Alain Messaoudi. Les arabisants et la France coloniale. Savants, conseilleurs, médiateurs (1780-1930), ENS Éditions, Lyon 2015, pp. 556.

in La rivista di Arablit, a. VI, n. 11, giugno 2016, pp. 84-89.

Pubblicata all’interno della Collection Sociétés, Espaces, Temps, diretta da Ch. Detrez, G. Garner e Y.-F. Le Lay, delle edizioni della prestigiosa École Normale Supérieure di Lione, questa corposa monografia di Alain Messaoudi intende rispondere a un complesso interrogativo di base: come interagisce, fra XIX e XX secolo, la produzione orientalistica francese (di natura sia accademica sia para-accademica) con l’avventura coloniale in Nord Africa?
È senza dubbio noto che i rapporti fra l’orientalistica e il colonialismo, o perlomeno fra l’orientalistica e il potere, rappresentino una questione ancora aperta, viepiù se si pensa al dibattito suscitato nel tempo dal celebre Orientalism (1978) di E. Said.
Il volume in esame, tuttavia, a giudizio di chi scrive queste righe, esplora tali rapporti partendo da un’angolazione molto originale: lo studio delle carriere professionali degli operatori francesi dell’epoca. Il termine “carriera” dovrà intendersi nel senso più stretto, mentre quello di “operatore” nel senso più ampio: accademici, orientalisti, interpreti, traduttori, militari e diplomatici. L’interazione di questi diversi soggetti, la ricostruzione della loro rete di rapporti professionali ed extraprofessionali, nonché la confluenza dei loro saperi in centri di aggregazione politica o accademica, è il risultato indiscutibilmente notevole della ricerca di Alain Messaoudi, esperto di storia dell’orientalismo all’Università di Nantes.
Oltre che negli Archives nationales de France e negli Archives nationales de Tunisie, l’autore ha intrapreso un importante lavoro di analisi di altri archivi fondamentali, come quelli dei Ministeri della Difesa, dell’Insegnamento Superiore, dell’Inalco e di tutte le altre numerose istituzioni pubbliche o private che possono dare conto dei processi di reclutamento e delle carriere degli arabisti dell’epoca e/o della storia delle istituzioni stesse.
Al di là di questo massiccio lavoro d’archivio, l’autore ha incentrato le sue analisi anche su altre produzioni, non su «œuvres de fiction sans prétention savante, des relation de voyages, ou les stéréotypes véhiculés par la presse», bensì più precisamente «sur les écrits d’auteurs possédant une compétence linguistique» [p. 17]. In questo modo, l’autore ha cercato di proporre una «analyse des réseaux des sociétés savantes, des comités de rédaction des revues ou des publications collectives» [p. 18]. I rapporti tra questi diversi milieux di studiosi e istituzioni hanno finito per incidere, oltre che sullo sviluppo dell’orientalistica francese, anche sulle politiche linguistiche che la Francia pianificava per il Maghreb (e, più in particolare, ovviamente per l’Algeria), nonché sulle modalità stesse di attuazione della missione coloniale, di tipo cioè assimilativo o associativo.
Va chiarito sin da subito che il risultato della ricerca è senza alcun dubbio eccellente e il volume è un valido strumento che può essere utilizzato in maniera differente a seconda della prospettiva del lettore. Per fare solo qualcuno tra i tanti esempi possibili, mentre lo storico ne apprezzerà la messe di informazioni indispensabili per fare luce su momenti particolari dell’epoca coloniale, l’arabista potrà invece servirsene per rintracciare i passaggi chiave della storia della disciplina o per individuare le motivazioni, professionali o extraprofessionali, soggiacenti alla realizzazione di particolari opere di grandi orientalisti. Ma, forse, uno dei pregi maggiori dell’opera risiede nella capacità dell’autore di far rivivere molto bene al suo lettore, malgrado l’elevata distanza temporale, l’atmosfera dell’orientalistica in quell’epoca. Se ne ha la sensazione già dalla copertina stessa del libro, dove campeggia una fotografia risalente al 1859 che ritrae un elegante (Jacques) Auguste Cherbonneau, professore prima a Costantina e poi all’École des Langues Orientales di Parigi, sulla balconata del palazzo del bey in prossimità di un capo tribù in abiti tradizionali.
Un ampio assortimento di notizie, se non in taluni casi di veri e propri aneddoti, difficilmente reperibili altrove e soprattutto in un unico spazio, ci restituisce il sapore di un periodo storico peculiare non solo per la disciplina, ma per tutto il Mediterraneo. Varrà la pena, allora, ricordare qui di seguito qualche esempio.
