-Kayyālī nelle vicende politiche del proprio Paese, Muruwwah si chiede come abbia potuto uno scrittore di questo calibro «[…] abbandonare la vita del suo popolo in lotta ripiegando verso il proprio individualismo che approda a quei sentimenti effimeri con cui spasima l’anima d’un giovane adolescente incurante delle preoccupazioni che assillano tutta la sua società» [p. 15]. Fu forse questa critica, come ammette l’autore dell’intervista, a persuadere al-Kayyālī ad abbandonare la scrittura, un giudizio che, agli occhi di Arioli, risulta come una diretta bollatura d’infamia per un comunista da parte di un marxista quale era Muruwwah. La stroncatura di Muruwwah ha probabilmente condotto al silenzio su al-Kayyālī e la sua narrativa. È dunque chiamato in causa questo racconto che appare essere come la “pietra dello scandalo”, tacciato, anche da Sabry Hafez, di una “sentimentality” verso cui lo studioso italiano si scontra con fermezza: per Arioli la “sentimentality” di cui si parla e che pare lambire il giovane protagonista del racconto e i suoi coetanei, è bonariamente scherzosa, altrimenti parrebbe ingiustificato il riferimento, nella novella, al giovane Werther. Ecco così costruita una cornice entro la quale risulta ben inserita la traduzione di al-Nāfiḏah che conclude l’articolo: «[…] nel dipanarsi dei ricordi dell’io narrante si susseguono con delicatissimo intarsio diversi flashback che costituiscono la struttura del racconto modulato sul registro d’una lieve ironia, venata di malinconica nostalgia per un’età irrecuperabilmente perduta» [p. 18].

Il secondo contributo inserito nella “Miscellanea”, dal titolo “Materiali autobiografici e archivi del Bilād al-Šām: una nota bibliografica” [pp. 29-53], reca la firma di Cristiana Baldazzi. L’articolo offre un’accurata analisi di due saggi che attestano l’aumento delle fonti autobiografiche inerenti, in questo caso, alla Palestina. I due studi in questione sono: Dirāsāt fī ’l-ta’rīḫ al-iǧtimā‘ī li-Bilād al-Šām (2007) e Awrāq ‘ā’iliyyah (2009) . Da entrambi si evince, a partire dal titolo, una forte importanza data alla storia sociale, che assume una rilevanza ancor più notevole se contestualizzata alla Palestina, dal momento che ancora oggi è in atto una continua discussione non solo sull’esistenza di uno Stato palestinese, ma addirittura di un popolo palestinese. L’autrice attesta che: «Le scritture autobiografiche diventano le sole prove, le tracce tangibili di una società la cui esistenza è negata in ogni sua espressione, culturale e materiale; da qui l’importanza di ogni genere di documentazione inerente l’epoca anteriore al 1948» [p. 30]. L’autobiografia, privilegiata espressione del «sentire moderno» [p. 33], costruisce il proprio percorso attraverso una riabilitazione della classica compilazione della sīrah e della tarǧamah, soprattutto nella sua particolare estensione del concetto di tarǧamah li-nafsihi (interpretazione di sé). Baldazzi prosegue l’analisi dei due saggi attraverso un approccio tematico: individua alcuni settori (quali, ad esempio, quello delle “Scritture politiche: diari e memorie”, o ancora la “Storia delle idee”, o “I luoghi della memoria”, e così via) per meglio delineare le forme in cui l’autobiografia palestinese svela tutte le sue potenzialità.

