Ṭāhā Ḥuseyn, Conversazioni del mercoledì (Ḥadīṯ al-arbaʿāʾ)

in La rivista di Arablit, a. XI, n. 21-22, giugno-dicembre 2021, pp. 134-137.

Le conversazioni d’argomento letterario che Ṭāhā Ḥusayn intrattiene con i suoi lettori sulle pagine del quotidiano “al-Siyāsah” prima e “al-Ǧihād” poi, prendono da subito la forma di un appuntamento settimanale. Della raccolta di questi articoli si compone Ḥadīṯ al-arbaʿāʾ, un’opera inconsueta del celebre intellettuale e letterato egiziano e primo titolo, nella puntuale traduzione di Isabella Passerini, della collana Traduzioni, studi e ricerche sulla nahḍah, edita dall’Istituto per l’Oriente C. A. Nallino. Il volume si apre con la Presentazione di Isabella Camera d’Afflitto, direttrice della collana, della quale esplicita finalità e rilevanza, ben rappresentate Conversazioni del mercoledì.
La traduzione usa come testo-fonte la terza e ultima edizione dell’opera del 1937 la quale, riorganizzata cronologicamente rispetto alle precedenti, ripercorre la storia della letteratura araba dalla poesia preislamica alla produzione poetica erotica d’epoca omayyade (primo volume), dalla modernità abbaside (secondo volume) fino alla contemporaneità (terzo volume). In particolare, Isabella Passerini traduce l’intero secondo volume della terza edizione delle Conversazioni, nel quale Ṭāhā Ḥusayn discute le innovazioni della poesia araba d’epoca abbaside per poi dedicarsi a ritrarre i maggiori tra i poeti moderni, i muḥdaṯūn, e in modo particolare Abū Nuwās (m. 198-200/813-815) che di questi è il caposcuola. Al nucleo originario degli Ḥadīṯ si aggiunge la traduzione dell’Introduzione alla prima edizione del 1925 (primo capitolo), dove l’autore insiste sulla natura non sistematica del testo, che definisce «la raccolta di una serie di pagine messe l’una insieme all’altra» [p. 3], e l’articolo “Leggendo la poesia antica” (secondo capitolo), parte del primo volume della terza edizione, esemplificativo del tono dialogico, discorsivo e familiare che caratterizza l’opera e più in generale l’intera produzione critica di Ṭāhā Ḥusayn. Nell’articolo l’autore, seppur consapevole di quanto «indole, carattere e gusto» [p. 8] dei lettori del suo tempo siano distanti dalla sensibilità degli antichi, auspica che la letteratura preislamica continui a vivere nell’epoca moderna non come vestigia di un passato idealizzato bensì quale «necessità della vita intellettuale […] e nutrimento per i cuori e per le menti» [p. 12]. La modernità profonda di Ṭāhā Ḥusayn non rinnega dunque l’antico, ma ne fa tesoro e su di esso si fonda.
Il testo si compone di ventinove capitoli e una corposa Introduzione della traduttrice, uno strumento prezioso che guida il lettore tra le pieghe della riflessione letteraria dell’autore, chiarendone principi e platea d’elezione.
Ṭāhā Ḥusayn si rivolge a un pubblico vasto, e prova ne è il mezzo di diffusione scelto, il quotidiano, che mal si presta a un meticoloso approfondimento scientifico. Circa l’efficacia di proporre al lettore medio dell’Egitto degli anni Venti del Novecento «citazioni di versi non vocalizzati di antichi poeti, privi di qualsiasi nota esegetica» [p. xix], è interessante il richiamo alle perplessità di Francesco Gabrieli, che aprono ad una riflessione ulteriore sul metodo adottato.
Inoltre, nell’Introduzione Isabella Passerini discute la lingua e la terminologia utilizzata, con un’attenta disamina dell’opposizione tra “antichi e moderni”, qudamāʾ e muḥdaṯūn. Allo scontro tra tradizione e innovazione sono dedicati i capitoli dal terzo al decimo, seppure l’attenzione si sposti maggiormente sulla figura di Abū Nuwās già dal nono. Ṭāhā Ḥusayn, pur riconoscendo l’importanza dello scontro tra vecchio e nuovo, ne mette in dubbio l’onestà, considerando le posizioni estreme assunte dai partigiani dell’una e dell’altra corrente frutto di fazioso fanatismo, più che di consapevole convincimento. Quanto alla storia della letteratura araba, Ṭāhā Ḥusayn spiega come le definizioni di “antichi” e “moderni” siano in continuo mutamento ed evoluzione. Così, se tra il primo e il secondo secolo dell’Egira lo scontro