Aliksandrā Šuraytaḥ (Alexandra Shurayta), Dāyman Kūkā Kūlā (Sempre Coca Cola), al-Dār al-‘arabiyyah lil-‘ulūm nāširūn – Arab Scientific Publishers, Inc., Bayrūt, 2009, pp. 94.

Aleksandra Shuraitah è una giovane scrittrice libanese di cui Dāyman Kūkā Kūlā (Sempre Coca Cola) costituisce l’esordio. Il libro si presenta con una copertina accattivante: il tappo di una bottiglia di Coca Cola su sfondo bianco, sovrastato dal titolo e dal nome dell’autrice, scritti a caratteri rosso vermiglio.

Le intenzioni dell’autrice sono chiare fin dal titolo, e cioè presentare una storia vivace e frizzante come la Coca Cola per raccontare il desiderio di emancipazione della protagonista: una ragazza libanese educata in base ai principi tradizionali dell’Islam che vive a Beyrut, da sempre città-crocevia tra Oriente e Occidente. Ma la questione  femminile è solo un aspetto di un tema molto più ampio, che fa da sfondo a tutto il romanzo, e cioè l’irrisolta questione dell’identità culturale dei paesi arabi nel mondo globalizzato.

Utilizzando una scrittura scorrevole e un linguaggio semplice e diretto, infarcito di prestiti e calchi dalle lingue europee, Dāyman Kūkā Kūlā ha il ritmo di un videoclip, puntellato qua e là da slogan pubblicitari come quello degli assorbenti “Always” utilizzati dalla protagonista, il cui brand richiama a sua volta il celebre “Always Coca Cola” della multinazionale statunitense.

La storia inizia con un antefatto: in Libano, durante gli anni della guerra civile, una giovane donna incinta, presa da un’improvvisa voglia di Coca Cola, chiede al marito di andare a comprarle una bottiglia della nota bibita gassata, ma questi si rifiuta perché ritiene che la Coca Cola sia solo una delle tante espressioni dell’imperialismo americano. Il desiderio della donna resterà insoddisfatto, ma rimarrà impresso sulla schiena della bambina come voglia a forma, appunto, di una bottiglietta di Coca Cola.

Una ventina d’anni dopo la stessa bambina, che si chiama ‘Abīr, viene a sapere che la sua amica Yānā è rimasta incinta. Yānā  è una ragazza rumena, che ha scelto di andare a vivere a Beyrut, spinta dalle descrizioni esotiche di una guida turistica, aspettandosi di trovare castelli da fiaba, danzatrici del ventre e misteriosi uomini dal fascino mediorientale, ma una volta trovato il suo principe azzurro, questi la lascerà con un divorzio da portare a termine, una casa semidistrutta e una gravidanza inattesa.

La giovane donna non sembra avere troppe difficoltà a gestire la situazione, per quanto difficile possa essere, mentre per l’amica, ‘Abīr, iniziano le paure e le incertezze. La ragazza infatti non vuole far sapere a casa che Yānā  è rimasta incinta nel corso del divorzio da suo marito, perché teme che la sua famiglia potrebbe impedirle di rivederla, in quanto “cattiva frequentazione”. Tuttavia la timida protagonista non riesce ad abbandonare l’amica al suo destino, e si impegna insieme a Yasmīn, una ragazza dai tratti mascolini appassionata di boxe, ad accompagnarla dal medico per effettuare tutti i controlli del caso.

‘Abīr comincia così a uscire dal mondo ovattato dell’adolescenza, a riflettere sul significato del sesso, sulle conseguenze dei rapporti non protetti e sull’importanza di una corretta educazione sessuale, oltre che a valutare l’impatto che la gravidanza potrebbe avere su di una ragazza allevata in base a principi tradizionali come lei. Restando a fianco dell’amica, la giovane scopre anche il lato giocoso e narcisista della femminilità, con i suoi trucchi e le sue malizie, frequenta un salone di bellezza e capisce come vive una ragazza europea, stupendosi della spigliatezza con cui Yānā  è in grado di relazionarsi con gli uomini.

Un giorno ‘Abīr viene contattata dal direttore di uno stabilimento di Coca Cola dove le era stato proposto di lavorare, ma una serie di sfortunati eventi trasformerà la buona notizia in un vero e proprio incubo. La fanciulla infatti ha pochissimo tempo per recarsi al colloquio di ammissione e si rende conto che non potrà mai riuscirci in tempo prendendo l’autobus. Decide quindi di abbandonare i suoi freni inibitori e di farsi dare un passaggio in moto da un suo compagno di università. Giunta allo stabilimento, però, scopre che il direttore è furibondo, pur senza un apparente motivo valido, e in preda all’ira ne approfitta per saltarle addosso e abusare di lei.