Da alcuni percepite come un dovere verso la nazione [p. 34], da altri come un modo per alleggerire il peso delle proprie responsabilità [p. 35], le scritture autobiografiche rivelano talvolta delle lacune, o talvolta propriamente degli errori – soprattutto per quanto concerne l’annotazione di nomi e date –, per cui sarebbe errato basarsi esclusivamente su di esse per un’accurata ricostruzione storica. Tuttavia è innegabile il contributo dato dall’autobiografia sotto vari aspetti: per quanto concerne la tessitura di un quadro storico ed economico, Baldazzi segnala la redazione della già menzionata tarǧamah, privilegiato strumento di descrizione dei ceti elevati e delle modalità attraverso cui riuscivano a preservare la propria autorità; ricorda poi il valore di una produzione autobiografica; ribadisce il merito di una scrittura che intreccia la percezione del tempo perduto a quello sempre bruciante del luogo perduto; segnala infine il nuovo ruolo assunto dall’immagine, resa attraverso l’arte fotografica, a patto però che risulti opportunamente contestualizzata. La parte finale dell’analisi è riservata ad un accurato approfondimento sul ruolo degli archivi. Baldazzi sottolinea come interi capitoli delle Awrāq siano dedicati alle annotazioni archivistiche. Evidenziato il ritorno in auge delle siǧillāt e il loro contributo alla ricostruzione della vita religiosa e socio-economica della Palestina, con un’ammissione sulla difficoltà di gestione di una fonte così ricca e densa di particolari, l’autrice conclude il suo saggio auspicando la nascita, attraverso i materiali autobiografici, di una nuova direzione di studi, «[…] lontana da decostruzionismi e relativismi, volta a ricostruire la Storia della Palestina e dei suoi abitanti» [p. 49].

L’accento sull’approfondimento letterario, e più generalmente culturale dei primi due studi compresi nella “Miscellanea”, cede poi il posto a due articoli di carattere storico-politico. Il primo, dal titolo “La società civile nel mondo arabo. Il caso dell’associazionismo civile palestinese a Gerusalemme” [pp. 54-90], è a cura di Irene Costantini. Il testo è percorso da un’indagine molto approfondita, costruita attraverso tre fasi: l’autrice si cimenta, inizialmente, in un tentativo di definizione del concetto stesso di società civile, analizzato attraverso tre prospettive; la seconda sezione è dedicata ad un quadro introduttivo sulla società palestinese;  nell’ultima parte il focus è su Gerusalemme. Costantini avverte come il concetto di società civile, contestualizzato al mondo arabo e indubbiamente influenzato dall’islam, si sia evoluto alla fine degli anni ’70, quando l’espressione al-muǧtama‘ al-madanī è entrata a pieno titolo nel vocabolario politico arabo. L’autrice rivela la peculiarità della società civile palestinese, dovuta all’impossibilità di stabilire un rapporto con uno Stato che in realtà non esiste. In questo quadro va dunque sottolineato il ruolo svolto dai donatori esteri: l’arrivo di finanziamenti internazionali ha contribuito a quel processo di “Ongizzazione” caratteristico della società civile palestinese, che ha assistito ad una depoliticizzazione delle proprie Ong [p. 61], e consecutiva esclusione delle organizzazioni caritative islamiche che, invece, proprio in Palestina, avevano da sempre svolto un’importante funzione aggregante. Con un dettagliato resoconto dei rapporti tra società civile palestinese e poteri costituiti, ivi compreso anche Israele – interessante è la digressione sul termine ebraico amuta, che designa un’organizzazione non governativa [p. 67] –, Costantini propone una sistematica rassegna e analisi delle esperienze della società civile palestinese a Gerusalemme condotta attraverso un censimento del 2007. L’articolo si conclude, infine, con un raffronto tra due posizioni differenti che hanno agito sulla società civile palestinese: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e la cooperazione italiana.