si accende tra poeti preislamici e islāmiyyūn (poeti nati dopo l’avvento dell’Islam), in seguito saranno Baššār b. Burd (m. 166/783), Abū Nuwās e i loro epigoni i nuovi muḥdaṯūn, a loro volta succeduti da Abū Tammām (m. 231/846) e al-Buḥṭurī (m. 283/897). Ad ogni modo, Ṭāhā Ḥusayn ridimensiona la portata dell’innovazione in epoca abbaside. Per l’autore, il lessico, il contenuto e le tematiche della poesia moderna rispecchiano quelle della poesia preislamica e la prima causa di questo mancato rinnovamento è da ritrovarsi nell’ignoranza, da parte degli arabi, delle letterature straniere (greca, persiana, indiana), che preclude loro la possibilità di ispirarsi e prendere esempio da nuovi modelli: «gli arabi non conobbero nulla degno di nota delle letterature straniere, né si mescolarono ad altri popoli dal punto di vista letterario e intellettuale» [p. 28]. L’autore individua, inoltre, i prodromi di una qualche innovazione già in epoca omayyade con la nascita della poesia d’amore (ġazal) e della poesia politica (al-šiʿr al-siyāsī), discusse rispettivamente nel quinto e nel sesto capitolo del testo in traduzione.
Infine, come si è detto, ampio spazio viene riservato alle opere dei poeti «della dissolutezza e della leggerezza» [p. 5], alle loro vite da cortigiani e ai loro rapporti con i califfi di Baghdad. Primo fra gli illustri rappresentanti dell’epoca (introdotta nell’ottavo capitolo) a essere raccontato, e più diffusamente, è dunque Abū Nuwās, «un uomo che indugiava nei piaceri pubblicamente» [p. 64] e del quale vengono discusse le odi omoerotiche (muḏakkarāt), bacchiche (ḫamriyyāt; i precursori del genere sono trattati nel tredicesimo capitolo), erotiche (ġazal) e finanche ascetiche (zuhdiyyāt), nonché il poema osceno (muǧūn).
Altre figure di rilievo sono ritratte nei capitoli dal ventesimo al ventottesimo: il poeta e califfo omayyade al-Walīd b. Yazīd (m. 126/744), «un assoluto libertino» [p. 159] e precursore di Abū Nuwās e Baššār b. Burd; Muṭīʿ b. Iyās (m. 169/785) – verso il quale Ṭāhā Ḥusayn non nutre particolari simpatie e che descrive come insincero e calcolatore –, che «fu omayyade al tempo della dinastia omayyade […] e abbaside quando Dio garantì il potere a quella dinastia» [p. 175]. Malgrado ciò, il ventunesimo capitolo a lui dedicato si conclude con le parole di Abū ’l-Faraǧ al-Iṣfahānī nel Kitāb al-aġānī, che lo definisce «non tra i poeti un campione ma piacevole, dissoluto e licenzioso» [p. 181].
Proseguendo con la disamina vi è la figura di Ḥammād ʿAǧrad (m. 155-168/772-784), membro del gruppo dei “libertini di Kufa” e noto soprattutto per i suoi caustici versi di vituperio, e anche quella del poeta cortigiano Ḥusayn b. al-Ḍaḥḥāk al-Bāhilī (m. 250/864), soprannominato al-Ḫalīʿ, “il Debosciato”, intimo amico del califfo al-Amīn e che Ṭāhā Ḥusayn descrive come «un poeta amabilissimo, forse il più elegante tra i poeti d’epoca abbaside» [p. 195], convinto che il suo linguaggio, seppur caratterizzato da una certa dissolutezza, non fu quasi mai osceno o volgare.
Del summenzionato Baššār b. Burd, discusso nel ventiquattresimo e nel venticinquesimo capitolo, Ṭāhā Ḥusayn apprezza le doti poetiche ma non quelle umane: «ritengo che un poeta non debba risultarti amabile solo per il fatto di essere bravo, giacché occorre che a quella bravura egli unisca altre virtù» del quale Dio aveva lasciato Baššār sprovvisto [p. 210].
Chiudono il volume i poeti cortigiani e politici Abān b. ʿAbd al-Ḥamīd (m. 200/815-816), Marwān b. Abī Ḥafṣah (m. 182/798) e al-Sayyid al-Ḥimyarī (m. 173-179/789-795).
Infine, per muoversi agilmente tra le moltissime figure citate, si rivelano essenziali gli accurati indici dei nomi e dei luoghi che seguono una ragionata bibliografia. Ḥadīṯ al-arbaʿāʾ, un’opera della nahḍah diffusamente discussa dalla critica e mai tradotta prima d’ora in una lingua europea, è di indiscutibile valore per gli specialisti ma si rivela anche raro strumento didattico che, nel dialogare con il passato, mostra altresì l’epoca dell’autore e i suoi rivolgimenti.

Odetta Pizzingrilli

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