La questione della lingua è al centro di molte pagine del libro, a dimostrazione della delicatezza con cui essa veniva avvertita nel dibattito arabistico fra XIX e XX secolo. All’alba della spedizione di Algeri, per esempio, il “Journal asiatique”, a partire dal 1824, diventa la sede di una discussione sull’unità linguistica araba che vede contrapposte correnti profondamente diverse: da un lato, quella che sostiene l’intercomprensione fra Marocco e Oriente, espressa in primis da Grey Jackson; dall’altro, quella diametralmente opposta, che spinge in direzione della diversità linguistica. Fra le due correnti, si colloca Silvestre de Sacy in posizione nettamente moderatrice. Le logiche personalistiche possono tuttavia fare capolino anche in un dibattito all’apparenza soltanto scientifico: Armand-Pierre Caussin, titolare della cattedra d’arabe vulgaire, avvezzo ai dialetti d’Oriente ma non a quelli profondamente dissimili del Maghreb, pur di persuadere dell’utilità del suo insegnamento coloro che si vedranno inviati di stanza ad Algeri, non disdegnerà di schierarsi a favore dell’unità linguistica [pp. 140-141].
Degna d’attenzione è anche la puntuale ricostruzione delle tipologie di interpreti impiegati intorno al 1830. Questi sono riconducibili essenzialmente a tre categorie: gli allievi della scuola di Langues Orientales «qui n’ont entendu la langue arabe qu’à Paris», i cristiani orientali reclutati durante la spedizione napoleonica in Egitto, e i maghrebini cristiani ed ebrei ingaggiati a Tunisi [p. 145].  Di queste categorie l’autore illustra tutte le implicazioni e le relazioni educative e socio-politiche, fino a definircene gli stipendi. Particolarmente gustosa è la descrizione degli inconvenienti linguistici cui vanno incontro gli interpreti della prima categoria una volta giunti in Algeria. Come testimonia Eusèbe de Salle, segretario e interprete dell’Armée d’Afrique, arrivato ad Algeri nel luglio del 1830, «le patois qu’on parle ici diffère assez de l’arabe que j’ai appris pour qu’il me faille un mois avant d’entendre et de parler courramment», chiarendo al suo amico giurista Auguste Lacombe che «le patois maugrebin [sic] est assez loin de l’arabe, à peu près comme nos patois du midi sont loin du français» [p. 146].
Nel tempo, pare che i rapporti tra accademici arabisti e interpreti (soprattutto militari) si siano polarizzati, per via della convinzione dei primi di essere depositari della conoscenza savante della cultura araba, e dei secondi di essere gli unici ad averne esperienza diretta e continuata. Anche l’organizzazione di tutto il comparto dell’istruzione rispecchia tali atteggiamenti. È così che Louis Jacques Bresnier, allievo di Silvestre de Sacy, giunge nel 1836 ad Algeri con il compito di potenziare la qualità dell’insegnamento dell’arabo e conferirgli un’impronta (finalement!) fortemente scientifica. Ma rimane difficile, comunque, esprimersi sulla quantità degli europei residenti in Nord Africa che avessero un’effettiva padronanza dell’arabo. Al riguardo, Bresnier nel 1838 riferisce qualche cifra per Algeri che appare significativa e, molto più tardi, nel 1883, avrebbe fatto lo stesso anche Louis Machouel, inviato in missione in Tunisia per ragioni analoghe. Tuttavia, una decina di anni dopo la conquista di Algeri, molti alti funzionari dovranno deplorare ancora il basso livello di apprendimento dell’arabo da parte degli europei, a fronte invece di una francofonia già ben radicata presso la popolazione locale. Eugène Fromentin, uomo di lettere e pittore, nel 1846 sosterrà infatti che in Algeria «nous baraguinons de l’arabe et les Arabes parlent correctement la langue de Bossouet» [p. 291].
Di lì a poco, con la Seconda Repubblica, il comparto dell’istruzione avrebbe conosciuto un’ulteriore riforma nel 1850 con l’apertura delle scuole franco-arabe, atte ad estendere la francesizzazione della società, e quindi le medersa riformate di Costantina, Tlemcen e Medea. Queste ultime, a loro volta, avrebbero dovuto formare il personale giuridico e religioso nonché il corpo docente arabo-musulmano delle scuole franco-arabe.