La storia è ancora protagonista di un saggio, all’interno della “Miscellanea”, dal titolo “Il programma politico del 2005 e i cambiamenti ideologici del partito al-Da‘wah al-islāmiyyah” [pp. 91-132], che reca la firma di Ylenia Falzone. Lo studio passa in rassegna le varie evoluzioni del partito sciita iracheno al-Da‘wah al-islāmiyyah, con traduzioni e comparazioni tra i programmi politici di volta in volta proposti. Partendo da una ricostruzione storica, fondata principalmente su un saggio di Dai Yamao, l’autrice segnala i vari momenti di ascesa e declino di questo partito, la cui sorte è stata indubbiamente segnata dalla rivoluzione iraniana del ’79: con il timore che l’ondata sciita invadesse anche l’Iraq, da quel momento sono iniziate infatti persecuzioni e limitazioni verso questa fazione politica. Falzone pone così l’accento sul ruolo svolto da Muḥammad Bāqir al-Ṣadr (1935-1980), considerato uno dei principali pensatori della rinascita islamica, vittima anch’egli delle persecuzioni messe in atto da Ṣaddām Ḥusayn. Dopo questa introduzione storica, l’articolo si fonda sull’analisi e traduzione del programma di al-Da‘wah pubblicato tra gennaio e ottobre 2005. Questa sezione è indubbiamente più compilativa, ma interessante, poiché presenta nei dettagli un programma che fino ad ora non era mai stato analizzato. Il pregio dello studio è rilevabile non nella semplice opera di traduzione, quanto piuttosto nell’individuazione e analisi dei passi scelti seguendo un approccio determinato da specifiche selezioni tematiche, tra le quali spicca soprattutto la sezione riguardante le donne, alle quali vengono riconosciuti gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’occupazione di qualsiasi incarico nelle istituzioni irachene [p. 118]. Falzone conclude il suo saggio con una tabella di confronto per argomenti, tra il programma del 2005 e quelli del 1992, 2006 e 2010, e un’appendice in lingua che riporta l’originale di questo programma [pp. 133-192].

La “Miscellanea” si conclude con un contributo che ci riporta indietro nel tempo e in un settore della produzione classica ampliamente esplorato. Il saggio di Giuliano Mion, “La quarta sezione del quinto clima nella Geografia di al-Idrīsī” [pp. 193-217], si compone di un’introduzione e traduzione di una parte dell’immane opera Nuzhat al-muštāq fī iḫtirāq al-āfāq (Il diletto di chi è appassionato di peregrinazioni attraverso il mondo), condotta attraverso l’edizione critica pubblicata dall’Istituto Universitario Orientale di Napoli tra il 1970 e il 1984. Noto anche come Kitāb Ruğār, dal momento che fu proprio Ruggero II (1105-1154) a incaricare al-Idrīsī (1100-1166) di redigere una descrizione del mondo, il capolavoro è costituito da sette climi, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in varie sezioni. Mion presenta un’introduzione bio-bibliografica sull’autore, in cui annota diverse edizioni e approfondimenti dell’opera in questione, corredata da una digressione sul tragitto percorso da al-Idrīsī, nel quale Costantinopoli assume una forte centralità. L’autore riconosce l’importanza della ricognizione dei toponimi idrisiani, pertanto, prima della traduzione, fornisce interessanti precisazioni su parte dei termini utilizzati da al-Idrīsī, costruendo un meticoloso approfondimento sulle traduzioni di alcuni di essi [pp. 198-199]. Il saggio propone quindi la traduzione della quarta sezione del quinto clima, da cui emergono descrizioni particolareggiate dei luoghi percorsi, per cui sembra di poter vedere di persona Costantinopoli, o visitare i territori di Efeso, sulla cui montagna «[…] c’è una caverna simile ad un pozzo […]. Lì ci sono i morti, cioè i ‘Sette dormienti’, i cui corpi giacciono su un fianco e sono vecchi» [pp. 209-210]. Il contributo di Mion è estremamente interessante: da esso si evince lo sforzo di traduzione e ricerca di toponimi dalle origini linguistiche più svariate, di cui l’autore dà ragione in una accurata appendice finale che presenta un indice dei toponimi in ordine alfabetico.

Ada Barbaro

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno II, numero 3, giugno 2012

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