Ora ‘Abīr vive in prima persona ciò che solo fino a pochi giorni prima riguardava soltanto Yānā. Costretta ad affrontare le sue paure, la protagonista si ritira dal mondo, pregando che le tornino le mestruazioni a riprova del fatto che non è rimasta incinta. Durante questo periodo di esilio autoimposto, la ragazza vede per caso un video musicale del duo “Milk and Honey”, un gruppo molto amato da Yānā, che le farà sentire la mancanza dell’amica, mentre l’unica persona in grado di tirarla fuori casa sarà Yasmīn, in compagnia della quale entrerà in contatto con il mondo del pugilato. Un mondo prevalentemente maschile del quale Yasmīn non ha paura. Sarà grande lo stupore della protagonista quando scoprirà che il direttore della palestra di boxe è in realtà una donna, e per giunta incinta, arrivando in tal modo alla conclusione che, se la pratica sportiva può indurire esteriormente il corpo, privandolo di una parte della sua femminilità, non è impossibile essere madre e, quindi, pienamente donna.

Passato circa un mese, ‘Abīr ha di nuovo le mestruazioni, e sa di non essere in gravidanza. Il rischio di vedere la sua vita di studentessa e di ragazza stravolta da una maternità indesiderata è finito, ma proprio mentre sta elaborando l’idea di rientrare in contatto con Yānā, da cui ha imparato leggerezza e civetteria, scopre che questa è scomparsa, e dove c’era il suo ex appartamento sta per diventare un ufficio. Giorni dopo ‘Abīr riceve una e-mail dall’amica che la avverte di essere ritornata in Romania, e spera un giorno di poter rivedere il Libano per mostrare a suo figlio il paese dove è stato concepito.

La protagonista di questo romanzo sembra voler rappresentare la doppia tensione a cui sono sottoposti i giovani ragazzi e ragazze arabi che da un lato tendono verso l’occidentalizzazione, mentre dall’altro restano necessariamente radicati nella cultura che gli è propria, e se il  personaggio di Yānā  incarna chiaramente la femminilità nella sua declinazione frivola e seduttrice,  Yasmīn, di madre tedesca e padre libanese, rappresenta l’essenza pragmatica, protettiva e coraggiosa dell’essere donna.

Altra figura femminile di spicco è la cugina di ‘Abīr, una giovane donna che ha sempre vissuto nell’idealizzazione della figura maschile e che solo quando è in procinto di sposarsi scopre che il marito è un vigliacco totalmente incapace di difenderla da un gruppo di bulli di quartiere.

Un discorso a parte merita il padre della protagonista, emblema dell’uomo arabo in lotta con l’Occidente e con la modernizzazione imposta con la forza, ma che a sua volta impone alla figlia lo stesso nome del suo negozio di fiori, e cioè ‘Abīr Ward, che in arabo significa “profumo di rosa”.

Sul piano della forma, il romanzo è scritto con  uno stile scorrevole e a tratti divertente, anche se si rileva una certa crudezza del linguaggio nelle descrizioni dei momenti più intimi della protagonista, a rimarcare la natura fisica del corpo femminile, col chiaro intento, da parte dell’autrice, di rompere l’immagine idealizzata a cui esso è spesso ricondotto, ma risultando talvolta sgradevole.

In conclusione, l’immagine della voglia a forma di Coca Cola sembra voler simboleggiare la voglia di una modernizzazione che sembrava possibile in Libano durante gli anni sessanta e settanta, ma che per una serie di ragioni storiche non si è del tutto avverata, lasciando il paese in uno stato di crisi d’identità. La voglia è anche il segno, impresso sul corpo della fanciulla, della mancanza di attenzione dell’uomo verso la donna, simbolo stratificato di tutto quanto è riconducibile alla questione femminile nella letteratura araba. Il romanzo presenta dunque molti spunti interessanti, ma pecca un po’ nel non riuscire pienamente né sul versante umoristico, né su quello sociale, lasciando talvolta in sospeso elementi che avrebbero potuto aggiungere profondità all’insieme.

Edoardo Barzaghi

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno I, numero 1, giugno 2011

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