Angelika Neuwirth, Andreas Pflitsch, Barbara Winckler (eds.), Arabic Literature; Postmodern Perspectives, Chatham, Saqi, 2010, pp. 505

Una coloratissima illustrazione dell’artista egiziano-armeno Chant Avedissian introduce il lettore a questa raccolta di saggi sulla letteratura araba contemporanea. Il titolo, dato l’argomento, non potrebbe essere diverso: la parola “perspectives” infatti, sta a sottolineare come questa raccolta non nasca con l’intenzione di stabilire alcuna teoria, ma intenda piuttosto mantenere quella molteplicità di punti di vista che, nell’affermare molteplici verità parziali, conferisce a qualsiasi epistemiologia postmoderna quella forma “rizomatica” che fu teorizzata da Deleuze e Guattari e che oggi sembra essere messa in pratica dal World Wide Web.
Il volume si apre con un contributo di Ines Kappert che introduce il lettore alle nozioni di “postmodernismo” e “postmodernità”, termini di difficile definizione attorno ai quali si è creato un grande dibattito nei venti anni che precedono la pubblicazione di questo volume, ma che oggi sembrano aver perso buona parte del loro interesse per gli specialisti del settore.
D’altra parte ad alcuni potrà apparire strano che ci si riferisca alla letteratura araba, ancora collegata ad immagini di palme e cammelli, in termini di postmodernità, visto che i paesi arabi sembrano a malapena entrati nell’era moderna, e infatti è proprio su questo tema che si dipana l’esauriente introduzione di Andreas Pflitsch [p. 25], che chiarisce subito come la nozione stessa di modernità resti una faccenda ancora da discutere, soprattutto in seno alle società occidentali, dove, in maniera nevrotica, si continua a invocare la modernizzazione dei paesi arabi e a ritenerli, contemporaneamente, geneticamente refrattari a qualsiasi modernità perché radicati nella storia e nella tradizione islamica. Ci si potrebbe infine domandare perché parlare di letteratura araba, quando l’intera regione del Medio oriente e del Nord Africa è coinvolta da problemi ben più urgenti della messa a punto di strumenti di critica letteraria?
La risposta, secondo Pflitsch, risiede nel carattere politico della produzione letteraria araba, che proprio perché nasce in regimi totalitari può, attraverso quel peculiare processo di sostituzione che sta alla base della finzione, farsi portavoce di spinte ideologiche, promuovere innovazione, divulgare conoscenza. Il postmodernismo si configura a questo punto come processo di decostruzione linguistica, ovvero come demolizione di qualsiasi mitologia politica che ha dominato il mondo arabo negli ultimi sessant’anni.
Il volume, che si compone di circa trenta saggi, è suddiviso in tre parti o macrocapitoli: il primo, intitolato “Memory”, [pp. 41-230] affronta proprio il tema del crollo dei miti e della riscrittura della storia, in termini letterari, beninteso, ma laddove le condizioni politiche impediscano il formarsi di una memoria storica condivisa, gli scrittori diventano, tramite le loro opere, “highly relevant political witnesses that testify to the immense diversification of historical memory in the Middle East.” [Neuwirth, p. 63] Il primo saggio del libro, firmato da Stefan Weidner, [pp. 65-75] è incentrato sul concetto del divino nella poesia di Adonis, e sulla visione utopistica di un mondo in cui non esistano più le religioni che conosciamo, e quindi dimentico di quei particolarismi che troppe volte allontanano, anziché avvicinare, le fedi.
Andreas Pflitsch [pp.76-86] presenta un’analisi di Turābuhā za‘farān (Alessandria città di zafferano) di Edwar al-Kharrat, mostrando come per l’autore «The work of autobiographical remembrance is particularly apt for illustrating the plural character of truth.» [Pflitsch p. 78] La testimonianza è invece il tema centrale nel saggio di Sonja Mescher Atassi, [pp. 87-96] che si concentra sulle opere dello scrittore libanese Elias Khoury. I saggi di Friederike Pannewick [pp. 97-109] e Angelika Neuwirth [pp.110-133] invece, affrontano la dimensione dell’autocritica presente nel ricordo, ripercorrendo le opere di Saadallah Wannous e Rashid al-Daif.