Come già accennato, il dibattito sulla lingua è distinguibile in filigrana in più occasioni lungo tutto il volume. L’autore dà conto anche dell’annosa questione scrittoria che ha visto i promotori dell’alfabeto latino contrapporsi a quelli dell’alfabeto arabo, due ideologie profondamente distanti l’una dall’altra. Accanto alla serena discussione scientifica sul rendimento funzionale della scrittura araba, si facevano strada anche concezioni aberranti, come quelle di tale Sophie Liet – arabista per caso –, ansiosa di imporre a tutti i popoli la sua clef della lingua araba, in una trascrizione latina da lei concepita che avrebbe finalmente consentito agli Arabi di «connaître eux-mêmes l’alphabet universel» con cui riscrivere il testo sacro dell’Islam e diffondere i capolavori di A. Dumas e di Ch. Dickens.
Nel 1859, in una recensione a un libretto dell’abate Charles Leguest, l’interprete Tatius Duvernois prende a modello greco antico e moderno per riferire il solco esistente tra arabo parlato e letterario in Algeria. L’episodio ha un rilievo storico da non sottovalutare, perché cronologicamente collocabile con un anticipo gigantesco rispetto alla definizione della diglossia che sarebbe sortita dall’incontro tra il grande maghrebinista William Marçais e il linguista greco Jannis Psichari nel 1930[1], se non addirittura eccezionale rispetto alla formulazione classica e più nota del linguista statunitense Ch. Ferguson del 1959[2].
Numerosi sono i nomi di grandi luminari risalenti a quell’epoca che vengono ininterrottamente menzionati nel volume e gli avvicendamenti relativi alle loro carriere non possono che costituirsi come una storia della disciplina. La tripartizione tipicamente francese in tre cattedre, arabo letterario, arabo orientale e arabo maghrebino, si definirà risolutivamente quando all’École des Langues Orientales nel 1879 la cattedra d’arabe littéral verrà conferita a Hartwig Derenbourg, nel 1916 quella di arabe maghrébin a William Marçais, succeduto a Octave Houdas, mentre quella d’arabe oriental sarà creata per Adrien Barthélemy, e nel 1913 Edmond Destaing inizierà il suo magistero di berbero. Nel 1910, infine, il successore di Hartwig Derenbourg per l’arabe littéral sarà designato da un concorso a cattedra con due candidati, il giudeo-tunisino Émile Amar e il cattolico Maurice Gaudefroy-Demombynes che vincerà per cinque voti contro quattro, fra aspre polemiche (pilotate?) che per diversi giorni avranno echi anche sulla stampa dell’epoca.
Il volume comunque non si ferma alla storia dell’orientalistica parigina e marsigliese e di quella trapiantata in Nord Africa ma arriva ben oltre, tratteggiando le origini delle sociétés savantes e dei grandi congressi orientalistici, nonché la genesi degli studi arabistici nelle nuove sedi di Montpellier e Lione, Nancy e Bordeaux.
Quanto alla sua struttura, il libro consta di nove capitoli organizzati in tre parti secondo la successione cronologica degli eventi: «Tradition érudite et premiers projets coloniaux (1780-1840)», «Les études arabes à l’épreuve de l’occupation algérienne: science, guerre et colonisation», «Les arabisants entre académisme et mission civilisatrice».
Il libro è accompagnato da un secondo volume, in versione digitale, che funge da complemento: Alain Messaoudi, Les arabisants et la France coloniale. Annexes, ENS Éditions, Lyon, 2015, pp. 517, ISBN: 9782847887105, disponibile in formato pdf all’indirizzo <http://books.openedition.org/enseditions/3726>. Questa appendice è costituita essenzialmente da tre grandi capitoli: «Notices biographiques», «Fauteuils et chaires des établissements français», «Textes et tableaux». Lo scopo è quello di riunire in un unico volume i profili delle carriere dei principali protagonisti del primo volume, privilegiando la descrizione delle carriere degli «arabisants ayant à leur actif une ou plusieurs publications, sans faire de ce critère une règle systématique», buona parte dei quali professori attivi ad Algeri dopo il 1880 [p. 3]. Il quadro completo restituisce tuttavia un’immagine ben più ampia di traduttori, interpreti civili e militari, arabisti amateurs e professionisti, insegnanti di collegi e licei nonché accademici, fino ai direttori delle scuole franco-arabe.
In conclusione, quest’opera non potrà che rivelarsi un prezioso ausilio per coloro che vorranno accostarsi alla storia moderna della disciplina in una nazione consorella che per lungo tempo è stata, e tuttora continua ad essere, un punto di riferimento per l’analisi della cultura arabo-islamica.

Giuliano Mion


[1]  W. Marçais, La diglossie arabe, in “L’Enseignement Public”, 104, 1930,    pp. 401-409.
[2]  Ch. Ferguson, Diglossia, in “Word”, 15, 1959, pp. 325-340.

This is an Article from La Rivista di Arablit - Anno VI, Numero 11, giugno 2016

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