“Memories for the future” [pp. 134-145] è il titolo del saggio di Susanne Enderwitz, che tratta della memoria come monito per le generazioni a venire nella visione di Abdelrahman Munif, mentre Stephan Guth [pp. 146-157] esamina il rapporto tra Gamal al-Ghitani e l’apertura verso “l’Occidente” da parte delle società arabe, con la conseguente crisi d’identità delle stesse.
Andrea Heist [p.158-170] riassume la vita e le opere di Sonallah Ibrahim, a partire da quando, il 22 ottobre 2003, lo scrittore rifiutò il premio che gli era stato assegnato nel corso di una cerimonia all’Opera House del Cairo. Un atto di estrema coerenza con la sua visione critica dell’Egitto contemporaneo.
Seguono due contributi di Angelika Neuwirth sulla terra della memoria par excellence, la Palestina, nei versi e nelle opere di Mahmoud Darwish [pp. 171-196] e Emile Habibi, [pp. 197-219] mentre uno scritto di Ulrike Stehli Werbeck [pp. 220-230] su Zakariyya Tamir, conclude la prima parte del volume.
La seconda sezione, come per naturale complemento del discorso sul tempo, si intitola “Poligamy of Place”.[pp. 233-358] Qui sono raccolti saggi che trattano del complicato rapporto fra individuo, lingua e nazionalità. Le politiche liberticide dei regimi arabi che costringono tanti intellettuali a rifugiarsi all’estero, l’irrisolta questione palestinese e le molteplici situazioni di guerra che punteggiano la carta del mondo arabo influenzano la produzione letteraria di scrittori a cavallo tra culture.
Il saggio di Regina Keil Sagawe [pp. 243-258] delinea il quadro cosmopolita entro il quale si muove il visionario poeta algerino Habib Tengour, Christian Szyska [pp. 259-271] e Hosman Hajjar [pp. 272-286]  trattano delle opere di Anton Shammas, autore palestinese che scrive in ebraico e di Samir Naqqash, arabo israeliano che, come Emile Habibi, racconta la vita di chi si sente in esilio pur vivendo nel suo paese. Christian Junge [pp.287-301] affronta il tema delle memorie soppresse e delle identità multiple nelle opere di Sélim Nassib, mentre un altro contributo di Andreas Pflitsch [pp. 302-310] descrive il percorso di formazione dell’identità nelle opere di Tony Hanania. The “Forbidden paradise” di Sonja Mescher Atassi [pp. 311-320] tratteggia vita e opere di Etel Adnan, scrittrice bilingue e artista, autrice di libri in cui tecniche di disegno e parole, e tradizioni visuali che spaziano dal Giappone all’Europa passando per il mondo arabo interagiscono nel creare una miscela che davvero integra culture e linguaggi diversi.
«In America, I fit but I do not belong. In Lebanon, I belong but I do not fit». Questa è la citazione di che apre in maniera programmatica l’articolo di Andreas Pflitsch [pp. 321-330] sullo scrittore e pittore libanese Rabih Alameddine, mentre Hartmut Fähndrich [pp. 331-341] esplora i molteplici livelli di senso che assume il deserto nell’opera di Ibrahim al-Koni: regione dell’infanzia, viaggio nel passato, memoria di un popolo, punto di intersezione fra storia e mitologia, fra il “qui” e l’eterno.
“A surrealist trip to paradise and back” [pp. 342-358] è il titolo dell’ultimo contributo di questa sezione, firmato da Sibylla Krainick ed è incentrato sull’autore iracheno Abdalqadir al-Janabi.
La terza e ultima parte dell’intero volume si intitola “Gender Transgressions” [pp. 361-494] e affronta il tema della letteratura di genere non dalla prospettiva della letteratura “femminile” o “femminista” come ci si potrebbe aspettare, ma cogliendo nella trasgressione di genere la possibilità dell’esperimento letterario. Il saggio di Roland Spiller [pp. 369-381] che apre la sezione affronta il cambio di genere nei romanzi di Tahar ben Jalloun non solo come tema di interesse storico sociale, ma come integrazione fra i modelli narrativi del passato con le interpretazioni psicanalitiche di matrice occidentale. Nel saggio successivo Barbara Winckler [pp. 382-396] prende in esame i romanzi Ḥağar al-ḍaḥik (La pietra del riso) e Ahl al-hawà (Malati d’amore) di Hoda Barakat, cogliendo nell’androginia e nell’indeterminazione sessuale dei protagonisti il simbolo di una domanda a cui è necessario dare risposta, metafora del destino politico del Libano dopo la guerra civile.
Doris Ruhe [pp. 397-409] ripercorre la produzione di Rachid Boudjedra, mettendo in secondo piano la funzione provocatoria delle immagini che si riferiscono ai tabù sessuali e indicandole come strumento, e non come fine, di una scrittura che prima di tutto vuole porsi come denuncia contro lo strapotere della generazione che precede quella dell’autore.
Angelika Neuwirth [pp. 410-428] compare in questa sezione con un contributo che propone un esame comparatistico tra il Don Chisciotte di Cervantes e il poema Laylà wa Mağnūn (Laylà e Mağnūn) di Salah Abd al-Sabur, mentre Barbara Winckler [pp. 429-443] propone uno studio sulla scrittrice Assia Djebar, che restituisce la memoria dell’Algeria alle protagoniste femminili che l’hanno vissuta. Con un articolo dal titolo I Write, Therefore I am, Christian Junge [pp. 444-460] analizza alcune opere di Mustafà Dhikri, evidenziando come l’autore operi una sorta di superamento delle tematiche di genere, addirittura ritrovandosi ad essere definito dall’atto di scrivere, che assurge così a condizione basilare della propria esistenza.
I due saggi successivi, firmati da Özkan Ezli e Monika-Moster Eichberger, esaminano il ruolo del corpo della parola e della politica rispettivamente nelle opere di Mohamed Choukri [pp. 461-470] e Vénus Khoury-Ghata, [pp. 471-483] mentre spetta al contributo di Verena Klemm [pp. 484-494] chiudere il volume con una riflessione sul romanzo Ḥabbāt al-naftālīn (Naftalina) della scrittrice irachena  Aliah Mamdouh.
In conclusione, questa raccolta di saggi costituisce il primo tentativo di creare un’opera monografica capace di includere anche il mondo arabo in quello che rimane uno dei temi chiave nel dibattito letterario, e non solo, degli ultimi decenni, e dimostra come questi paesi non siano affatto distaccati, come si vorrebbe far passare da parte di certi media e dei poteri ad essi correlati, dalle tendenze culturali e filosofiche che coinvolgono i paesi occidentali, ma che semmai si può affermare esattamente il contrario. Come ricorda Barbara Winckler: «the “perifery” knows more than the “center” because it knows itself and the center».[p. 361] Il mondo arabo oggi non potrebbe apparire più diviso, eppure così omogeneo nel presentare gli stessi problemi e nell’aspirare alle stesse soluzioni, ma soprattutto in questi mesi, a breve distanza dalla rivoluzione egiziana e in contemporanea con i moti di protesta che stanno scuotendo l’intera regione di Medio Oriente e Nord Africa, appare sempre più chiaro che le storie, o “narratives”, con le quali l’Occidente ha raccontato queste zone del globo stanno finalmente iniziando a mostrare la loro incongruenza con la realtà, e allora può darsi che interessarsi di letteratura e finanche di postmodernismo possa rivelarsi l’unico modo per conoscere, attraverso lo sguardo degli scrittori, i frammenti di cronaca che si fanno storia contemporanea, una storia che, per essere raccontata, necessita ancora di nascondersi dietro il velo della finzione letteraria.

Edoardo Barzaghi

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 1, giugno 2011

Acquista Back to Anno I, numero 1, giugno 2011

L’Autore

Edoardo Barzaghi |